I pazienti con Malattia Epatica Alcolica (ALD) spesso non ricevono trattamenti per il Disturbo da Uso di Alcol (AUD), poiché l’attenzione principale rimane sulla gestione della patologia epatica. Un'analisi su un ampio campione di veterani con ALD e AUD ha rivelato che solo il 14% dei pazienti ha ricevuto qualche forma di trattamento per l’AUD, e solo lo 0,5% ha ricevuto un trattamento farmacologico. Le barriere alla gestione dell’AUD nei pazienti con ALD sono molteplici e possono essere suddivise in tre principali categorie: quella del paziente, quella del clinico e quella amministrativa.

A livello del paziente, lo stigma associato alla diagnosi di ALD, la scarsa consapevolezza della propria malattia, l’orientamento prevalentemente verso la cura del fegato e la paura delle ripercussioni personali e professionali, costituiscono ostacoli significativi. Da parte dei clinici, la mancanza di tempo per eseguire screening per l’AUD e l’insufficiente formazione per la gestione di questa condizione sono fattori che contribuiscono a questa mancanza di trattamento. A livello amministrativo, le difficoltà nell'accesso alle coperture assicurative, i costi del trattamento e la difficoltà di trasporto dei pazienti gravemente malati sono ulteriori freni al trattamento adeguato dell’AUD.

Nel trattamento dell’Aud, la necessità di una gestione integrata tra la cura dell’ALD e quella dell’AUD si fa sempre più urgente. Studi recenti suggeriscono che un approccio che non consideri solo la malattia epatica ma anche la dipendenza da alcol potrebbe migliorare significativamente gli esiti complessivi dei pazienti, riducendo mortalità e morbidità.

Quali sono le opzioni farmacologiche per i pazienti con epatite alcolica severa (AH)?

Al momento, i corticosteroidi sono l'unico trattamento farmacologico disponibile e raccomandato per il trattamento dell'epatite alcolica severa (AH). Una meta-analisi di studi randomizzati, che include lo studio STOPAH, il più grande studio multicentrico e controllato con placebo, ha dimostrato un beneficio significativo dei corticosteroidi, riducendo la mortalità a 30 giorni del 46%. Tuttavia, non è stato osservato alcun beneficio in termini di sopravvivenza oltre il primo mese. L’uso di pentossifillina, che è risultato inefficace, non è più raccomandato. Un altro studio randomizzato ha mostrato che la combinazione di infusione di N-acetilcisteina e prednisolone orale migliora la sopravvivenza a 1 mese, ma non a 3 o 6 mesi.

Come viene determinata l’idoneità al trattamento con corticosteroidi?

I corticosteroidi sono indicati nei pazienti con AH severa, come definito dalla funzione discriminante di Maddrey (MDF) maggiore di 32, dal punteggio MELD maggiore di 20, o dalla presenza di encefalopatia epatica. Le controindicazioni relative all'uso dei corticosteroidi comprendono infezioni attive, emorragia gastrointestinale, pancreatite acuta, psicosi, sindrome epatorenale, insufficienza renale e diabete mellito mal controllato. Studi retrospettivi suggeriscono che il massimo beneficio dai corticosteroidi si osserva nei pazienti con punteggi MELD tra 25 e 39. È importante notare che sebbene questi siano criteri di riferimento, le controindicazioni non sono assolute e i corticosteroidi possono essere utilizzati dopo il trattamento adeguato delle complicazioni sopra menzionate, con risultati simili a quelli osservati nei pazienti senza tali condizioni.

Come vengono monitorati i corticosteroidi nel trattamento dell’AH severa?

Per i pazienti idonei, viene avviato un trattamento con prednisolone orale da 40 mg al giorno o con metilprednisolone endovenoso da 32 mg al giorno nei pazienti incapaci di assumere farmaci per via orale. La risposta ai corticosteroidi viene valutata al settimo giorno utilizzando il punteggio Lille, che può essere calcolato online, con il principale indicatore rappresentato dalla variazione della bilirubina rispetto ai valori basali. Un punteggio superiore a 0,45 indica una non risposta al trattamento, e si consiglia di sospendere i corticosteroidi in questi casi per evitare rischi di infezioni batteriche o fungine senza alcun beneficio. Nei pazienti che rispondono positivamente al trattamento (punteggio Lille inferiore a 0,45), i corticosteroidi vengono continuati per un’altra settimana.

