Il destino di un presidente come Trump non può essere separato dal contesto in cui è emerso e dal tipo di leadership che ha incarnato. Quando Archibald Cox, dopo essere stato licenziato, dichiarava che “se continueremo ad essere un governo di leggi e non di uomini dipende ora dal Congresso e, infine, dal popolo americano”, parlava di una situazione in cui la lotta non sarebbe più stata tra esperti o giudici, ma tra il popolo stesso e chi esercita il potere. E questo, come ci insegna Platone, è esattamente il terreno fertile per la nascita della tirannia.

Quando un popolo percepisce che il sistema è truccato contro di lui, che le leve del governo democratico sono controllate da élite segrete, nasce un demagogo. Questo demagogo, promettendo di “svuotare la palude” e di restituire potere al popolo, guadagna rapidamente la sua fiducia. Ma come Platone avvertiva, tale figura si trova costretta, per distrarre e mantenere il controllo, a creare spettacoli politici e capri espiatori. E quando le distrazioni minori non bastano più, ecco che il nemico da combattere diventa quello che minaccia la sicurezza nazionale, o quello che sembra essere la minaccia maggiore del momento, come nel caso di Corea del Nord o Iran.

Platone, nella sua "Repubblica", ci avverte che il tiranno non ha un reale interesse per il bene della collettività, ma solo per la propria autoconservazione. Gli elettori, spinti dall'idea di rovesciare l'ordine costituito, si trovano di fronte alla triste realtà che il loro leader, invece di "scuotere le cose" come promesso, sta semplicemente cercando di accrescere il proprio potere. La delusione cresce quando il tiranno, non soddisfatto di ciò che ha conquistato, inizia ad eliminare chi non lo sostiene incondizionatamente. Come Platone prediceva, la fedeltà non basta mai: deve essere totale, altrimenti anche i suoi più stretti alleati saranno eliminati.

Un punto cruciale in questo processo di disintegrazione del potere e della democrazia è l'atteggiamento tirannico. Questo atteggiamento non riconosce alcuno standard indipendente di verità o giustizia con cui confrontarsi. E quando l’opposizione non può essere persuasa, deve essere forzata a sottomettersi. Se inizialmente si eliminano i dissidenti, nel tempo anche coloro che erano stati alleati rischiano di essere marginalizzati, fino ad essere cacciati dal cerchio ristretto del potere, come nel caso di Rex Tillerson.

Questa dinamica del potere tirannico trova una delle sue espressioni più pericolose nella brutalità che emerge quando il tiranno, per mantenere il controllo, è disposto a giustificare la violenza. Trump, nel corso della sua carriera politica, ha mostrato un atteggiamento che non solo tollera, ma talvolta incoraggia la violenza contro i suoi oppositori. La sua ammirazione per figure autoritarie come Putin, che non esita a eliminare i dissidenti, risuona con una visione del potere in cui la forza diventa l’unico mezzo per mantenere l’ordine.

In questo scenario, l'atteggiamento tirannico si trasforma in una spirale di violenza politica. I primi a pagarne le conseguenze sono sempre coloro che si trovano ai margini, e progressivamente, quando l'ambiente diventa sempre più asfissiante, anche chi era stato all'interno del cerchio ristrettissimo di potere si troverà escluso se non si sottometterà senza riserve. La logica che si sviluppa è quella di un potere che si autoconserva non solo attraverso la lealtà cieca, ma anche attraverso l’eliminazione fisica e politica di chiunque rappresenti una minaccia alla sua continua espansione.

Non è difficile vedere paralleli tra la retorica di Trump e quella descritta da Platone nel "Sofista" o nella "Repubblica". Quando il potere inizia a giustificare qualsiasi mezzo per proteggersi, quando il dissenso viene trattato come una minaccia per il sistema e non come una componente essenziale della democrazia, siamo di fronte a un cambiamento radicale nel significato stesso di governance.

