Donald Trump, malgrado le sue innumerevoli parole, ha sempre mantenuto un profilo piuttosto vago riguardo ai suoi genitori, sia consapevolmente che inconsapevolmente. Quando si tratta di parlare della sua infanzia o dei suoi legami familiari, è solito utilizzare espressioni superficiali o banali, senza mai rivelare dettagli sostanziali. In particolare, Trump non ha mai approfondito le sue interazioni con i genitori, e raramente ha parlato di sua madre, se non per esprimere frasi generiche su quanto fossero "grandi" entrambi i suoi genitori. Un raro spunto di sincerità emerge in un passaggio del suo libro Think Big: Make It Happen in Business and Life (2007), in cui risponde alla domanda su quale fosse il miglior consiglio che i suoi genitori gli avessero dato: «Mia madre era una moglie che si dedicava alla casa. Mi diceva sempre, ‘Sii felice!’ Voleva che fossi felice. Mio padre mi capiva di più e mi diceva, ‘Voglio che tu abbia successo’. Era un uomo molto determinato. Per questo sono così rovinato, perché ho avuto un padre che mi spingeva piuttosto forte. Mio padre era un uomo duro, ma era anche un uomo buono, un uomo gentile, e mi diceva sempre di fare qualcosa che amassi. Ora sono felice, quindi alla fine ho fatto ciò che entrambi i miei genitori volevano che facessi».
Un aspetto interessante della sua famiglia è l'assenza emotiva che ha caratterizzato la sua crescita. La madre di Donald, Mary Anne, fu segnata da una serie di esperienze traumatiche, comprese le complicazioni di salute che la tennero spesso lontana dai suoi figli. Una delle ricostruzioni più dettagliate di queste dinamiche familiari proviene da MLT, che suggerisce come la figura della nonna di Mary Anne, un altro punto di riferimento nella vita dei Trump, fosse ancor più bisognosa e distaccata, a causa del difficile ambiente in cui era cresciuta. La famiglia di Mary Anne, a causa di queste difficoltà, si trovò spesso in una condizione di “essere priva di una madre”, lasciando che Mary Anne, a soli 12 anni, assumesse il ruolo di surrogato materno per i suoi fratelli più piccoli, tra cui Donald.
Nel contesto della famiglia Trump, nonostante la presenza di una figura materna e paterna, il caldo affetto e la cura emotiva erano carenti. Mary Anne, infatti, non sembrava mai in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni emotivi dei figli, più preoccupata di soddisfare i suoi che quelli dei bambini. Questo tipo di comportamento è stato descritto come un tentativo di utilizzare i figli per il proprio conforto emotivo, piuttosto che fornire loro il sostegno di cui avevano bisogno. Mary Anne, instabile e incline all’autocommiserazione, sembrava incapace di svolgere un ruolo materno coerente.
Fred Trump, il padre di Donald, fu una figura ancora più distante e disinteressata. Descritto come un uomo stoico, senza necessità emotive apparenti, e con comportamenti che si avvicinano alla sociopatia, Fred Trump non aveva alcun interesse a essere un padre affettuoso. La sua idea di educazione si basava sull'obbedienza, senza alcuna empatia per le difficoltà o i sentimenti dei figli. Questo comportamento ha avuto un impatto devastante sullo sviluppo emotivo di Donald, che imparò presto a nascondere le proprie necessità emotive, poiché ogni tentativo di chiedere conforto o attenzione veniva respinto con indifferenza o ostilità.
La mancanza di un legame affettivo sicuro e stabile durante l'infanzia ha creato una serie di distorsioni nella percezione di sé di Donald. Imparò a mascherare i suoi bisogni e le sue emozioni, sviluppando una sorta di “impotenza appresa” che lo portò a reprimere qualsiasi segno di vulnerabilità. Questo comportamento, che all'inizio poteva sembrare una difesa contro il dolore emotivo, si trasformò nel tempo in una serie di dinamiche disfunzionali di aggressività, bullismo e disprezzo nei confronti degli altri, che contribuirono a rafforzare la sua visione del mondo come un luogo ostile e competitivo.
