Il colonialismo, emerso come strategia economica e militare, si fondava sull’idea di conquistare territori esteri ricchi di risorse necessarie alla potenza colonizzatrice, imponendo un’amministrazione coloniale che limitava a chi era colonizzato la libertà di vendita delle proprie risorse. Questo sistema, noto come mercantilismo, mirava a proteggere e favorire un surplus commerciale per la madrepatria, riducendo la domanda interna nelle colonie per mantenere bassi i costi delle materie prime e monopolizzando i mercati locali per innalzare i prezzi dei prodotti industriali importati dal colonizzatore. Il risultato era un flusso continuo di materie prime a basso costo dalle colonie e la vendita di beni ad alto valore alle popolazioni colonizzate, costrette a esportare sempre di più per sostenere questo equilibrio commerciale.

Con la Rivoluzione Industriale, la dinamica del lavoro e della produzione mutò radicalmente: la divisione globale del lavoro si strutturò attorno a una produzione industriale concentrata in Europa occidentale, mentre le colonie venivano ridotte a fornitori di materie prime. Ciò impedì alle colonie di sviluppare industrie manifatturiere proprie, ostacolate dalla dominazione coloniale, che preservava per sé il monopolio della trasformazione industriale e il valore aggiunto. Questo sistema di controllo economico e politico portò a rivolte significative, come la Rivoluzione Americana, in cui la mancanza di libertà politica e le imposizioni economiche divennero motivi di dissenso.

L’imperialismo, distinta dal colonialismo, si caratterizza invece per un controllo esercitato a distanza, tramite sistemi di governo indiretto e influenze politiche ed economiche senza occupazione diretta del territorio. Questa forma di dominio è spesso più difficile da contrastare, poiché prescinde dalla presenza militare permanente, affidandosi a strategie più sottili e flessibili. Le economie ex-coloniali, nonostante l’indipendenza politica, restano spesso vincolate a strutture economiche periferiche che riflettono la dipendenza creata durante il periodo coloniale.

In America Latina, per esempio, si possono individuare tre strategie imperiali interconnesse: la promozione del libero scambio, il sostegno a regimi politici amichevoli e interventi militari mirati. La promozione del libero scambio da parte della Gran Bretagna e poi degli Stati Uniti mirava a integrare i paesi ex-coloniali in un sistema commerciale globale che favoriva i paesi industrializzati, relegando le nazioni emergenti a settori economici a basso profitto come l’agricoltura e l’estrazione mineraria. Il sostegno a regimi amici, spesso installati o mantenuti con l’intervento diretto o indiretto degli Stati Uniti, assicurava l’adesione a politiche economiche favorevoli, anche contro la volontà popolare. Gli interventi militari, spesso rapidi e mirati, servivano a consolidare la posizione imperiale, dimostrando la capacità di intervento e il potere geopolitico senza dover ricorrere a una occupazione prolungata.

Queste dinamiche sono fondamentali per comprendere come l’eredità del colonialismo e dell’imperialismo influisc

Come la narrativa di James Bond riflette l’eredità e la decadenza dell’Impero Britannico nel mondo postcoloniale

La dissoluzione dell’Impero Britannico ha lasciato dietro di sé una serie di stati postcoloniali, come Malaysia, Nigeria, Tanzania, Sierra Leone, Camerun, Uganda, Giamaica, Trinidad e Tobago, Kenya, Zambia, Malawi, Barbados, Guyana, e altri ancora. Nel tentativo di mantenere un alone di prestigio imperiale, il Regno Unito ha istituito il Commonwealth delle Nazioni, un’organizzazione che doveva preservare un rapporto patriarcale tra le ex-colonie e la madrepatria. Tuttavia, nel corso del tempo, questo legame si è svuotato di contenuto, con il Regno Unito incapace di esercitare un vero potere sulle ex-colonie. Nonostante ciò, nella narrazione ideologica che circonda James Bond, questo passato imperiale viene romanticizzato e distorto.