Per chi osserva il panorama politico contemporaneo, è importante comprendere che il fenomeno della tirannia non è un'eventualità lontana o teorica. È una realtà che può sorgere quando un leader, alimentato dall’insofferenza popolare e dalla sensazione di ingiustizia, raccoglie il consenso promettendo di agire contro il sistema, ma finisce per consolidare il proprio potere in maniera sempre più totalitaria. Non è solo la ricerca di una verità assoluta a guidarlo, ma la manipolazione della percezione della verità stessa, in modo da rafforzare il suo controllo.

Quello che è essenziale comprendere, quindi, è che la lotta contro la tirannia non è solo una questione di procedure politiche, ma un impegno costante a mantenere vivi i principi democratici, la giustizia e il rispetto della pluralità. Non basta solo riconoscere i segni della tirannia quando è troppo tardi, ma bisogna educare le nuove generazioni a difendere la libertà e la verità, affinché un leader non si senta mai in grado di manipolare la realtà per i propri scopi. Solo così si può evitare che la democrazia diventi l'ombra di sé stessa, come accade nei regimi che Platone descrive con lucida premonizione.

Meno e la Virtù: Tra Rhetorica e Inganno nella Filosofia Politica

Nel dialogo platonico che porta il suo nome, Meno si presenta come una figura enigmatica e complessa. La sua prima domanda a Socrate, «Mi puoi dire, Socrate, se la virtù è qualcosa che si può insegnare?», inaugura una discussione che, seppur apparentemente semplice, è densa di implicazioni filosofiche. Socrate risponde prontamente, mettendo in luce l'ironia della domanda: chi è in grado di rispondere su un concetto se non si ha una comprensione chiara di cosa esso rappresenti? La risposta di Socrate non solo riflette la sua consueta umiltà, ma mette anche in evidenza un aspetto fondamentale del dialogo: la difficoltà di definire e comprendere la virtù.

Meno è originario della Tessaglia, una regione che un tempo godeva di grande prestigio per la sua abilità nell'arte della cavalleria e per la ricchezza. Tuttavia, Platone suggerisce che questo prestigio si è ora trasformato in una reputazione di intellettualismo, come dimostra la figura di Gorgia, che insegnava la retorica in quella terra. I suoi allievi, tra cui Meno, sono noti per rispondere con grande sicurezza, ma senza una reale comprensione dei concetti discussi. Così, Meno, che si sente intellettualmente preparato, non solo pone la domanda a Socrate ma si aspetta anche una risposta che soddisfi la sua esigenza di affermare la propria capacità oratoria.

Nel corso del dialogo, Meno si mostra un uomo che, pur mostrando interesse per la filosofia, ha una comprensione superficiale della virtù. Piuttosto che cercare una vera definizione, egli è più concentrato su come questa virtù possa essere utilizzata per vantaggi personali, come dimostra la sua definizione della virtù maschile: «essere sufficienti a condurre gli affari della città, fare del bene agli amici e del male ai nemici, e fare in modo di non subire alcun danno». La virtù, secondo Meno, non è altro che una capacità politica, una qualità che si misura attraverso il potere e il controllo, l'alleanza con gli amici e la sottomissione degli avversari. Questa visione è certamente pragmatica, ma manca di profondità morale.

Sebbene Meno non si esprima in modo esplicito a favore della tirannide o del piacere come scopo supremo della vita, la sua comprensione della virtù si limita a un interesse per il proprio benessere. Nonostante la sua visione utilitaristica, egli sembra disposto a impegnarsi per la nobiltà e il bene se ciò porta a vantaggi personali. La sua incoscienza e impudenza, che emergono chiaramente nel dialogo, dimostrano una certa immaturità e mancanza di autoconsapevolezza, ma non sono del tutto insensibili alla possibilità di apprendimento.

Nel contrasto con Platone, Xenofonte presenta una visione molto più critica e realistica di Meno, specialmente nel contesto della sua azione politica e militare. Nella Anabasi, Xenofonte descrive Meno come un uomo consumato dalla brama di ricchezza, di potere e di onore. La sua ambizione sfrenata lo porta a tradire la sua stessa armata, cercando di allearsi con il re persiano per garantirsi favori, in un atto di tradimento che porta alla morte dei suoi generali e alla sua stessa rovina. Xenofonte dipinge Meno come un uomo che, pur di ottenere ciò che desidera, non esita a usare menzogne, inganni e perjurio, e considera la verità come una debolezza.

