L'elezione di Donald Trump, un evento che sembrava destinato a garantire una Casa Bianca immersa nel caos, inizia con una serie di scelte che segnarono la transizione da una campagna presidenziale sopra le righe a una presidenza caratterizzata da conflitti interni e decisioni discutibili. La prima mossa di Trump fu quella di annullare qualunque piano di transizione che era stato pensato, anche se in modo poco serio, prima delle elezioni. Durante la campagna, Trump aveva dato un incarico informale al suo amico, il governatore Chris Christie del New Jersey, per preparare la transizione, ma entrambi pensavano che non sarebbe stato necessario, poiché erano certi che Trump avrebbe perso. Tuttavia, le dinamiche familiari, in particolare l'opposizione di Jared Kushner, il genero di Trump, influenzarono profondamente la situazione. Christie, infatti, era nemico giurato di Kushner, il quale, da giovane procuratore federale, aveva messo in carcere il padre di Jared, Charles Kushner, un uomo d'affari dell'immobiliare che si era vendicato del fratello tramite un video compromettente.

Quando Trump vinse, l'incarico di Christie venne annullato, con il risultato che i documenti preparatori, pieni di piani e idee per l'amministrazione futura, furono semplicemente gettati. Il nuovo capo della transizione divenne Mike Pence, ma la sua funzione rimase puramente consultiva. La prima grande decisione di Trump fu quella di nominare Reince Priebus come capo di gabinetto, nonostante l'ostilità reciproca tra i due. Priebus, infatti, aveva cercato di far ritirare Trump dalla corsa alla presidenza, dopo la pubblicazione del famigerato video di Access Hollywood. La sua nomina rappresentava un tentativo di conciliare l'establishment del partito repubblicano, ma Trump chiarì sin da subito che non avrebbe lasciato a nessuno, nemmeno a Priebus, il pieno controllo.

Priebus, con una lunga carriera all'interno del partito repubblicano, cercò di guidare l’amministrazione secondo le sue esperienze, ma si trovò a dover fare i conti con figure come Steve Bannon, il quale cercava di distruggere la stessa struttura del partito repubblicano, e più in generale l’intero sistema politico americano. Bannon, con la sua ideologia radicale e un’agenda di "decostruzione dello stato amministrativo", aveva trovato in Trump una figura che potesse veicolare i suoi ideali, nonostante le evidenti contraddizioni che questo comportava.

L'ingresso di Priebus e Bannon nel team di Trump segnò un momento cruciale nella Casa Bianca, poiché, pur essendo apparentemente alleati, i due rappresentavano visioni diametralmente opposte. Bannon, infatti, voleva sfruttare l’opportunità di avere un presidente disposto a seguire la sua visione nazionalista e populista per trasformare il partito, mentre Priebus cercava di mantenere una certa stabilità e continuità con il passato. La battaglia interna, seppur incentrata su personalità forti e ambizioni contrastanti, fu l'inizio di una dinamica che avrebbe caratterizzato l'intera presidenza Trump.

La nomina di Bannon come stratega capo della Casa Bianca, subito dopo quella di Priebus, non fece altro che enfatizzare l'imprevedibilità della nuova amministrazione. Nonostante il ruolo ufficiale di Priebus come capo di gabinetto, Trump chiarì che entrambi avrebbero lavorato insieme come "partner eguali", ma la realtà era ben diversa. La lotta per il controllo della Casa Bianca tra questi due uomini sarebbe stata una delle più devastanti, con Trump che, da una parte, cercava di mantenere il controllo attraverso Priebus, e dall'altra si affidava alle idee estremiste di Bannon per consolidare la sua base elettorale.

Per comprendere appieno la complessità di questi eventi, è importante considerare non solo le motivazioni politiche, ma anche gli interessi personali e familiari che hanno alimentato questi conflitti. La rivalità tra Kushner e Christie, la figura di Bannon come elemento di destabilizzazione all'interno dell'amministrazione, e le dinamiche interne tra Priebus e gli altri membri dello staff dimostrano quanto fosse difficile per Trump creare una leadership coesa. La sua incapacità di delegare poteri chiari e la continua lotta per la supremazia tra i suoi consiglieri portarono a una Casa Bianca che divenne rapidamente un campo di battaglia politico, con ogni decisione che sembrava essere influenzata più dalla necessità di bloccare i rivali che dalla creazione di una politica coerente.

Sebbene Trump fosse riuscito a vincere la presidenza, la sua mancanza di esperienza politica, combinata con un ambiente di governo altamente frammentato e l'influenza di figure contrastanti, non fecero che esacerbare la disfunzione che caratterizzò i primi anni della sua amministrazione. Ogni passo avanti sembrava essere ostacolato dalla lotta interna per il potere, e questo contribuì a un'inevitabile instabilità che avrebbe influenzato la sua presidenza.