Quali sono le limitazioni della terapia corticosteroidea per l’AH severa?

Non tutti i pazienti sono idonei per il trattamento con corticosteroidi: circa il 30%-40% dei pazienti non può ricevere questo trattamento a causa di controindicazioni. Inoltre, tra i pazienti trattati, solo il 50%-60% risponde ai corticosteroidi, una risposta che può essere valutata solo dopo 4-7 giorni di trattamento. È fondamentale comprendere che queste controindicazioni non sono assolute, e i corticosteroidi possono essere utilizzati dopo il trattamento di infezioni, emorragie gastrointestinali o sindrome epatorenale, con risultati simili a quelli dei pazienti privi di queste condizioni. Tuttavia, la durata della risposta è limitata a solo un mese, e solo il 25%-40% dei pazienti idonei riceve effettivamente il trattamento con corticosteroidi.

Qual è il ruolo della supplementazione nutrizionale nei pazienti con ALD e AH?

La malnutrizione è comune nei pazienti con ALD e AH, e può portare a esiti peggiori. Per questo motivo, è raccomandato un apporto proteico giornaliero di 1,2–1,5 g/kg e un apporto calorico di 25–40 kcal/kg. Nei pazienti con un’assunzione orale insufficiente (<1200–1500 calorie al giorno), la supplementazione nutrizionale dovrebbe essere preferibilmente somministrata per via enterale. È anche importante reintegrare vitamine e minerali per correggere eventuali carenze associate.

Quali sono le terapie emergenti per l’AH?

Nonostante le limitazioni dei corticosteroidi, c'è una crescente esigenza di terapie efficaci per l’AH. Negli ultimi dieci anni, diversi target terapeutici sono emersi nella gestione dell’ALD e dell’AH. Tra questi, il trapianto di microbiota fecale, l’interleuchina-22 (IL-22), il fattore stimolante la crescita dei granulociti (G-CSF) e il DUR-928 hanno mostrato promettenti risultati. Studi emergenti suggeriscono anche che il trapianto di microbiota fecale possa ridurre il desiderio di alcol e promuovere l'astinenza. Tuttavia, i dati sui benefici del G-CSF sono contrastanti, con risultati positivi da studi asiatici, ma non confermati in quelli europei. Attualmente, sono in corso studi di fase 2 e 3 per esaminare il ruolo del G-CSF, del DUR-928 e dell’IL-22 nella gestione dei pazienti con AH.

Qual è il ruolo del trapianto epatico precoce nei pazienti con ALD?

Il trapianto epatico precoce, ossia eseguito prima di un periodo definito di astinenza dall’alcol, è emerso come trattamento salvavita per i pazienti con cirrosi alcolica scompensata o con epatite alcolica severa. Diversi studi hanno dimostrato che il rispetto della "regola dei 6 mesi" di astinenza dall’alcol non è un buon predittore di ricadute nell'uso di alcol dopo il trapianto. In effetti, lo stato psicosociale del candidato, la giovane età e i tentativi falliti di riabilitazione precedenti sono variabili più forti associate alla recidiva di uso di alcol dopo il trapianto. In uno studio prospettico che sfida la regola dei 6 mesi, il trapianto epatico precoce in pazienti selezionati con epatite alcolica severa ha portato a risultati positivi comparabili con quelli dei pazienti che rispettano la regola dei sei mesi di astinenza.

Quali sono i principi fondamentali e le complicanze della miotomia laparoscopica di Heller per l’acalasia?

La miotomia di Heller rappresenta il trattamento chirurgico di scelta per l’acalasia, una patologia caratterizzata dalla disfunzione del muscolo dello sfintere esofageo inferiore (LES) e dall’assenza di peristalsi esofagea efficace. L’intervento consiste in una miotomia longitudinale della muscolatura liscia della porzione distale dell’esofago e della giunzione esofago-gastrica (EGJ), preservando intatta la mucosa sottostante. Prima dell’era della chirurgia mini-invasiva, la procedura veniva eseguita principalmente per via toracica, ma attualmente l’approccio laparoscopico transaddominale è il metodo preferito grazie ai risultati a lungo termine favorevoli, che si attestano tra l’84% e il 94% di successo nei pazienti.