La figura di Bond si configura come un mezzo per costruire un mondo immaginario in cui la Pax Britannica continua a esercitare la sua influenza. Il Regno Unito viene rappresentato come un attore globale centrale, in prima linea contro le minacce rivolte alla civiltà occidentale. Questo ruolo mitizzato richiede la creazione di una gerarchia geopolitica in cui alcuni paesi agiscono, mentre altri sono semplicemente il “campo di gioco”. Le nazioni postcoloniali diventano così spazi privi di sovranità effettiva, dominati da forze esterne che agiscono secondo i propri interessi. Il cinema di Bond sfrutta questa idea, scegliendo come ambientazioni luoghi esotici e lontani, spesso non appartenenti all’Impero Britannico, ma che il pubblico britannico può immaginare come centri di intrighi e pericoli, dove il segreto agente britannico trionfa contro ogni avversità.

Un’assenza significativa emerge nel corpus dei film di Bond: quella delle agenzie di intelligence europee continentali, che rimangono quasi sempre ai margini, nonostante operino in paesi alleati. Inoltre, nelle rare occasioni in cui Bond visita Africa, Sud America o Asia, le autorità locali non rappresentano mai un ostacolo reale alle sue missioni, quasi che questi territori siano privi di governo efficace, destinati all’intervento occidentale in una veste quasi messianica, incarnata dal protagonista.

I luoghi dei film, da Giamaica e Turchia a paesi come Cuba, Madagascar o l’Italia, sono rappresentati come scenari di conflitti globali dove la presenza britannica e occidentale appare necessaria per garantire l’ordine mondiale. Istanbul, per esempio, è utilizzata come simbolo geopolitico ambivalente: al confine della sfera sovietica e caricata di un immaginario orientale esotico. In “From Russia with Love” la città diventa teatro di spionaggio e di un mondo antico che si intreccia con la guerra fredda. In “The World Is Not Enough”, Istanbul si collega a una narrazione che ruota attorno al controllo delle risorse energetiche, ponendo la Turchia come crocevia cruciale per il flusso di petrolio che sostiene il consumismo occidentale.

Questa rappresentazione della Turchia, come di molti altri luoghi nei film di Bond, riflette una visione semplicistica e funzionale, che riduce la complessità politica e culturale di questi paesi a elementi esotici o a nodi strategici per la supremazia occidentale. Le trame spesso privilegiano l’eroe britannico come figura più intelligente e indispensabile, anche quando collabora con agenti americani o riceve supporto militare statunitense. Il legame speciale tra Regno Unito e Stati Uniti viene idealizzato, mostrando una partnership in cui la forza materiale americana si combina con la strategia e il savoir-faire britannico.

Oltre alla mera azione e spettacolo, è fondamentale comprendere come questa narrazione cinematografica contribuisca a perpetuare stereotipi e un immaginario di dominio coloniale mascherato da modernità. I film di Bond non solo raccontano avventure, ma riproducono un’idea di superiorità culturale e politica, occultando le realtà complesse e spesso contraddittorie delle ex-colonie. Questa visione implica una svalutazione delle autonomie locali, dipingendo paesi interi come zone di caos e opportunità per interventi occidentali “necessari”.

Inoltre, la selezione dei luoghi e dei contesti geopolitici nei film non è casuale, ma risponde a logiche di rappresentazione che esaltano il ruolo britannico in un mondo diviso e in lotta, spesso riducendo a semplice sfondo le storie, le culture e le identità dei paesi coinvolti. La dimensione postcoloniale rimane così profondamente implicita, confermando come il soft power culturale e mediatico possa essere strumento di persistenza dell’influenza imperiale, anche in un’epoca di declino politico e militare reale.