La figura di Meno emerge dunque come una sorta di archetipo del traditore e del manipolatore, un uomo che non esita a sacrificare la lealtà per ottenere vantaggi materiali. Ma la sua paura della verità e la sua inclinazione a violare il patto di fiducia con gli altri lo rendono una figura tragica, incapace di imparare e di evolversi moralmente. L'interpretazione xenofontica di Meno sembra sottolineare come l'ambizione personale, la mancanza di principi e il desiderio di controllo possano portare a una discesa vertiginosa verso la corruzione.

Le due rappresentazioni, quella di Platone e quella di Xenofonte, ci offrono una visione contrastante ma complementare di Meno. Se Platone suggerisce che Meno ha potenzialità di apprendere, ma è frenato dalla sua superficialità e impazienza, Xenofonte lo ritrae come un uomo che non è in grado di redimersi, intrappolato in un circolo vizioso di egoismo e inganno.

In un contesto filosofico e politico più ampio, la figura di Meno ci pone di fronte alla difficile questione della virtù e della sua insegnabilità. Qual è il ruolo della retorica e dell'intelletto nella formazione della virtù? È possibile che l'ambizione, pur se mossa da un desiderio di potere, possa essere indirizzata verso scopi nobili? La riflessione su Meno non riguarda solo l'individuo in sé, ma anche le dinamiche di potere, l'influenza della retorica e la fragilità della morale in un mondo dominato dall'ambizione personale.

Per comprendere appieno il valore delle figure come Meno, è essenziale guardare non solo alla loro azione, ma anche al contesto in cui operano. L'insegnamento di Socrate, pur nell'ironia che lo caratterizza, ci invita a non accettare risposte facili, ma a cercare una comprensione profonda della virtù, che non si limiti a una sua applicazione pratica e utilitaristica. La virtù, come insegnano Platone e Xenofonte, non è solo un concetto da discutere, ma una qualità da vivere e incarnare, un ideale che richiede discernimento, autocontrollo e un impegno costante per il bene comune.

Come nasce un dialogo intellettuale collettivo?

Il valore di un progetto intellettuale raramente risiede solo nel suo contenuto finale. Esso vive nelle relazioni che lo rendono possibile, nei luoghi dove prende forma, nei dialoghi che lo sostengono e nella fiducia reciproca tra coloro che ne condividono l’intento. Questo libro, frutto di anni di riflessioni, incontri e scritture intrecciate, non sarebbe mai esistito senza le molteplici connessioni che si sono create nel tempo, spesso in contesti accademici che sono divenuti spazi di autentico confronto umano.

Le tavole rotonde nate a partire dai saggi qui raccolti hanno costituito, un anno dopo, non solo un’occasione di revisione e approfondimento, ma anche un laboratorio di pensiero condiviso. In questi scambi si sono formati legami, amicizie e un senso di comunità intellettuale che travalica le singole discipline. L’Associazione per i Testi e i Corsi Fondamentali è stata uno dei luoghi più fertili di questo incontro. Lì, nella primavera del 2017, molti degli autori di questo volume si sono conosciuti, trovando nell’altro non un avversario accademico ma un compagno di ricerca, un alleato nella costruzione di una riflessione collettiva.

È importante ricordare che ogni lavoro di questa portata nasce anche grazie al sostegno di istituzioni che credono nella ricerca. Angel Jaramillo ha potuto partecipare a questo progetto grazie a una borsa post-dottorale del Consejo Nacional de Ciencia y Tecnología (CONACYT), l’equivalente messicano della National Science Foundation. Presso la Universidad Nacional Autónoma de México, nella Coordinación de Estudios de Posgrado, egli ha potuto sviluppare il proprio contributo, riconoscendo la guida e il sostegno di Leticia Flores Farfán e del filosofo Josu Landa.