L’intervento inizia con una gastroscopia per valutare la funzionalità esofagea e la tensione dello sfintere. Successivamente, vengono posizionati cinque trocar nell’addome superiore secondo uno schema simile a quello utilizzato nelle procedure anti-reflusso laparoscopiche. La miotomia si estende per circa 6 cm lungo l’esofago e 2-3 cm oltre la giunzione esofago-gastrica sul fondo gastrico, con l’obiettivo di eliminare la zona ipertonica responsabile della difficoltà di transito. L’efficacia della miotomia viene verificata intraoperatoriamente attraverso manometria, endoscopia ripetuta o tramite EndoFLIP, uno strumento endoscopico che misura il diametro e la distensibilità degli sfinteri gastrointestinali.

Dopo la miotomia si esegue una fundoplicatio parziale, di solito una Dor anteriore, intorno a un bougie da 52-Fr, per prevenire il reflusso gastroesofageo senza creare un’ostruzione eccessiva. Esiste un consenso generale che una fundoplicatio a 360° (Nissen) possa peggiorare la funzione esofagea in pazienti con peristalsi compromessa, aumentando il rischio di recidiva dei sintomi. Studi randomizzati hanno dimostrato un tasso di recidiva significativamente più alto con Nissen rispetto alla Dor, confermando la preferenza per la fundoplicatio parziale. La Toupet posteriore è considerata equivalente alla Dor in termini di efficacia anti-reflusso, ma la Dor gode di maggiore favore per la semplicità e la protezione della mucosa esposta.

Le complicanze più frequenti della miotomia sono rappresentate dalla perforazione esofagea, con una incidenza fino al 4,6%. Questa complicanza è favorita da precedenti trattamenti come la dilatazione pneumatica o l’iniezione di tossina botulinica, che rendono più difficile la dissezione chirurgica. Le lesioni mucose individuate durante l’intervento possono essere riparate immediatamente, mentre le perforazioni non riconosciute possono manifestarsi con febbre persistente, tachicardia o versamento pleurico sinistro e richiedono monitoraggio stretto e, talora, reintervento. La disfagia postoperatoria precoce è spesso causata da una miotomia incompleta e risponde generalmente all’estensione della miotomia stessa. Nei casi di disfagia tardiva possono intervenire cicatrizzazione o stenosi da reflusso; tuttavia, nei pazienti con miotomia iniziale completa, ulteriori interventi chirurgici hanno spesso scarso successo, rendendo necessaria, in casi estremi, la resezione esofagea.

Il confronto tra la miotomia chirurgica e la dilatazione meccanica ha evidenziato un vantaggio a lungo termine della procedura chirurgica, soprattutto con l’avvento della laparoscopia che ha ridotto drasticamente la morbilità e la mortalità associate alla chirurgia open. Studi controllati randomizzati hanno mostrato un’efficacia simile a due anni di follow-up tra miotomia laparoscopica con fundoplicatio e dilatazione pneumatica, sebbene quest’ultima richieda spesso più sessioni ripetute.

La POEM (Peroral Endoscopic Myotomy) rappresenta un’innovazione tecnica che riproduce la miotomia di Heller in modo endoscopico, creando un tunnel sottomucoso attraverso il quale si esegue la sezione selettiva della muscolatura circolare. Sebbene i risultati a breve termine siano promettenti con un miglioramento della disfagia paragonabile alla chirurgia tradizionale, il rischio di malattia da reflusso gastroesofageo è significativamente più elevato, poiché non viene effettuata alcuna procedura anti-reflusso. La scelta tra approccio chirurgico o endoscopico dipende da molteplici fattori clinici, inclusa la presenza di precedenti interventi.

L’algoritmo terapeutico per l’acalasia prevede inizialmente terapie mediche con nitrati o calcio antagonisti e, nei pazienti non candidabili a intervento chirurgico, iniezioni endoscopiche di tossina botulinica. La dilatazione pneumatica rimane un’opzione efficace, ma spesso richiede ripetizioni nel tempo. Nei pazienti più giovani o con sintomi severi la miotomia laparoscopica con fundoplicatio parziale è raccomandata come terapia di prima linea, con la POEM riservata come alternativa o in caso di recidiva dopo chirurgia.