Come le narrazioni plasmano la nostra percezione della realtà e dell’identità

Walter Fisher ha sostenuto che l’essere umano non struttura la propria comprensione del mondo unicamente attraverso la ragione logica, ma anche e soprattutto tramite la narrazione. Contrariamente ai modelli tradizionali che vedono le decisioni basate sulla razionalità del logos, Fisher introduce il concetto di mythos: l’uomo prende decisioni basandosi sulla coerenza e credibilità delle storie che gli vengono raccontate. La narrazione, dunque, non è solo intrattenimento o memoria storica, ma è la lente attraverso cui filtriamo e giudichiamo la realtà.

In questo senso, una storia è tanto più persuasiva quanto più si intreccia con le esperienze personali di chi la ascolta. La razionalità narrativa, a differenza della razionalità oggettiva e scientifica, si basa su un giudizio soggettivo: ciò che conta è quanto una narrazione si armonizzi con il vissuto e l’identità di un individuo o di un gruppo. È un processo di selezione e interpretazione che conferma e rafforza le proprie convinzioni e il proprio senso di sé.

Le narrazioni operano su diversi livelli. A livello ontologico, costruiscono la nostra identità personale: chi siamo e come siamo giunti a essere ciò che siamo è raccontato attraverso eventi significativi della nostra vita, che diamo importanza selettivamente, creando una trama coerente della nostra esistenza. Questi racconti personali sono in continua evoluzione, influenzati da nuove esperienze e riflessioni.

A livello collettivo, esistono narrazioni pubbliche, condivise da intere comunità o nazioni, che definiscono un’identità collettiva e orientano le risposte agli eventi storici e sociali. Questi miti pubblici, spesso promossi da istituzioni di potere come governi o media, contribuiscono a delineare chi “noi” siamo in opposizione a “loro”. Ad esempio, la narrazione della “Manifest Destiny” negli Stati Uniti o il racconto dell’Olocausto come memoria condivisa definiscono confini di inclusione ed esclusione, modelli di valori e azioni.

Un ulteriore livello è rappresentato dalle metanarrazioni: visioni totalizzanti e durature che si presentano come spiegazioni universali del corso della storia o della condizione umana. Questi racconti sovraordinati possono trattare l’umanità come in un progresso inevitabile, o come teatro di conflitti perenni, e influenzano profondamente il modo in cui interpretiamo il presente e il futuro.

La forza delle narrazioni risiede anche nella loro capacità di adattarsi e resistere al cambiamento attraverso la selezione di episodi e fatti che confermano la loro struttura coerente. Quando però si verifica un’esperienza che non si adatta alla narrazione consolidata, può emergere confusione e crisi. Un esempio lampante è stato l’attacco dell’11 settembre 2001, che ha scosso profondamente la narrazione di innocenza e sicurezza che molti americani avevano interiorizzato, portandoli a interrogarsi sulle ragioni di quell’odio incomprensibile.

Comprendere la natura e i livelli delle narrazioni è fondamentale per interpretare la politica globale, i conflitti sociali e le trasformazioni culturali. Le narrazioni non sono semplici storie da raccontare: sono strumenti attraverso cui costruiamo senso, identità e ordine nel caos del reale. Senza la consapevolezza di come funzionano queste trame, rischiamo di fraintendere eventi, reagire in modo disorientato e perpetuare visioni parziali o distorte.

Inoltre, è importante riconoscere che la narrazione non è neutrale né innocua. Ogni storia implica una selezione, un’enfasi e un’interpretazione che possono escludere, marginalizzare o delegittimare altre esperienze e punti di vista. La comprensione critica delle narrazioni aiuta a decostruire miti consolidati, a dare voce a narrazioni alternative e a costruire un dialogo più inclusivo e complesso sulla realtà sociale.