Dietro la pubblicazione di un volume come questo vi è un tessuto di persone che, pur non firmando alcun saggio, hanno contribuito a renderlo possibile. Nathan Tarcov, Richard Velkley, Joshua Parens, William Kristol e Jeffrey Bernstein hanno offerto suggerimenti, indirizzi e contatti, arricchendo il progetto di nuove prospettive e collaborazioni. E ancora, alcuni autori — Susan Shell, Gladden Pappin, Catherine Zuckert — hanno saputo collegare le proprie riflessioni a quelle di altri studiosi, mostrando come un libro accademico possa essere il risultato di un dialogo plurale e non di un insieme di monologhi isolati.

Ma la forza di quest’opera non sta solo nelle relazioni accademiche che la sostengono. È la serietà con cui ciascun autore ha affrontato il tema della politica — nella sua dimensione più concreta e nella sua più alta tensione etica — che conferisce unità al volume. Gli autori, pazienti e generosi, hanno lavorato con due curatori che imparavano, passo dopo passo, l’arte complessa di coordinare un progetto intellettuale con trentasette contributori. Hanno risposto con rigore alle osservazioni, accolto i commenti, inviato testi puntuali, dimostrando una disciplina che è prima di tutto rispetto per la verità e per la parola scritta.

Un ringraziamento speciale spetta anche a chi ha seguito il processo editoriale: Michelle Chen e John Stegner di Palgrave Macmillan, che hanno accompagnato i curatori nel delicato passaggio dal manoscritto alla pubblicazione. E a Chris Robinson, che per primo suggerì di trasformare due panel accademici in un progetto di ampio respiro, capace di oltrepassare la dimensione effimera della conferenza per divenire una riflessione permanente.

Ogni studioso riconosce, infine, che il proprio pensiero nasce da una genealogia di maestri. Marc Sable ricorda Amy Kass, David Greenstone, Susanne Rudolph, David Smigelskis e William Sewell Jr.; Angel Jaramillo menziona Rafael Segovia, James Miller, Heinrich Meier e Christopher Hitchens. Ma prima ancora di questi nomi illustri, ci sono i primi insegnanti di ogni essere umano: i genitori. Essi trasmettono non solo un sapere, ma la fiducia che pensare abbia un senso. Senza di loro nessuna ricerca sarebbe possibile, perché è nel loro esempio che si forma il rispetto per la conoscenza e la volontà di comprenderla.

L’importanza di queste radici non è sentimentale, ma epistemologica. Ogni progetto collettivo nasce da un’etica del riconoscimento: riconoscere gli altri, riconoscere le fonti, riconoscere il debito verso coloro che ci hanno preceduto. Solo così il pensiero diventa veramente politico, perché si fonda su una rete di responsabilità reciproche. In un’epoca in cui il sapere tende a frammentarsi e a ridursi a mera produzione individuale, ricordare la dimensione comunitaria della ricerca è un atto di resistenza.

Ciò che il lettore dovrebbe comprendere è che dietro ogni libro, dietro ogni saggio o teoria, si nasconde un intreccio di vite, dialoghi, circostanze e scelte morali. La conoscenza non è mai un atto solitario, ma un movimento continuo tra sé e l’altro, tra ciò che si eredita e ciò che si crea. Ed è in questa tensione — fragile, umana, ma fertile — che prende forma ogni

La leadership politica e il concetto di vocazione: Max Weber e le sfide contemporanee

Max Weber, nella sua celebre analisi del potere e della politica, ha delineato il concetto di "vocazione politica", che implica un rapporto profondo e quasi spirituale con l'azione politica. In modo particolare, Weber ha descritto la politica come una dimensione che si lega intimamente alla capacità di esercitare violenza legittima, una caratteristica distintiva che definisce lo Stato. La politica, in questa ottica, non è solo una serie di azioni tese al raggiungimento di obiettivi sociali, ma anche una scelta esistenziale che investe il politico a livello individuale. La vocazione politica, secondo Weber, implica una continua tensione tra la ricerca del potere e il dovere morale che si accompagna all’esercizio della forza politica.