È fondamentale comprendere che, nonostante un aumento del rischio relativo di carcinoma esofageo nei pazienti con acalasia (soprattutto carcinoma squamoso), il rischio assoluto rimane basso, e le principali società gastroenterologiche non raccomandano uno screening endoscopico routinario per la neoplasia. Inoltre, la scelta del trattamento deve sempre considerare un bilanciamento tra efficacia e rischio di complicanze, in particolare la gestione del reflusso post-operatorio, che può essere controllato efficacemente con terapie mediche.

Qual è il legame tra l'esofago di Barrett e il cancro esofageo?

Il cancro esofageo ha visto un preoccupante aumento dell'incidenza, in particolare tra gli uomini bianchi di età superiore ai 60 anni. La causa di questo incremento, che appare essere correlato anche a un cambiamento nelle caratteristiche demografiche, rimane sconosciuta, anche se una parte dell'aumento può essere attribuita alla crescente incidenza dell'esofago di Barrett, e al conseguente carcinoma adenocellulare nell'esofago distale.

L'esofago di Barrett è una condizione acquisita che si verifica nel 10-15% delle persone con malattia da reflusso gastroesofageo cronica (GERD) e nel 6,8% della popolazione generale. In questa condizione, l'epitelio squamoso stratificato che normalmente riveste l'esofago distale viene sostituito da un epitelio colonnare metaplatico. Si ritiene generalmente che la malattia evolva da una metaplasia di Barrett a displasia di basso grado (LGD), quindi a displasia di alto grado (HGD), per arrivare infine al carcinoma adenocellulare. La frequenza di comparsa del carcinoma adenocellulare aumenta quasi di 40 volte nei pazienti con esofago di Barrett. Si stima che circa il 5% dei pazienti con questa condizione svilupperanno infine un cancro invasivo, motivo per cui è essenziale un monitoraggio periodico a vita con biopsie endoscopiche eseguite ogni 2 cm (1 cm in caso di displasia nota), data la gravità del rischio.

Sebbene non esista un trattamento definitivo per invertire completamente il rischio, recenti studi suggeriscono che controllare il reflusso può ridurre la probabilità che i pazienti con GERD senza epitelio di Barrett sviluppino la condizione. Inoltre, il controllo del reflusso potrebbe diminuire la tendenza alla degenerazione displastica o maligna dell'epitelio di Barrett già presente. Questo effetto può essere ottenuto tramite un trattamento medico o chirurgico, con quest'ultimo che sembra essere più efficace. Nei casi di intervento chirurgico, si è osservato che la regressione della displasia al normale epitelio squamoso può avvenire nel 50-70% dei casi entro cinque anni dall'operazione. Tuttavia, i pazienti con esofago di Barrett trattato chirurgicamente rimangono comunque a un rischio dieci volte superiore di sviluppare carcinoma esofageo rispetto alla popolazione generale.

La gestione della displasia nell’esofago di Barrett è stata per lungo tempo una sfida. La resezione esofagea è stata il trattamento principale per la displasia di alto grado (HGD), ma negli ultimi anni le terapie endoscopiche di eradicazione, come l'ablazione a radiofrequenza, la terapia fotodinamica, la crioterapia e la resezione mucosale endoscopica, sono diventate il trattamento preferito per la displasia di basso e alto grado, così come per i tumori intramucosi. Questo approccio è sostenuto dal fatto che la possibilità di diffusione linfonodale nei casi di displasia e tumori intramucosi è estremamente bassa (<2%), riducendo di fatto l’utilità della resezione linfonodale. L'esofagectomia è raramente utilizzata come prima linea di trattamento a meno che il paziente non sia disposto o in grado di affrontare la sorveglianza endoscopica a vita e le EET.