Questa forma di disconnessione emotiva e solitudine familiare ha avuto effetti profondi non solo sulla relazione di Donald con i suoi genitori, ma anche con i suoi fratelli e sorelle. Nonostante fossero fisicamente vicini, i membri della famiglia Trump erano emotivamente isolati l'uno dall'altro. L'assenza di solidarietà tra i fratelli, con la paura costante delle ritorsioni del padre, ha impedito loro di formare legami più forti e supportarsi reciprocamente. Questo isolamento e la competizione costante per l'affetto del padre sono stati tra i motivi per cui, come affermato dalla nipote Mary, i fratelli non si sono mai uniti veramente, e l’aiuto reciproco è stato praticamente impossibile.
L'adattamento psicologico di Donald alle circostanze familiari è stato segnato da una serie di difese primitive che, sebbene possano avergli permesso di sopravvivere emotivamente, hanno anche radicato dentro di lui una visione distorta del mondo. La sua rabbia repressa, la mentalità da vittima e il risentimento crescente nei confronti dei suoi genitori e dei suoi fratelli hanno contribuito a sviluppare la sua natura competitiva e aggressiva, che si è manifestata nel suo comportamento pubblico e nelle sue interazioni con gli altri.
Questo scenario familiare disfunzionale è cruciale per comprendere la personalità di Donald Trump e le dinamiche che hanno plasmato non solo la sua vita personale, ma anche la sua carriera pubblica e politica. Comprendere il suo background emotivo aiuta a fare luce su alcuni dei tratti più controversi del suo carattere, come la sua spinta al successo a ogni costo, la sua indifferenza verso le emozioni altrui e la sua costante ricerca di approvazione esterna.
L'arma della legge: Come Trump ha manipolato la litigiosità a suo favore
Le cause legali, specialmente in società orientate verso la litigiosità e la celebrità come quella degli Stati Uniti, attirano molta attenzione. Non diversamente dai grandi eventi sportivi, le controversie legali che coinvolgono grandi aziende, l'industria dell'intrattenimento, la politica o conflitti individuali sono da sempre considerate tra le attività preferite dagli americani. Le cause legali sono spesso percepite come eventi altamente emozionali e drammatici. Tuttavia, a parte le cause di grande rilievo o le azioni penali, la maggior parte dei procedimenti legali risulta noiosa, difficilmente sopportabile e di solito insignificante per chi non ne è direttamente coinvolto. Come spesso si dice, gli unici veri vincitori nelle cause legali sono gli avvocati, a condizione che vengano pagati per i loro servizi. Per chi, invece, è coinvolto in battaglie legali prolungate, qualunque sia la parte in causa, la maggior parte dei litiganti trova che l'esperienza sia un peso economico, reputazionale e psicologico.
Donald Trump, tuttavia, è una notable eccezione a questa regola. Con oltre 4.000 cause legali da quando ha iniziato la sua carriera negli anni '70, Trump ha trasformato la litigiosità in una delle sue caratteristiche distintive. La sua passione per le cause legali è paragonabile a quella per le lattine di cola dietetica e per le scatole di fast food. Come imprenditore, intrattenitore e politico, Trump ha dichiarato: "Ho sfruttato le leggi. E, francamente, anche tutti gli altri nella mia posizione lo fanno". Questa affermazione riflette una visione più ampia del suo approccio alle controversie legali: non come una necessità o una reazione a un danno subito, ma come una vera e propria strategia.
Quando Trump accusa gli altri di compiere azioni che considera ingiuste nei suoi confronti, spesso si trova di fronte a un caso di "il pentito che accusa". Questo principio si applica particolarmente alle sue dichiarazioni sul trattamento da parte dei media o sulle accuse di frodi fiscali, in cui non manca mai di denunciare attacchi nei suoi confronti mentre contemporaneamente si avvale delle stesse tattiche.