Nel contesto del 2016, un anno segnato da una delle elezioni presidenziali più controverse nella storia degli Stati Uniti, le riflessioni di Weber sul carisma e sull’autorità hanno assunto una nuova rilevanza. Le personalità politiche che hanno dominato la scena, come Hillary Clinton e Donald Trump, si sono contraddistinte per approcci radicalmente diversi al potere, ma entrambi hanno, in modi distinti, incarnato il concetto weberiano di vocazione politica. Da un lato, Clinton ha cercato di mantenere una linea di continuità e di razionalità politica, legata alla tradizione e alla realpolitik. Dall'altro, Trump ha mostrato un approccio più istintivo e carismatico, che sfidava le convenzioni e faceva appello a un tipo di "volontà politica" che, a tratti, sembrava essere più connessa alla pura affermazione della propria autorità che al rispetto delle tradizioni istituzionali.

Secondo Weber, la politica non può prescindere da un’elementare verità: il politico deve essere disposto a combattere, se necessario, con ogni mezzo, per difendere l'ordine politico che lo sostiene. Ma questa disposizione, che talvolta può sembrare crudele o disumana, è anche il fondamento della legittimità del potere. La violenza legittima, come sottolineato da Weber, non è un semplice strumento, ma la base stessa di qualsiasi organizzazione politica che si pretenda stabile e riconosciuta come "Stato".

Questa visione della politica come una sfera in cui la violenza ha un ruolo costitutivo è particolarmente evidente nelle elezioni del 2016, dove la retorica della guerra culturale, della divisione tra "buoni" e "cattivi", ha avuto un impatto devastante. Il dibattito politico si è spostato sempre più su questioni identitarie, e la figura del politico-carismatico, capace di polarizzare profondamente l'opinione pubblica, ha acquisito centralità. La vocazione politica, in questo contesto, è diventata la capacità di dominare il discorso pubblico e di esercitare una forma di potere che non solo si basa sulla razionalità e sulla negoziazione, ma anche sulla gestione simbolica della violenza.

Ma oltre al potere e alla violenza, Weber non dimentica mai l’importanza dei valori. Per lui, un politico deve essere in grado di articolare un "significato" per la propria azione, un’idea che trascende il mero esercizio del potere. Le differenze tra chi "vive per" e chi "vive da" politica sono essenziali per comprendere le motivazioni profonde di un leader. La vocazione politica, nella visione di Weber, non è solo una questione di potere economico o sociale, ma di identificazione con una causa che dà significato alla vita del politico. Per Clinton, questa causa è stata la ricerca di un progresso sociale e la costruzione di una democrazia inclusiva, purtroppo spesso ostacolata dalla polarizzazione crescente e dalla perdita di fiducia nelle istituzioni. Per Trump, invece, la causa è stata quella di un ritorno all’autosufficienza e al nazionalismo, che spesso si è tradotto in una retorica aggressiva e in un’ideologia che non lasciava spazio a compromessi.

In tale contesto, è fondamentale comprendere che, oltre alla pura espressione di potere, la politica è anche una questione di legittimazione. Non è sufficiente esercitare l’autorità, ma è necessario che questa autorità venga riconosciuta come legittima dai cittadini. Weber, con la sua analisi, ci offre la chiave per interpretare la disillusione crescente nei confronti delle istituzioni democratiche, fenomeno che appare sempre più evidente anche negli Stati Uniti. Le politiche populiste e autoritarie, che si sono imposte sempre più nel dibattito politico globale, non sono semplicemente una reazione a crisi economiche o sociali, ma una risposta a una profonda crisi di legittimità, che riguarda tanto le élite politiche quanto le istituzioni che esse governano.

Per comprendere pienamente questa dinamica, è necessario fare riferimento a una riflessione profonda sul significato di "legittimità". La legittimità non si ottiene solo attraverso il rispetto delle norme, ma anche attraverso la capacità di un leader di incarnare valori e di comunicare in modo efficace con la base sociale. La sfida per il politico moderno, come Weber lo ha messo in evidenza, è quella di mantenere una connessione autentica con il popolo, di stabilire un legame che non si limiti alla mera manipolazione del consenso. Solo in questo modo la politica potrà continuare a esercitare la sua funzione fondamentale: quella di garantire l’ordine e la stabilità sociale, evitando che la violenza, intesa in senso lato, prenda il sopravvento.