Quando si parla di opzioni chirurgiche per il trattamento del cancro esofageo, la resezione esofagea rimane la principale modalità terapeutica. Negli Stati Uniti, le resezioni esofagee più comuni sono effettuate utilizzando approcci come l'esofagectomia transhiatale, l'esofagectomia Ivor-Lewis e quella toraco-addominale. Ogni approccio ha i suoi vantaggi e svantaggi: ad esempio, l'esofagectomia transhiatale evita un'anastomosi toracica, riducendo così i rischi associati alle perdite di anastomosi intratoraciche, mentre l'esofagectomia Ivor-Lewis, pur comportando maggiori rischi, può risultare più adatta per tumori più avanzati. L'introduzione di tecniche minimamente invasive, che prevedono l'uso di laparoscopia o toracoscopia, ha ridotto significativamente il dolore post-operatorio e la durata del ricovero, senza compromettere i tassi di sopravvivenza a lungo termine.

Le terapie neoadiuvanti, come la chemioradioterapia (CRT), sono consigliate per i pazienti con tumori avanzati localmente. Le linee guida recenti suggeriscono l'uso di CRT neoadiuvante per i tumori squamosi avanzati e di chemioterapia a base di platino o CRT per gli adenocarcinomi avanzati. Per i tumori T2, i benefici della terapia neoadiuvante sono meno chiari, e quindi un approccio multidisciplinare personalizzato dovrebbe essere preso in considerazione per decidere tra un trattamento neoadiuvante o una chirurgia prima.

Nel caso di lesioni precancerose o di tumori superficiali limitati alla mucosa, è possibile un trattamento curativo mediante terapie endoscopiche di eradicazione. Quando invece il trattamento curativo non è più possibile, oltre alla chemioterapia sistemica, le misure palliative includono radioterapia a fasci esterni, brachiterapia endoluminale, ablazione laser, terapia fotodinamica, stent endoluminali e accessi chirurgici per l'alimentazione.

La sopravvivenza a 5 anni per i pazienti con cancro esofageo è generalmente del 14%, ma i pazienti con malattia localizzata hanno una probabilità di sopravvivenza più alta rispetto a quelli con forme più avanzate o metastatiche. Nonostante i progressi nelle tecniche chirurgiche e nelle terapie neoadiuvanti, la prognosi rimane incerta, e ogni caso deve essere trattato come unico, con un approccio individualizzato che consideri vari fattori di rischio e le condizioni generali del paziente.

Quali sono le caratteristiche istologiche e le strategie di gestione delle lesioni gastriche pre-maligne e dei tumori sottopielici?

Le caratteristiche istologiche di una lesione gastrica influenzano profondamente il suo potenziale di malignità. Ad esempio, l’evoluzione verso un carcinoma si osserva nel 30-40% degli adenomi con componenti villose e in quelli di dimensioni superiori a 2 cm. In generale, la progressione degli adenomi gastrici verso adenocarcinomi si attesta intorno al 5%, motivo per cui la rimozione completa di tali lesioni è raccomandata ogni volta che è possibile.

I polipi iperplastici (HP) presentano un rischio di trasformazione maligna inferiore rispetto agli adenomi, ma si manifestano spesso in contesti in cui il rischio globale di malignità della mucosa gastrica è aumentato, come nell’anemia perniciosa, nella gastrite associata a Helicobacter pylori o nella gastrite cronica. La frequenza di adenocarcinomi insorti su HP varia dallo 0,6% al 2,1%, mentre tra l’1% e il 20% di questi polipi possono presentare foci di displasia. Il rischio di sviluppo neoplastico aumenta con le dimensioni del polipo; pertanto, si consiglia generalmente la rimozione di HP con diametro superiore a 0,5-1 cm. Durante la valutazione endoscopica è fondamentale eseguire multiple biopsie dall’antro e dal corpo gastrico per escludere gastrite autoimmune e infezione da H. pylori, la cui eradicazione è associata alla regressione di HP. Nei pazienti con HP e gastrite atrofica cronica si può procedere alla stratificazione del rischio per carcinoma gastrico utilizzando sistemi di stadiazione istologica come l’Operative Link for Gastritis Assessment (OLGA) o l’Operative Link on Gastritis/Intestinal Metaplasia Assessment (OLGIM).

L’ecografia endoscopica (EUS) consente di visualizzare distintamente le cinque stratificazioni ecografiche della parete gastrica. La prima, iperecogena, corrisponde all’interfaccia tra la sonda e la mucosa superficiale; la seconda, ipoecogena, rappresenta la mucosa profonda, contenente la muscolaris mucosae. La terza è iperecogena e identifica la sottomucosa; la quarta, ipoecogena, corrisponde alla muscolaris propria, da cui originano la maggior parte dei tumori sottopielici gastrici; la quinta è la sierosa, generalmente indistinguibile dal grasso periviscerale adiacente, anch’esso iperecogeno.