La Politicizzazione della Giustizia: La Strada Oscura di Donald Trump nel 2020

Nel periodo che precede le elezioni presidenziali americane del 2020, la campagna di Donald Trump assunse una piega inquietante, segnando un nuovo capitolo nella storia della politica americana. L’ossessione di Trump nel cercare scandali su Joe Biden, suo principale avversario politico, raggiunse livelli che travalicarono le normali dinamiche di competizione elettorale. Non più concentrato su accuse di corruzione o presunti legami con potenze straniere, Trump cominciò a chiedere apertamente che il suo nemico venisse imprigionato. Non si limitava a un’indagine superficiale: la sua richiesta divenne più radicale, quasi disperata, e si concentrava non solo su Biden, ma anche su Barack Obama e Hillary Clinton. L'intenzione di Trump era chiara: distruggere l’immagine dei suoi avversari politici e ottenere la loro condanna, per vincere le elezioni.

Il suo atteggiamento non era solo una manifestazione di disagio o di una normale aggressività politica, ma una vera e propria strategia di distorsione della giustizia. Quando, il 7 ottobre, lanciò su Twitter un grido di battaglia contro le forze dell’ordine e l’establishment politico, accusando i suoi nemici di complotti di tradimento, la sua retorica si fece più feroce e irrazionale: "Dove sono tutti gli arresti?!" scrisse, insinuando che la FBI fosse parte di un complotto contro di lui. Non si fermò qui: "BIDEN, OBAMA E HILLARY HANNO CONDOTTO QUESTO PLOT TREASONOSO!!!", minacciò, incitando alla rimozione dei suoi rivali dal panorama politico.

In quel contesto, Bill Barr, il procuratore generale degli Stati Uniti, si trovò intrappolato in una situazione di crescente tensione. Fino ad allora, Barr aveva cercato di mantenere una certa distanza dai desideri di Trump, consapevole che usare la giustizia come strumento politico avrebbe avuto gravi conseguenze per il sistema legale del paese. Ma nel mese di ottobre, Barr si trovò di fronte a una richiesta che superava qualsiasi limite etico o legale: Trump lo esortava non solo a indagare su Biden, ma a perseguirlo e imprigionarlo. Barr era esausto e frustrato, ma anche consapevole che l’integrità del dipartimento di Giustizia fosse a rischio. Tuttavia, non riusciva a convincere Trump a fermarsi.

Il culmine di questa pressione si verificò quando Trump chiese direttamente a Barr di occuparsi delle accuse contro Hunter Biden, il figlio di Joe Biden, in relazione ad alcuni scandali finanziari. Barr, con una fermezza che non aveva mai mostrato prima, rispose con durezza, rifiutandosi di discutere la questione: "Non posso parlarne, signor Presidente." Questo episodio segnò un punto di rottura nel rapporto tra il presidente e il suo procuratore generale, che fino a quel momento aveva cercato di assecondare alcune delle richieste di Trump, ma non era disposto a compromettere la propria etica professionale.

Parallelamente, Barr cercò di fare il possibile per evitare l'influenza politica sul dipartimento, ma ciò non era semplice. Una delle sue ultime azioni controversie fu legata al tentativo di fermare la pubblicazione del libro di John Bolton, un ex consigliere di Trump che aveva scritto una testimonianza critica sull'amministrazione. Barr, pur consapevole che non c'era alcun fondamento legale per fermare il libro, si trovò costretto a intervenire. L'influente ruolo politico che la Casa Bianca stava cercando di giocare sul dipartimento di Giustizia era ormai evidente. Nel frattempo, il personale del dipartimento cominciò a sentirsi in un angolo, costretto a seguire ordini che sembravano andare contro i principi fondamentali del diritto.

Ma la politica di Trump non si limitava solo alla giustizia. Anche nella campagna elettorale, il presidente tentò di creare uno scandalo a tutti i costi. Un esempio lampante fu l'invito di Tony Bobulinski, un ex partner commerciale di Hunter Biden, al dibattito presidenziale del 22 ottobre. Bobulinski sosteneva che Hunter Biden avesse fatto affari all’estero sfruttando il nome del padre, e Trump cercò di usare questo come punto di attacco contro il suo avversario. Tuttavia, nonostante gli sforzi di Trump, il piano non ebbe l'effetto sperato. Le notizie uscite quel giorno – in particolare quelle del Wall Street Journal che smentivano le accuse contro Joe Biden – minarono la credibilità dell’attacco. La realtà era che, come nel caso delle accuse di corruzione contro Hillary Clinton, la strategia di Trump si basava più sull’incertezza e sull’oscurità dei fatti che su prove concrete.

Ciò che emerge da questa vicenda è un tentativo da parte di Trump di deformare la politica americana a suo favore, sfruttando il sistema giuridico e mediatico per distrarre l’attenzione dai suoi fallimenti e dai suoi scandali. La giustizia e la verità, in questo scenario, non sono mai state al centro del suo approccio. La sua strategia si fondava sull’instillare paura e confusione, manipolando l’opinione pubblica attraverso la retorica e l’accusa senza prove concrete.

È essenziale comprendere come, in un periodo di forti divisioni politiche, il potere possa essere utilizzato per distorcere la verità e minare la fiducia nelle istituzioni. La lezione che emerge da questa vicenda è che l’indipendenza della giustizia e il rispetto dei diritti legali devono rimanere intatti, anche di fronte alla pressione politica. Il fatto che l'America abbia dovuto affrontare un simile scenario dimostra quanto possa essere fragile la democrazia quando il suo equilibrio viene minato dall’interno.