Come l’affettività plasma la geopolitica contemporanea: dall’atmosfera collettiva alle strategie di sicurezza

L’atmosfera emotiva che si genera in contesti collettivi, come negli stadi durante eventi sportivi, rivela come l’affettività sia un fenomeno diffuso, permeante e capace di costruire un senso di appartenenza. L’esempio dei Giochi Olimpici di Londra del 2012 dimostra come un’atmosfera di gioia condivisa possa rafforzare un’identità collettiva, in questo caso quella britannica, sottolineando come le emozioni collettive non siano soltanto fenomeni personali ma anche spazi sociali e politici. Questa osservazione introduce la riflessione sulla geopolitica dell’affetto, una dimensione che si è resa particolarmente evidente a seguito degli eventi dell’11 settembre 2001.

Le conseguenze di quegli attacchi non hanno soltanto modificato la percezione del terrorismo, ma hanno accentuato la centralità dell’affettività nelle strategie geopolitiche. Il “War on Terror” ha infatti richiesto una comprensione approfondita del terrore e delle emozioni correlate, che sono state mobilitate e manipolate da governi e attori politici per legittimare interventi militari e politiche securitarie. Lo studio dei cosiddetti “marcatori somatici”, concetto che rimanda a un livello neurologico pre-riflessivo di emozioni e percezioni corporee, aiuta a spiegare come eventi traumatici vengano interiorizzati e trasformati in impulsi decisionali quasi istantanei, al di là di un ragionamento razionale. La potente impressione dell’11 settembre è stata veicolata attraverso i media, che hanno amplificato l’effetto emozionale mediante immagini, testimonianze, spettacoli di catastrofi e rappresentazioni culturali.

Il rapporto tra violenza e media costituisce un’altra dimensione cruciale in cui l’affettività si manifesta nella geopolitica. La violenza mediatizzata non solo produce emozioni intense, ma la sua stessa organizzazione e conduzione sono spesso progettate per agire sulle logiche affettive dello spettatore, amplificando strategie di “shock and awe” o l’effetto emotivo di attacchi suicidi. In questo senso, la violenza diventa un fenomeno che supera la dimensione immediata del conflitto, estendendosi a una platea globale attraverso dispositivi mediatici che amplificano le reazioni emotive collettive.

La riflessione sulla sicurezza critica sottolinea invece un paradosso essenziale: gli sforzi per garantire la sicurezza generano spesso sentimenti di insicurezza diffusa. In un contesto di minacce virtuali, il timore diventa uno strumento che riorganizza le logiche di intervento e controllo, rendendo la società sempre più permeabile a sentimenti di inquietudine e ansia. Tale condizione è strumentale alla produzione di consenso verso politiche di sorveglianza e militarizzazione, mostrando come la dimensione affettiva sia al centro della ridefinizione del potere nello spazio geopolitico contemporaneo.

Infine, l’analisi delle decisioni geopolitiche rivela come l’affetto costituisca un “rumore di fondo” che filtra e condiziona anche le scelte consce degli attori politici e della popolazione. Questo sfida le tradizionali concezioni razionali della decision making, mostrando come le emozioni e le sensazioni pre-riflessive si intreccino con processi cognitivi e narrativi.

Il dibattito accademico sull’affetto e la teoria non-rappresentazionale, che propone un approccio alla geografia e alla politica più attento ai corpi, ai sensi e ai momenti precognitivi dell’esperienza umana, rappresenta una svolta rispetto ai modelli di studio basati esclusivamente sul discorso e sulla rappresentazione. Questa prospettiva evidenzia l’importanza di cogliere l’esperienza vissuta nella sua immediatezza, come nel caso dell’esperienza ludica nei videogiochi a tema militare, che suscita emozioni e sensazioni spesso difficili da articolare in termini razionali o narrativi.

È fondamentale comprendere che l’affettività non è un semplice corollario dell’esperienza politica o sociale, ma una dimensione strutturale che plasma la percezione, la memoria collettiva, le strategie di potere e le forme di resistenza. L’affetto agisce a livelli molteplici e sovrapposti: da quello individuale, somatico, a quello collettivo e geopolitico, tessendo una rete complessa di influenze che sfugge alla pura rappresentazione discorsiva. In questo senso, l’approccio più inclusivo della “more-than-representational theory” invita a un’analisi che tenga conto della corporeità, della sensorialità e dell’esperienza immediata, aprendo nuovi orizzonti per comprendere le dinamiche della contemporaneità.