La gestione della pandemia di COVID-19 è un esempio emblematico della sua capacità di gestire le cause legali come una parte integrante della sua narrazione pubblica. Durante la sua presidenza, le risposte alle accuse di cattiva gestione della crisi sanitaria hanno coinvolto continui conflitti legali, manipolazioni e dichiarazioni pubbliche spesso controverse. Le stime sui morti evitabili a causa della gestione disastrosa della pandemia sono variegate, ma ciò che emerge è che le mancanze nell'affrontare la crisi sanitaria sono state tanto legali quanto politiche.
L'approccio di Trump verso la legge riflette una visione secondo cui il sistema legale non è solo un mezzo di risoluzione delle controversie, ma un potente strumento per consolidare potere, intimidire avversari e amplificare la sua immagine pubblica. Le sue cause legali sono spesso usate per distrarre, confondere o influenzare l'opinione pubblica, che tende a rimanere attratta dal dramma e dalla spettacolarità di ogni nuova battaglia legale. La sua capacità di "armaizzare" il sistema legale diventa quindi una delle leve fondamentali del suo modus operandi.
Sebbene Trump possa considerare le sue azioni legali come un modo per "fare ciò che tutti fanno", in realtà la sua esperienza dimostra come il sistema legale possa essere utilizzato non solo come strumento di difesa, ma anche come una vera e propria offensiva per proteggere il proprio status, mantenere il controllo e manipolare le percezioni pubbliche. La sua abilità di vincere o distogliere l'attenzione da questioni più gravi tramite cause legali è un segno di come la legge possa essere, in certi contesti, trasformata in un'arma.
Inoltre, è importante comprendere che l’uso del sistema legale da parte di Trump non è solo un fenomeno isolato. Fa parte di un più ampio quadro in cui le disuguaglianze legali, economiche e politiche si intrecciano, creando una dinamica in cui le persone e le istituzioni potenti riescono ad avvalersi della legge per i propri scopi, mentre le persone comuni sono costrette a subire la complessità e i costi di un sistema che sembra funzionare più per chi ha risorse che per chi cerca giustizia. È essenziale notare che Trump, come molte altre figure di potere, ha sfruttato la litigiosità non solo come uno strumento di difesa legale, ma come una pratica quotidiana, parte integrante della sua strategia per rimanere al centro della scena politica e mediatica.
Qual è il legame tra alienazione, social media e la frammentazione della comunità nel contesto del trumpismo?
Nel gennaio del 2020, alcuni sostenitori evangelici di Trump si sono fatti notare durante l'assalto al Campidoglio, portando bandiere con la scritta "Gesù è il mio Salvatore, Trump è il mio Presidente". Due di loro sono stati ripresi mentre marciavano pacificamente per l’edificio, uno con una bandiera cristiana e l’altro con una Bibbia, ripetendo incessantemente: "Il sangue di Gesù copre questo luogo". Questa scena, apparentemente innocua, riflette una realtà ben più complessa che attraversa la società contemporanea: l'alienazione e la frammentazione della comunità, fenomeni che hanno radici profonde e che sono stati descritti da sociologi, economisti e scienziati politici fin dal XIX secolo.
Dal concetto di anomia di Emile Durkheim all’alienazione di Karl Marx, fino alle analisi contemporanee di Robert Bellah, Robert Putnam e Sherry Turkle, numerosi studiosi hanno discusso l'erosione dei legami sociali nelle società moderne. Con l'avvento della modernità, la comunità è stata progressivamente sostituita da un'individualità sempre più accentuata, che trova nel consumismo e nelle dinamiche di potere nuovi terreni di espressione. Il mondo post-moderno, con la sua rete di comunicazione digitale, ha accentuato questo distacco. Andrew Marantz, ad esempio, ha denunciato come i social media abbiano accelerato la decadenza dei media professionisti e la disintegrazione della vita civica, creando una connessione illusoria che molte persone scambiano per un legame autentico.