La diagnosi differenziale delle lesioni sottopieliche (subepithelial tumors, SET) si divide in lesioni intrinseche o estrinseche. Le cause estrinseche includono compressioni da organi vicini come la milza o il fegato, mentre le lesioni intrinseche possono essere di varia natura: leiomiomi, tumori neural-derivati, lipomi, cisti di duplicazione, tessuto pancreatico ectopico, polipi fibroidi infiammatori, tumori granulari, varici, tumori stromali gastrointestinali (GIST), linfomi, carcinoidi, metastasi e tumori glomici. Ciascuna di queste entità presenta caratteristiche endosonografiche e immunoistochimiche peculiari che aiutano nella diagnosi differenziale. Ad esempio, i GIST sono tipicamente ipoecogeni, originano dal quarto strato e sono positivi per CD117 e DOG1, mentre i leiomiomi sono positivi per l’actina muscolare liscia e negativi per CD117.

La diagnosi istologica di SET può essere effettuata tramite biopsie “bite-on-bite”, anche se la resa diagnostica è limitata, o con agoaspirazione (FNA) guidata da EUS, che rappresenta il gold standard poiché consente anche di valutare i linfonodi regionali e lesioni extramurali. La biopsia con ago core (FNB) offre un campione più consistente, preservando l’architettura tissutale, utile soprattutto nei casi complessi. In assenza di disponibilità o in presenza di difficoltà tecniche, è possibile utilizzare tecniche alternative come il single-incision needle-knife seguito da biopsie con pinza fredda.

Il trattamento delle lesioni sottopieliche dipende dalla dimensione e dallo strato di origine. Le lesioni di piccolo-medio diametro (1-2 cm) che non penetrano oltre la sottomucosa possono essere rimosse tramite resezione mucosa endoscopica (EMR). La dissezione endoscopica sottomucosa (ESD), più complessa e rischiosa, richiede un’esperienza avanzata e permette la resezione completa di lesioni più profonde con un tasso maggiore di perforazioni. La resezione full-thickness (EFTR), a parità di rischio di complicanze, consente resezioni en bloc di tumori originanti dalla muscolaris propria, e l’uso di tecniche laparoscopiche assistite può facilitare l’asportazione di tumori voluminosi, riducendo il rischio di perforazione grazie alla visualizzazione diretta del peritoneo.

La complessità diagnostica e terapeutica delle lesioni gastriche richiede una comprensione approfondita della correlazione tra aspetti istologici, endosonografici e clinici. La stratificazione del rischio, supportata da criteri istopatologici e stadiazioni specifiche, permette di calibrare l’approccio terapeutico tra sorveglianza e intervento. È fondamentale che la valutazione includa non solo l’identificazione della lesione ma anche la ricerca di condizioni gastriche predisponenti e di fattori di rischio sistemici. La conoscenza dettagliata delle caratteristiche ecografiche e immunoistochimiche delle lesioni sottopieliche permette una diagnosi più precisa, che guida la scelta della tecnica endoscopica più appropriata, ottimizzando i risultati e minimizzando le complicanze.

Autoimmunità epatica e sindromi di sovrapposizione: un approccio diagnostico

La diagnosi di epatite autoimmune (AIH) è un processo complesso che richiede una valutazione approfondita della storia clinica del paziente, dei risultati di laboratorio e dei dati istologici. Uno degli aspetti più intriganti di questa patologia è la possibilità di sovrapposizione con altre malattie epatiche autoimmuni, come la cirrosi biliare primitiva (PBC) e la colangite sclerosante primitiva (PSC). Queste sindromi di sovrapposizione presentano caratteristiche comuni sia dell’AIH che di queste altre malattie, rendendo la diagnosi ancora più difficile.

Una delle domande più frequenti riguarda la possibilità di un AIH senza la presenza degli autoanticorpi tradizionali. In effetti, circa il 10% degli adulti con epatite cronica criptogenetica soddisfano i criteri diagnostici per l’AIH, ma non presentano gli autoanticorpi convenzionali. Questi pazienti sono simili agli altri in termini di età, sesso, fenotipo HLA, risultati di laboratorio e caratteristiche istologiche, e possono rispondere ai corticosteroidi. Sebbene altre cause di elevazione dei test della funzione epatica, come la steatoepatite non alcolica, debbano essere escluse, un sistema diagnostico completo può essere utile per indirizzare la diagnosi e le decisioni terapeutiche.

Il profilo degli autoanticorpi è un altro elemento cruciale nella diagnosi dell’AIH. Gli autoanticorpi più comuni associati all’epatite autoimmune comprendono gli antinucleo (ANA), gli anticorpi contro il muscolo liscio (SMA) e gli anticorpi antimitochondriali (AMA), ciascuno con caratteristiche e specificità diverse. In alcuni casi, si può osservare la presenza di anticorpi anomali, come i pANCA, che, pur essendo non standardizzati, possono essere utili in pazienti negativi ai test convenzionali. Esistono anche test investigativi per gli anticorpi contro il recettore asialoglicoproteico (ASGPR), che mostrano una specificità elevata, ma una bassa sensibilità. Sebbene questi test possano non essere ancora ampiamente utilizzati, rappresentano un’opportunità per affinare la diagnosi.

Quando sospettiamo un’epatite autoimmune, dobbiamo considerare una diagnosi differenziale con altre patologie che possono presentare caratteristiche simili, in particolare le malattie autoimmuni che colpiscono il fegato, come la PBC e la PSC. Le sindromi di sovrapposizione sono una manifestazione frequente, in cui i pazienti presentano caratteristiche dell’AIH ma anche segni clinici e istologici che suggeriscono un danno biliare. Ad esempio, i pazienti con AIH possono avere AMA e lesioni bile ductali che evocano la PBC, o, al contrario, un quadro colangiografico che suggerisce la PSC, ma senza AMA. In questi casi, i pazienti possono rispondere alla terapia con corticosteroidi, come nel caso dell’AIH.

Le sindromi di sovrapposizione tra AIH e PBC sono state definite dai criteri di Parigi, che prevedono la presenza di epatite interfaccia, un livello di ALT nel siero superiore di almeno cinque volte il limite superiore della norma, un livello di IgG doppio rispetto al valore di riferimento, e la presenza di anticorpi SMA. Inoltre, la componente PBC deve essere caratterizzata da almeno due delle seguenti caratteristiche: un livello di fosfatasi alcalina due volte superiore al valore di riferimento, un aumento significativo dei livelli di gamma-glutamiltransferasi e la presenza di AMA. Tuttavia, solo una piccola percentuale di pazienti con PBC soddisfa questi criteri, e individui con caratteristiche meno marcate potrebbero non essere diagnosticati correttamente.

La diagnosi delle sindromi di sovrapposizione è ostacolata da una mancanza di criteri diagnostici unificati e da una variabilità nei sintomi e nei risultati dei test. Pertanto, è fondamentale mantenere un alto indice di sospetto clinico in tutti i pazienti con epatite cronica o acuta di causa sconosciuta, considerando la possibilità di un’AIH, specialmente in presenza di risposte favorevoli alla terapia con corticosteroidi.

L’approccio diagnostico deve essere tempestivo e accurato, considerando l’aggressività dell’AIH non trattata e la sua capacità di rispondere rapidamente al trattamento. La possibilità che un paziente sviluppi un’epatite autoimmune dopo un trapianto di fegato, così come la recidiva di AIH nei pazienti trapiantati, deve essere sempre presa in considerazione. Circa il 20% dei pazienti trapiantati sviluppa recidive di AIH, e in alcuni casi la malattia può svilupparsi ex novo anche nei bambini e negli adulti trapiantati per malattie epatiche non autoimmuni.

Infine, è essenziale ricordare che la diagnosi di AIH può essere complicata da vari fattori, inclusi i test diagnostici non sempre conclusivi e la presenza di malattie sovrapposte. La diagnosi deve essere pertanto un processo dinamico e adattativo, che può richiedere una revisione dei test in caso di risultati negativi iniziali, poiché gli autoanticorpi potrebbero comparire in momenti successivi della malattia.