Come si costruisce l’identità attraverso il dialogo interno e le dinamiche geopolitiche?

L’identità personale non è un’entità statica o univoca, ma piuttosto un costrutto complesso e plurale che si forma attraverso un dialogo continuo con sé stessi e con gli altri. Non si tratta semplicemente di una voce interna o di un “ego osservatore” che monitora le proprie azioni e pensieri, ma di una vera e propria polifonia interiore, un intreccio di molteplici voci e prospettive che coesistono e si confrontano. Questa molteplicità interna è parte integrante della consapevolezza di sé e permette un costante processo di negoziazione identitaria.

Il concetto di polifonia, sviluppato in letteratura e filosofia, si traduce nella possibilità che un romanzo, o più in generale un discorso, rifletta molteplici punti di vista simultanei. L’identità si costruisce quindi attraverso un dialogo interno che è, a sua volta, specchio di quel dialogo che instaurano gli individui nella loro interazione sociale. Non esiste un “sé” isolato senza questa molteplicità interna, così come non esiste identità collettiva senza tensioni, contrasti e negoziazioni tra posizioni diverse.

Questa dinamica interna trova una corrispondenza nelle relazioni geopolitiche che attraversano le nostre società. L’identità personale e quella collettiva (nazionale, religiosa, politica) si costituiscono entrambe attraverso processi discorsivi simili, anche se si differenziano per scala e mezzi di diffusione. Mentre la nostra identità individuale si plasma principalmente attraverso interazioni faccia a faccia o mediate da tecnologie che condizionano la dimensione affettiva dei nostri rapporti, le identità collettive si costruiscono spesso mediante dialoghi che avvengono nei mass media e nella cultura popolare.

Comprendere questa complessità è fondamentale per cogliere il modo in cui i discorsi geopolitici si intrecciano con la vita quotidiana, influenzando non solo la percezione del mondo esterno ma anche la formazione del sé. La cultura è un terreno aperto e plasmabile, e offre costantemente l’opportunità di intervenire e rinegoziare le narrazioni dominanti. Cambiare il discorso in cui siamo immersi equivale a cambiare noi stessi, poiché la nostra identità si definisce sempre in relazione agli altri e ai discorsi condivisi.

Agire consapevolmente su questi processi non è semplice, soprattutto di fronte alle strutture di potere e alle disuguaglianze che condizionano la possibilità di intervento. Tuttavia, nonostante l’apparente insignificanza dell’individuo di fronte a fenomeni globali come la globalizzazione o la rappresentazione mediatica di gruppi sociali, le azioni individuali e collettive sono parte integrante della produzione e della trasformazione di questi discorsi.

Il confronto con i media e la cultura popolare offre molteplici modalità per influenzare la costruzione delle identità e la rappresentazione di realtà geopolitiche. Lavorare nella cultura di massa, ad esempio, significa poter contribuire a modificare le narrazioni pubbliche in senso più inclusivo e meno orientato alla paura e all’“altroizzazione”. Anche azioni più modeste, come la scrittura di un articolo o la creazione di un blog critico, rappresentano forme di partecipazione che vanno a innestarsi nelle mille interazioni quotidiane che costituiscono il tessuto del potere e della geopolitica.

È importante riconoscere che il cambiamento identitario è inseparabile dal cambiamento discorsivo e che entrambi si alimentano reciprocamente. Il dialogo interno e quello sociale sono due facce di una stessa dinamica che apre sempre a nuove possibilità di definizione di sé e del proprio posto nel mondo. Questo implica anche che l’identità non è mai un dato acquisito una volta per tutte, ma un processo incessante di negoziazione e rinegoziazione, in cui la consapevolezza del proprio ruolo nella produzione del discorso geopolitico è un passaggio essenziale.

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