Il fenomeno dei social media ha fornito un palcoscenico dove si consumano relazioni virtuali, ma queste, seppur coinvolgenti, non possono sostituire le vere comunità fisiche, fatte di incontri faccia a faccia e di relazioni costruite nel tempo. I cosiddetti “spazi virtuali” non sono altro che ombre, che rischiano di confondere l’individuo, offrendogli un'illusoria sensazione di connessione. Questo tipo di socialità, purtroppo, contribuisce alla solitudine, alla depressione e ad un crescente disorientamento identitario. I dati scientifici, tra cui quelli forniti dal famoso “whistleblower” di Facebook, Frances Haugen, hanno dimostrato come gli algoritmi dei social siano progettati per amplificare la disinformazione, alimentando conflitti e sfiducia a livello sociale. La manipolazione delle emozioni e delle opinioni per scopi economici ha un impatto devastante sulla psiche collettiva, che rischia di scivolare verso una forma di psicopatologia sociale, un fenomeno che già da tempo è stato analizzato da pensatori come R.D. Lang.
Lang, infatti, parlava di psicosi come una condizione ontologica, una separazione tra il "vero sé" e il "sé pubblico", una disconnessione dall'autenticità e dall’autonomia, che spinge gli individui a cercare un’identità in gruppi che rafforzano la percezione di sé, seppur in modo distorto e pericoloso. È facile comprendere come questa dinamica spinga molte persone verso l’adesione a movimenti estremisti come quelli che si sono legati a Trump: MAGA, suprematismo bianco, QAnon, e altre realtà che offrono rifugio a chi si sente alienato dalla società. In queste comunità, le identità individuali si fondono in un’unica narrazione che offre certezze e spiegazioni facili a una realtà complessa e minacciosa.
Questo fenomeno si radica nelle dinamiche di potere che determinano le disuguaglianze sociali e culturali, e che spesso portano alla repressione dell’individuo. Storia, filosofia e sociologia ci ricordano come la repressione dell’autonomia personale sia sempre stata legata alla necessità di giustificare la struttura economica e politica. Gli studi di Wilhelm Reich, Herbert Marcuse, e Frantz Fanon, tra gli altri, evidenziano come l'esperienza umana si sia progressivamente trasformata in una lotta per la sopravvivenza in un contesto che favorisce l'alienazione e la perdita di sé.
Nel caso della presidenza Trump, questa condizione psicologica e sociale si è manifestata in un profondo distacco dalla realtà, amplificato da una politica dell’identità che ha polarizzato il paese. La divisione tra repubblicani e democratici non è mai stata così netta, come confermano i dati del Pew Research Center che mostrano un divario crescente tra le due fazioni politiche. Questi conflitti sono espressione di una frattura più profonda che riguarda la nostra comprensione della comunità e dell’individualità, e la nostra capacità di navigare in un mondo sempre più disconnesso.
In definitiva, il fenomeno di Trumpismo e la sua affermazione in un contesto di crescente alienazione sociale non sono semplicemente un episodio politico, ma una manifestazione di una crisi più ampia che tocca le fondamenta della nostra vita emotiva e sociale. La sfida che ci troviamo ad affrontare è quella di riconnetterci come esseri umani, superando le distorsioni e le disconnessioni imposte dai media digitali e dalla cultura della solitudine. La vera comunità non può essere sostituita da interazioni virtuali, e solo un ritorno a una socialità autentica, fatta di relazioni reali, potrà arginare la spirale distruttiva in cui molti sembrano essere intrappolati.
È possibile che tutti i racconti seguano un'unica formula narrativa universale?
Quali sono le raccomandazioni per la sorveglianza dei pazienti con la sindrome di Lynch e la poliposi adenomatosa familiare?
Cosa si nasconde dietro la vulnerabilità di una persona apparentemente forte?
Perché la biomedicina non basta: la necessità di un approccio olistico

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский