Il giorno della votazione per l'impeachment, Adam Kinzinger, uno dei pochi repubblicani che aveva espresso qualche dissenso nei confronti di Donald Trump, non pronunciò alcun discorso sul processo. Si limitò a votare contro l'impeachment e a rilasciare una dichiarazione che non conteneva una sola parola critica nei confronti di Trump. In essa, Kinzinger condannò il processo di impeachment come "altamente partigiano" e le accuse come "deboli", sostenendo che i Democratici avevano messo in atto una "crociata senza fine" contro il presidente. Secondo lui, i Democratici avevano cercato, sin dal giorno dell'elezione di Trump, ogni mezzo per delegittimarlo e rimuoverlo dall'incarico. Ma, nonostante tutti gli sforzi, avevano fallito miseramente. La strategia di "Anti-Anti-Trumpismo" si rivelò efficace, colpendo direttamente quei repubblicani come Kinzinger che, pur non giustificando le azioni di Trump, si sentivano comunque in dovere di difenderlo contro quello che consideravano un attacco politico senza fondamento.
I difensori di Trump avevano compreso che la miglior tattica fosse quella di trasformare l'impeachment in un circo politico, consapevoli che ciò avrebbe dissuaso molti membri del Congresso dal votare a favore di un processo così partigiano. La mossa fu vincente. L'idea che fosse un'inchiesta partigiana, e quindi da respingere, trovò un terreno fertile tra molti repubblicani. La frustrazione di Daniel Goldman, uno degli avvocati di Schiff, rifletteva quanto questa logica avesse avuto successo: l'argomento circolare di respingere l'impeachment per la sua natura partigiana aveva convinto molti, ma era un argomento che svuotava il dibattito di ogni sostanza.
Kinzinger, a posteriori, avrebbe dichiarato che il suo voto contro l'impeachment fosse stato uno dei suoi più grandi rimpianti. Riflettendo sull'accaduto, ammise di aver preso la decisione sbagliata, un errore che condivideva con molti suoi colleghi repubblicani, i quali avevano cercato di navigare in una situazione politica sempre più complessa. La votazione finale si concluse con 230 favorevoli e 197 contrari, con un'astensione di Tulsi Gabbard. L'unico repubblicano a votare a favore dell'impeachment fu Justin Amash, un libertario del Michigan che aveva lasciato il partito la scorsa estate a causa delle sue preoccupazioni riguardo a Trump e aveva annunciato che non si sarebbe ricandidato. Nel frattempo, Trump si trovava in un comizio a Battle Creek, Michigan, esultando per la fedeltà del suo partito. Nonostante l'impeachment, il sostegno tra i repubblicani sembrava indissolubile.
Il giorno prima della votazione, Trump aveva voluto comunque procedere con una cerimonia che celebrava l'approvazione di una legge bipartisan per il finanziamento permanente delle università storicamente nere. Sebbene la legge non fosse ancora arrivata alla Casa Bianca, Trump aveva deciso di proseguire senza il documento fisico. La cerimonia, però, non aveva alcun annuncio pubblico e non era stata inserita nel suo programma ufficiale, a testimoniare la sua frustrazione per la situazione politica. Il presidente non aveva intenzione di impegnarsi in finte dimostrazioni di bipartitismo mentre si preparava per il processo di impeachment. Le sue emozioni erano rivolte non solo contro i Democratici, ma anche contro i Repubblicani che considerava troppo deboli per difenderlo con veemenza.
Anche alcuni senatori repubblicani presenti alla cerimonia, come Lamar Alexander e Tim Scott, si trovarono coinvolti, seppur in modo indirettamente legato al processo. Trump, durante l'incontro, non si limitò a parlare della legge, ma cercò anche di influenzare i senatori che avrebbero dovuto giudicarlo durante il processo. Non si trattava solo di raccogliere i loro voti, ma anche di utilizzare la loro influenza per far valere la sua versione dei fatti. Mentre Scott si dichiarava un fedele sostenitore del partito, Alexander, un veterano della politica, si trovava in una posizione più incerta. Nonostante la sua lunga carriera e la sua fedeltà all'establishment repubblicano, Alexander aveva ormai chiaro che la sua responsabilità era quella di lavorare con Trump, ma non senza riserve. Il suo giudizio finale sarebbe stato cruciale, soprattutto sul tema della chiamata di testimoni, che si stava trasformando in uno dei punti più controversi del processo.
La vera sfida che i Repubblicani si trovavano ad affrontare era quella di fare una scelta: stare con Trump o opporsi a lui? Questo dilemma divenne il cuore del processo di impeachment e un test decisivo per l'unità del partito. In un certo senso, la posizione di Alexander rappresentava quella di molti nel partito: disillusi dal comportamento di Trump, ma incapaci di sfidarlo apertamente.
L'impeachment, quindi, non solo rappresentava un tentativo di rimuovere Trump dall'incarico, ma metteva a nudo le divisioni profonde all'interno del partito Repubblicano, che non riusciva a decidere quale fosse la sua vera direzione. Ogni voto, ogni dichiarazione, ogni mossa politica diveniva un indicatore di come il partito stesse cercando di definire il proprio futuro.
La votazione finale non era solo il culmine di un processo, ma un segno di una lotta ideologica che avrebbe continuato a scorrere nelle vene della politica americana per anni a venire. La divisione tra i repubblicani fedeli a Trump e quelli disillusi da lui sarebbe diventata una linea di faglia sempre più visibile e difficile da ignorare.
Come Trump ha affrontato la pandemia: confusione, rifiuto e la reazione del suo governo
Il 2020 iniziò con Donald Trump più sicuro che mai della sua posizione, ma l’emergere della pandemia da COVID-19 avrebbe sfidato non solo la sua presidenza, ma anche la sua visione di potere. La storia della sua risposta al virus è quella di un uomo che, abituato a dominare la scena politica con dichiarazioni potenti e piani grandiosi, si trovò a fronteggiare una crisi che non poteva controllare con il solito approccio.
Quando il virus iniziò a diffondersi, la risposta iniziale del presidente fu più una serie di negoziati interni che una vera azione decisiva. Mulvaney, il capo dello staff, decise di prendersi una pausa, volando a Las Vegas per seguire il torneo NCAA di basket, come programmato, nonostante l'intensificarsi della situazione. Quando Trump scoprì del viaggio, il suo rimprovero fu rabbioso: “Come puoi partire in un momento come questo?”, ma era tutta una facciata. Mulvaney aveva informato Trump del viaggio con anticipo e, inoltre, la posizione di capo dello staff era stata già offerta a Mark Meadows, a testimonianza di un cambiamento in corso nell’amministrazione. Trump, infatti, sembrava più preoccupato della sua rielezione che della crisi sanitaria imminente, cercando un uomo che potesse sostituirlo nella gestione della Casa Bianca e che fosse un “combattente”.
Quando Meadows, che sarebbe dovuto subentrare come capo dello staff, si trovò a dover fare la quarantena dopo un’esposizione al virus, la Casa Bianca rimase senza un vero capo per un periodo critico. Ma Meadows, così come Mulvaney prima di lui, non sembrava allarmato dalla pandemia. Entrambi erano convinti che gli esperti di salute pubblica stessero esagerando la gravità della situazione. Eppure, tra i frequentatori di Mar-a-Lago, c’era chi aveva già iniziato a capire la serietà del problema. Tucker Carlson, noto commentatore di Fox News, si recò appositamente al club di Trump per cercare di convincerlo a prendere la situazione più seriamente, ma il presidente rimase indifferente.
Nel frattempo, le infezioni si diffondevano velocemente negli Stati Uniti e, quando Trump tornò alla Casa Bianca, la gravità della situazione divenne sempre più evidente. L’Italia era già in lockdown e presto anche il resto d’Europa avrebbe seguito. All’interno della Casa Bianca, i dibattiti sull’opportunità di bloccare i voli dall’Europa segnarono una delle prime frizioni tra l’economia e la salute pubblica. Steven Mnuchin, segretario al Tesoro, fu fermamente contrario a qualsiasi misura che avrebbe potuto danneggiare l’economia, avvertendo che una chiusura simile avrebbe potuto portare a una depressione globale. Dall’altra parte, Deborah Birx, la coordinatrice per il COVID-19, si scontrò direttamente con Mnuchin, sfidando le sue affermazioni con dati concreti, ma senza riuscire a ottenere il consenso del presidente.
Nonostante le resistenze interne, Trump accettò parzialmente una limitazione dei voli provenienti dall’Europa, escludendo però la Gran Bretagna, apparentemente come una forma di compensazione per la sua uscita dall’Unione Europea. La decisione fu presa in fretta, e la notte stessa Trump si preparò a un discorso televisivo nazionale dalla Casa Bianca. Quello che doveva essere un momento di rassicurazione per il popolo americano si trasformò in un’occasione mancata. Il suo discorso fu perlopiù piatto e privo della forza che ci si aspettava da un leader in un momento di crisi. Trump, pur leggendo dal teleprompter, commise errori nei dettagli delle politiche che stava cercando di implementare. Piuttosto che rassicurare, sembrò dividersi tra il tentativo di descrivere la pandemia come un’eccezione, mentre continuava a minimizzare i rischi per gli americani.
Le settimane successive segnarono il culmine della frustrazione per molti dentro e fuori la Casa Bianca. La pandemia non rispondeva agli usuali strumenti di potere di Trump: non c’erano post su Twitter o comizi che potessero arginare l’avanzata del virus. Mentre la nazione si preparava ad affrontare una crisi sanitaria senza precedenti, Trump e il suo governo si ritrovavano a fare i conti con una realtà che non avevano mai veramente preso in considerazione.
Oltre alla risposta politica di Trump, è fondamentale comprendere come questa situazione abbia messo in evidenza una delle principali fragilità del suo approccio al governo: la mancanza di una preparazione adeguata e la tendenza a minimizzare le crisi, specialmente quando queste minano direttamente la sua autorità. La pandemia, infatti, ha costretto il paese a fare i conti con la vulnerabilità del sistema sanitario e con una leadership che non era pronta ad affrontare una crisi globale di tale portata.
Inoltre, va sottolineato che mentre Trump continuava a concentrarsi sulla minimizzazione del rischio, la pandemia mostrava un altro aspetto cruciale: la disconnessione tra l’élite politica e la realtà quotidiana della gente comune. La risposta disorganizzata e l’incapacità di coordinare una strategia nazionale hanno avuto un impatto devastante sul paese, mettendo in evidenza le carenze del sistema politico e sanitario degli Stati Uniti. Queste problematiche non solo hanno messo in difficoltà Trump, ma hanno anche evidenziato la necessità di una leadership che sappia rispondere in maniera efficace a emergenze globali.
Come Jared Kushner ha Navigato il Caos della Casa Bianca di Trump
Nel contesto del suo mandato alla Casa Bianca, Jared Kushner si è distinto come una figura di spicco che ha plasmato molteplici iniziative politiche, anche se spesso senza l'approvazione formale di altri membri dell'amministrazione. Nonostante la sua giovane età, appena trentasei anni al momento del suo arrivo a Washington, e la sua formazione politica non convenzionale, Kushner si è rivelato una delle forze più determinanti nella Casa Bianca di Trump, guadagnandosi la reputazione di "segretario di tutto" che gestiva un portafoglio variegato e complesso, da politica sanitaria e giustizia penale a negoziazioni internazionali e riforma commerciale.
Inizialmente considerato come una sorta di outsider, Kushner riuscì ad imporsi, oscurando figure ben più esperte della politica come i segretari di stato o i capi di gabinetto. Tra le sue principali realizzazioni vi sono la rinegoziazione dell'accordo del NAFTA, la riforma della giustizia penale, e la creazione di canali diplomatici con paesi come la Cina e la Corea del Nord. Tuttavia, la sua figura è stata anche oggetto di controversie e critiche. Alcuni lo consideravano un pragmatista capace di navigare il tumultuoso ambiente della Casa Bianca, mentre altri lo vedevano come un opportunista che si muoveva nell’ombra per consolidare il suo potere personale.
Uno degli aspetti più interessanti della sua gestione delle crisi era la sua strategia nel trattare con Trump. Contrariamente a molti altri consiglieri che cercavano di rallentare o modificare i comportamenti impulsivi del presidente, Kushner aveva imparato che cercare di cambiare Trump era inutile e controproducente. Piuttosto, il suo approccio era quello di incanalare l’energia di Trump verso obiettivi che sembrassero accettabili per lui, presentando sempre una forte dose di notizie positive. Kushner utilizzava una formula semplice, ma efficace, nella sua interazione con il presidente: ogni comunicazione doveva contenere un rapporto di due notizie positive per ogni informazione negativa. In questo modo, riusciva a minimizzare le sue reazioni impulsive e a mantenere un'apparenza di ordine in un ambiente intrinsecamente disorganizzato.
Tuttavia, nonostante la sua abilità nel manipolare la comunicazione e ottenere successi diplomatici, Kushner non era immune dalle difficoltà interne alla Casa Bianca. Il suo rapporto con Trump, pur essendo quello di un figlio acquisito e consigliere, non era sempre idilliaco. Trump, sebbene gli abbia concesso una notevole autorità, era spesso un capo difficile da soddisfare. Rare volte lo ringraziava apertamente per il suo lavoro, preferendo invece l’approccio diretto e talvolta brusco che caratterizzava le sue conversazioni: "Che cazzo sta succedendo qui?" era una delle domande tipiche che Kushner doveva affrontare a tutte le ore del giorno e della notte.
La posizione di Kushner alla Casa Bianca era, in molti modi, una corsa ad ostacoli. In un ambiente dove le alleanze erano precarie e le rivalità interne costanti, qualsiasi passo falso rischiava di portare alla rovina. Molti membri dell'amministrazione venivano licenziati o relegati ai margini, ma Kushner, purtroppo, aveva imparato a navigare tra le acque turbolente della politica interna con cautela. La sua abilità nel farlo lo ha fatto sopravvivere, mentre altri sono scomparsi dalla scena politica. La sua strategia era quella di evitare conflitti inutili con Trump e concentrarsi su obiettivi pratici che potessero ottenere risultati concreti.
La visione di Kushner sul funzionamento della Casa Bianca, purtroppo, non sempre coincideva con quella di molti altri membri dell’amministrazione, che faticavano a capire la logica di un presidente tanto imprevedibile. La costante lotta per mantenere la propria posizione in un ambiente così volatile ha evidenziato un aspetto fondamentale della gestione della politica sotto Trump: la capacità di adattarsi e di non perdere mai di vista l’idea che alla fine fosse sempre "lo spettacolo di Trump", e tutti gli altri dovevano solo riuscire a rimanere in piedi mentre lui faceva le onde.
In questo contesto, la difficoltà di Kushner nel gestire la crisi della sua famiglia e delle indagini legate alle sue azioni, tra cui l'incontro con i russi al Trump Tower e le inchieste su possibili connessioni con il governo di Mosca, non è da sottovalutare. Nonostante le accuse e la crescente pressione, Kushner ha scelto di rimanere alla Casa Bianca, cercando di purificare il proprio nome e portare a termine gli incarichi che gli erano stati assegnati.
L’amministrazione Trump si è rivelata un’esperienza estremamente difficile per chiunque cercasse di navigare le acque torbide della politica con l’intento di ottenere un buon risultato. La lezione che si può trarre da questa esperienza è che, in un ambiente così tumultuoso, è necessario un mix di diplomazia, adattabilità e, soprattutto, una profonda comprensione delle dinamiche del potere. Ogni figura che si sia trovata alla Casa Bianca sotto la presidenza di Trump ha dovuto affrontare una serie di sfide senza precedenti, e Kushner non è stato certamente esente da queste difficoltà.
Tuttavia, la sua carriera in quel periodo dimostra quanto, in un contesto tanto caotico, sia cruciale saper manovrare tra le correnti, gestire le aspettative e, al contempo, mantenere un profilo che garantisca la propria sopravvivenza politica.
Quali dinamiche politiche e sociali hanno definito la presidenza di Donald Trump?
La presidenza di Donald Trump è stata una delle più polarizzanti e controverse della storia recente degli Stati Uniti, e ancora oggi le sue implicazioni politiche, sociali e culturali continuano a essere oggetto di dibattito e studio. Le sue politiche, la sua retorica e il modo in cui ha gestito il potere hanno segnato in modo indelebile l’America, portando alla luce contrasti profondi tra diversi settori della società e nuovi paradigmi di interazione politica.
Una delle caratteristiche principali della sua presidenza è stata la sua capacità di mobilitare un’ampia base di supporto, specialmente tra i gruppi di elettori che si sentivano emarginati o ignorati dalle élite politiche tradizionali. Il suo messaggio di “Make America Great Again” ha risuonato in molte comunità che percepivano il cambiamento demografico, economico e tecnologico come una minaccia alla loro identità e al loro benessere. Trump ha saputo incarnare e amplificare questo malessere sociale, proponendo soluzioni che spesso attingevano a un nazionalismo populista, rifiutando la globalizzazione e promuovendo politiche protezionistiche.
A fianco di questa retorica, la sua amministrazione ha operato con una serie di politiche interne ed estere che hanno segnato una rottura rispetto alle tradizioni precedenti. Sul fronte economico, ha implementato tagli fiscali per le imprese e per i più ricchi, che però non hanno portato ai risultati promessi, con un incremento della disuguaglianza economica e una crescita del debito pubblico. Tuttavia, la promessa di creare posti di lavoro attraverso politiche industriali protezionistiche e il rafforzamento del mercato interno ha trovato terreno fertile tra i suoi sostenitori.
Sul piano della politica estera, la sua amministrazione ha adottato un approccio di forte discontinuità. Il ritiro dagli accordi internazionali, come l’accordo sul clima di Parigi e l’accordo nucleare con l'Iran, è stato visto da molti come un tentativo di riaffermare la supremazia americana, ma ha anche alienato alleati storici degli Stati Uniti. La politica di “America First” ha enfatizzato il miglioramento delle condizioni economiche degli Stati Uniti, ma anche una visione più isolazionista della politica internazionale.
Nel contempo, Trump ha alimentato divisioni interne attraverso la sua retorica aggressiva nei confronti delle minoranze e dei gruppi di opposizione. La gestione della pandemia di COVID-19, il suo rapporto con le forze dell'ordine e le sue dichiarazioni contro le manifestazioni di Black Lives Matter hanno ulteriormente polarizzato il Paese, portando a scontri tra manifestanti e forze dell'ordine e accrescendo il divario sociale e razziale.
Anche la gestione della sua immagine pubblica è stata unica nel suo genere. Con un uso implacabile dei social media, in particolare Twitter, Trump ha sorpassato i tradizionali canali mediatici, utilizzandoli per comunicare direttamente con il popolo e per lanciare attacchi incessanti contro i suoi detrattori. Questa pratica ha avuto effetti collaterali sia positivi che negativi, dal momento che ha ridotto la distanza tra il leader e i suoi elettori, ma ha anche alimentato la diffusione di disinformazione e polarizzato ulteriormente l’opinione pubblica.
La sua amministrazione è stata costantemente minata da scandali, inchieste e accuse di corruzione. L’impeachment, le indagini sul Russiagate e le discussioni sulle sue connessioni con figure e poteri al di fuori dei tradizionali canali governativi hanno minato la sua credibilità agli occhi di molti. Nonostante ciò, la sua capacità di resistere a numerosi attacchi e di mantenere il controllo su una porzione significativa del suo elettorato dimostra la resilienza di un politico che ha sempre sfruttato l’idea di essere un outsider contro l'establishment.
Inoltre, un altro aspetto che merita attenzione è il suo rapporto con le istituzioni democratiche. La sua condotta durante e dopo le elezioni presidenziali del 2020, culminata nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, ha sollevato interrogativi sull’integrità delle istituzioni americane e sul rispetto per il processo democratico. Le sue affermazioni infondate di frode elettorale hanno alimentato la divisione e la sfiducia nella politica, portando a uno dei momenti più critici della storia recente degli Stati Uniti.
Il bilancio finale della presidenza Trump è ambiguo e dipende dalla prospettiva di chi lo giudica. Per alcuni, Trump è un eroe che ha dato voce a milioni di americani dimenticati, sfidato l’establishment e cercato di riportare l’America al suo antico splendore. Per altri, è un demagogo che ha alimentato le divisioni sociali, minato la democrazia e compromesso la posizione internazionale degli Stati Uniti.
Oltre alla politica interna ed estera, è cruciale considerare come la figura di Trump abbia trasformato l’approccio alla leadership nel contesto globale. Il suo stile populista, diretto e spesso senza fronzoli, ha influenzato in modo significativo la politica di altri Paesi, alimentando una nuova ondata di nazionalismo e sovranismo in numerosi luoghi del mondo. Questo fenomeno, purtroppo, non si limita agli Stati Uniti, ma risuona in Europa, in America Latina e in altre regioni, dove leader simili stanno emergendo con messaggi che sfidano l’ordine liberale internazionale.
L’evoluzione politica globale, quindi, non può essere completamente compresa senza prendere in considerazione l'eredità della presidenza Trump e il modo in cui ha riscritto le regole della politica internazionale e della comunicazione politica.
Come Donald Trump ha ridefinito la presidenza: l’evoluzione del suo approccio e la sua visione
La presidenza di Donald Trump ha rappresentato una rottura netta rispetto ai suoi predecessori, siano essi democratici o repubblicani. Non si trattava di un'ideologia articolata, ma di una convinzione fissa che risaliva agli anni '80: l'idea che gli Stati Uniti fossero stati ingannati tanto dai propri alleati quanto dai nemici. Il suo approccio alla politica era permeato da una profonda diffidenza nei confronti delle istituzioni e degli esperti, che considerava inutili o, nel migliore dei casi, non essenziali.
Trump, al contrario, si distingueva per un’autosufficienza estrema, alimentata dal suo personalissimo senso di superiorità. Non aveva bisogno di un processo politico formale o di una struttura rigorosa: aveva vinto contro ogni previsione e per lui questo significava che le sue idee, anche le più bizzarre, avevano il potenziale per rivelarsi giuste. La sua autocompiacente fiducia lo portava a rifiutare la consulenza degli esperti, che, secondo lui, non avevano compreso la realtà come lui l’aveva vissuta. In fondo, la sua elezione era la dimostrazione che "l’esperto" non sempre ha ragione, e che l’istinto poteva essere altrettanto potente.
La sua visione del mondo si caratterizzava, quindi, per un disprezzo per la politica estera tradizionale. Non aveva un programma concreto per ripristinare la grandezza dell’America, ma una profonda avversione verso chiunque cercasse di guidare il paese in modo più convenzionale. I presidenti passati, nel suo racconto, erano dei "sciocchi", incapaci di preservare il primato degli Stati Uniti. Era affascinato dai leader autoritari come Vladimir Putin e Xi Jinping, convinto che la forza e la determinazione fossero il mezzo migliore per restaurare l’onore nazionale.
In questa visione, Trump non cercava una coerenza ideologica, ma piuttosto un brand, un'immagine. La sua presidenza era una continuazione della sua carriera di sviluppatore immobiliare e di personaggio pubblico: doveva essere vista, sentita, ricordata. Il suo obiettivo non era solo esercitare il potere, ma costruire la realtà che voleva vivere e trasmettere agli altri. Questo concetto di "costruzione della realtà" si rifletteva anche nel suo approccio alla Casa Bianca, che trattava come un set cinematografico. Non era solo questione di arredamento, ma di creare l’ambiente che rappresentasse il suo stile unico e inconfondibile.
Quando arrivò alla Casa Bianca, il suo primo gesto fu simbolico: rimuovere ogni traccia della presidenza di Obama. Le tende rosse furono sostituite da quelle dorate, i divani furono cambiati e persino i tappeti furono rimpiazzati per riflettere una nuova era. La necessità di avere il controllo totale sull'ambiente che lo circondava era evidente, come se l’intera Presidenza fosse solo un altro spazio da brandizzare e personalizzare. Il suo obiettivo non era solo quello di essere ricordato, ma di dominare l’immaginario collettivo con la sua figura.
La figura di Trump può sembrare unica, ma esistono precedenti storici che ne riflettono alcune caratteristiche. Purtroppo, nessuno di questi esempi è riuscito a raggiungere la Casa Bianca. La sua figura sembra quella di un demagogo senza basi ideologiche solide, ma con una grande abilità nel manipolare le percezioni e nel costruire attorno a sé una narrativa convincente. Nonostante avesse passato una vita a scivolare tra diverse alleanze politiche, Trump si è distinto come un vero maestro nell'arte del branding. In questo senso, la sua presidenza è stata, ancora una volta, un esercizio di auto-promozione.
La sua visione, tuttavia, non si limitava a un carisma personale o a una semplice estetica. L'approccio alla politica di Trump è stato altamente opportunistico, caratterizzato da un continuo adattamento alle circostanze. Inizialmente favorevole all’aborto e alla limitazione delle armi, non esisteva posizione che non fosse modificabile per soddisfare il momento politico. Quella che si è delineata alla fine non era una presidenza ideologica, ma una che si alimentava esclusivamente dalla personalità di un uomo che considerava ogni sfida come un’opportunità per riaffermare la propria grandezza.
Trump non ha solo cambiato la Casa Bianca, ma ha ridisegnato anche il concetto stesso di leadership. Non ha mai cercato di costruire un consenso o di seguire un programma, ma ha imposto la sua figura come il centro di ogni discussione. Ha mostrato al mondo che la politica, come qualsiasi altro settore, può essere dominata da chi sa come controllare l'immagine, la narrativa e, soprattutto, il potere che ne deriva.
La figura di Trump come presidente non è solo quella di un uomo al potere, ma quella di un marketer, un venditore che ha applicato le sue tecniche di branding alla politica. La sua presidenza è stata una dimostrazione che la politica, in un’era di mediaticità spinta, non è solo questione di leggi e decisioni, ma soprattutto di come queste vengono percepite e vendute al pubblico. La domanda, dunque, non è cosa faccia un presidente, ma come egli venga percepito fare.
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Elenco del personale docente della Scuola Secondaria di Primo Grado n. 2 di Makaryev, distretto municipale di Makaryev, regione di Kostroma, al 05.09.2018
Mappa tecnologica della lezione Materia: Lingua russa Classe: 3° «B» Insegnante: Elena Nikolaevna Zarutskaya Tema della lezione: Scrittura delle vocali atone nella radice della parola Obiettivo della lezione: migliorare la capacità di scrivere correttamente le parole con le vocali atone nella radice, verificate dall'accento Risultati attesi: Formare le abilità di verificare la scrittura delle vocali atone nella radice, verificate dall'accento; Trovare e selezionare le parole di controllo; Evidenziare le vocali atone nelle parole.

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