Nel corso della campagna presidenziale del 1960, la religione giocò un ruolo cruciale, tanto da diventare un tema di accesi dibattiti, in particolare intorno alla figura di John F. Kennedy, il candidato democratico. La sua fede cattolica divenne oggetto di pregiudizi e sospetti, soprattutto nelle regioni del Sud degli Stati Uniti, dove l’anticattolicesimo era ancora radicato e ampiamente diffuso.
I primi segnali di questa opposizione emersero con l’utilizzo di opuscoli anticattolici distribuiti tra gli elettori di Wisconsin, uno degli Stati cruciali durante le primarie. La campagna contro Kennedy, alimentata sia da esponenti politici che dalla stampa, mirava a creare una spaccatura tra i cattolici e i protestanti. In un clima di crescente tensione religiosa, Kennedy si trovò a dover difendere la sua posizione in merito alla separazione tra Chiesa e Stato. Il 12 settembre, durante un famoso discorso a Houston, Kennedy dichiarò: “Credo in un’America dove la separazione tra Chiesa e Stato sia assoluta – dove nessun prelato cattolico dica al Presidente come agire e nessun ministro protestante dica ai suoi parrocchiani per chi votare”. Questo intervento divenne un punto di riferimento per tutta la sua campagna, un chiaro messaggio che cercava di rassicurare gli elettori sul fatto che la sua fede non avrebbe influenzato le sue decisioni politiche.
Nonostante le sue dichiarazioni, la questione religiosa non scomparve facilmente. I repubblicani, compreso l’allora vicepresidente Richard Nixon, sebbene rimanessero in gran parte silenziosi sull’argomento, videro nel tema religioso un’opportunità di dividere l’elettorato. Altri esponenti del partito repubblicano non esitarono a sfruttare la questione religiosa, soprattutto durante le primarie, in particolare in Stati come il Texas e l’Arkansas, dove la presenza cattolica era minore e l’anticattolicesimo più radicato.
La situazione divenne ancora più complessa con il proseguire delle primarie, e la disputa sulla religione divenne centrale in Stati come il West Virginia, dove la componente cattolica era molto inferiore rispetto a quella protestante. In quest’area, Kennedy affrontò la questione con più determinazione, sottolineando la necessità di una separazione netta tra Chiesa e Stato. La stampa, i politici e gli esperti avevano esagerato il ruolo della religione, ma Kennedy riuscì a vincere anche grazie alla sua capacità di convincere l’elettorato che avrebbe difeso i loro interessi economici e politici più di quanto avrebbe fatto il suo avversario, Hubert Humphrey.
Nonostante la retorica religiosa che aveva dominato le primarie, l’elezione generale del novembre 1960 fu caratterizzata da temi più tradizionali, come le politiche economiche e la lotta contro il comunismo. Tuttavia, la questione religiosa continuò a riecheggiare nella campagna, con i repubblicani che accusavano i democratici di brogli elettorali e di corruzione nei processi di voto. L’accusa di frodi elettorali, che avrebbe preso piede in maniera più marcata negli anni successivi, emerse già durante le primarie e continuò a alimentare il dibattito fino alla fine della campagna.
Al centro di questa controversia vi erano accuse di compravendita dei voti, di manipolazione delle urne e di voto da parte di defunti, in particolare a Chicago. Le accuse di corruzione elettorale non erano una novità nella storia delle elezioni americane, ma in quel caso acquistarono una nuova rilevanza, dato l’esito particolarmente ravvicinato della competizione tra Kennedy e Nixon. Sebbene l’esito dell’elezione sia stato estremamente vicino, i repubblicani non esitarono a sollevare dubbi sull’integrità del processo elettorale. Le accuse di frodi elettorali, in particolare la presunta manipolazione dei voti a Chicago, continuarono a essere un tema ricorrente nelle discussioni politiche, spesso amplificate dalla stampa.
Questo episodio storico, che mescolava religione, politica e corruzione elettorale, evidenziò le difficoltà dell’America nel confrontarsi con le sue divisioni interne, non solo sul piano ideologico, ma anche su quello religioso. Il pregiudizio anticattolico, benché non esclusivo di quegli anni, aveva radici profonde che riaffioravano in modo particolarmente evidente nel contesto elettorale. Allo stesso tempo, l’ingerenza della religione nella politica rimase un tema scottante che continuò a segnare il dibattito pubblico per decenni a venire.
L’importanza di questi eventi non risiede solo nella lotta di Kennedy contro i pregiudizi religiosi, ma anche nel modo in cui la politica americana ha dovuto affrontare e gestire le sue diversità interne, spesso spingendo i candidati a dover dimostrare la propria indipendenza da pressioni esterne. La lezione che emerge da questa campagna elettorale è che, nonostante le divisioni religiose e politiche, alla fine sono state le questioni politiche ed economiche tradizionali a prevalere sugli aspetti religiosi, che spesso sono stati esagerati nel dibattito pubblico.
In un contesto più ampio, è fondamentale capire che la religione non può essere considerata come il solo fattore determinante nelle elezioni, sebbene le sue implicazioni siano difficili da ignorare. La società americana si trovava di fronte a un processo di modernizzazione, in cui la politica doveva necessariamente evolversi per rispondere alle sfide sociali ed economiche. Kennedy, nel suo discorso, non solo cercava di difendere la sua fede, ma anche di affermare una visione di un'America che non dovesse essere divisa da linee religiose, una visione che sarebbe diventata fondamentale nei decenni successivi.
L'impatto della comunicazione politica nell'era della televisione
Nel periodo che precedette l'elezione presidenziale del 1960, la politica americana si trovò ad affrontare un evento senza precedenti che segnò un punto di svolta fondamentale: il primo confronto diretto in televisione tra i due candidati principali, John F. Kennedy e Richard Nixon. L'uso della televisione come strumento di comunicazione politica, sebbene fosse ancora nelle sue fasi iniziali, avrebbe determinato la percezione dei candidati da parte dell'elettorato in un modo mai visto prima. Tuttavia, non si trattava solo di una questione di contenuti, ma piuttosto di come i candidati venivano percepiti attraverso la lente del piccolo schermo.
Le accuse di frode elettorale che emersero in seguito alla vittoria di Kennedy, in particolare quelle relative alla contea di Cook e alla città di Chicago, evidenziarono le tensioni interne al Partito Repubblicano. Nonostante le lamentele, tra cui quella di un presunto furto di voti, non emersero prove concrete che potessero influenzare il risultato delle elezioni. In effetti, la percezione che la vittoria di Kennedy fosse in qualche modo illegittima avrebbe alimentato il mito della frode, persistente nella narrativa repubblicana per decenni. Questa visione fu influenzata anche dai resoconti dei media, tra cui quelli del giornalista pro-Repubblicano Earl Mazo, che contribuì a consolidare l'idea che la frode avesse avuto un ruolo cruciale nel determinare l'esito del voto.
Allo stesso tempo, i Democratici si concentrarono su un'altra narrativa: quella dei pregiudizi contro un candidato cattolico come Kennedy. Se da una parte alcune voci di discriminazione religiosa potevano essere verificate, dall'altra l'impatto di queste accuse sul voto sembrava minimo. Tuttavia, l'importanza di questi racconti risiedeva nel fatto che avevano fornito una spiegazione che potesse giustificare la sconfitta di Nixon. Così, mentre i Repubblicani mantenevano il mito della frode, i Democratici circolavano la versione della discriminazione religiosa. Questi racconti, per quanto lontani dalla verità assoluta, continuarono a modellare la comprensione storica delle elezioni del 1960 per molti anni a venire.
Nonostante le accuse reciproche e le distorsioni narrative, la televisione divenne il vero protagonista della campagna elettorale. Il primo dibattito televisivo tra i due candidati, il 26 settembre 1960, è forse l'episodio più emblematico. Mentre chi ascoltava il dibattito alla radio riteneva che fosse stato un pareggio o addirittura che Nixon avesse prevalso, i telespettatori ebbero una percezione completamente diversa. Kennedy appariva calmo, sicuro, ben curato e "telegenico", mentre Nixon sembrava stanco, sudato, nervoso e poco carismatico. La sua performance televisiva, con la sua postura trasandata e l'aspetto poco rassicurante, gli costò probabilmente il sostegno di una parte cruciale dell'elettorato. In effetti, la televisione non solo presentò i candidati, ma li creò come immagini pubbliche, trasformando ogni dettaglio del loro aspetto fisico, delle loro espressioni facciali e della loro postura in un messaggio politico.
In un contesto in cui le differenze ideologiche tra i due candidati non erano così evidenti come le rispettive campagne avevano cercato di far credere, la televisione divenne lo strumento determinante per differenziare i due. La percezione visiva divenne più importante delle parole pronunciate. I dibattiti televisivi divennero il terreno su cui venivano testate non solo le idee, ma anche la capacità dei candidati di connettersi con gli elettori in modo emotivo e immediato.
Un altro aspetto che va considerato è come la televisione ha influito sul processo elettorale in termini di fiducia del pubblico. Mentre i media mainstream tendevano a minimizzare le accuse di frode elettorale, la televisione, con il suo potere di influenzare l'opinione pubblica, consolidò l'immagine di un'elezione "pulita" da parte del vincitore, rafforzando la narrativa che l'elezione fosse legittima e che i risultati fossero il frutto di un processo democratico. Tuttavia, per i Repubblicani, l'idea di frode rimase un tema ricorrente, in parte alimentato dal disprezzo nei confronti dei Democratici e dalla percezione che il sistema fosse irregolare.
Un punto cruciale che emerge da questo scenario è la crescente importanza dei media visivi e del modo in cui questi influenzano l'immagine pubblica dei candidati. Con la televisione, il leader politico non è più solo colui che parla al pubblico, ma colui che lo impressiona visivamente, che cattura l'attenzione attraverso il suo aspetto fisico, la sua postura e la sua capacità di "posare" davanti alla macchina da presa. Questo cambiamento nella comunicazione politica è stato fondamentale per comprendere come le elezioni future sarebbero state influenzate dall'aspetto televisivo dei candidati, ancor più che dalle loro posizioni politiche.
A livello pratico, l'elezione del 1960 segna un punto di svolta nel modo in cui i leader politici vengono presentati e percepiti dal pubblico. La politica si sarebbe evoluta verso una competizione in cui l'aspetto visivo e la capacità di sedurre l'elettorato tramite i media avrebbero assunto un'importanza crescente, influenzando le strategie politiche in tutto il mondo. L'introduzione della televisione nei dibattiti politici ha mostrato quanto potere possieda la percezione mediatica rispetto alla realtà dei contenuti politici, diventando un aspetto irrinunciabile della comunicazione politica moderna.
Quanto spesso mentiamo e cosa ci dice questo sul nostro rapporto con la verità?
Sembra che tutti mentano. La menzogna, nei suoi molteplici volti, è parte integrante dell’interazione umana e sociale. Negli anni Novanta, la psicologa Bella DePaulo, insieme ad alcuni colleghi dell’Università della Virginia, condusse uno studio emblematico sulla frequenza con cui le persone mentono. Chiese a settantasette studenti universitari e settanta adulti della comunità locale di tenere un diario delle bugie raccontate durante una settimana. I dati raccolti furono successivamente analizzati in forma anonima, offrendo un panorama rivelatore sulla natura delle menzogne e sulle motivazioni che le generano.
Le bugie vennero suddivise in categorie: egoistiche, volte a proteggere o favorire chi le racconta; gentili, mirate a proteggere o lusingare qualcun altro; e infine quelle né egoistiche né gentili, funzionali all’intrattenimento o alla fluidità dell’interazione sociale. Una categoria marginale, ma presente, fu quella delle bugie malevole, il cui scopo era ferire o denigrare. I risultati furono inequivocabili: lo studente più bugiardo raccontava in media 6,6 bugie al giorno, l’adulto più bugiardo 4,3. In media, gli studenti dichiaravano circa due bugie al giorno, gli adulti una.
Il dato più interessante non fu tanto il numero di bugie, quanto la distribuzione delle motivazioni: il 46% delle bugie studentesche e il 57% di quelle adulte erano egoistiche; il 26% e il 24%, rispettivamente, erano gentili. Il resto si disperdeva tra menzogne neutre e raramente malevole (0,8% tra gli studenti e 2,4% tra gli adulti). La menzogna appare, quindi, non come una deviazione morale occasionale, ma come una componente strutturale della comunicazione quotidiana, spesso usata per mantenere l’ordine sociale o proteggere relazioni fragili.
Tornando a questa metodologia di analisi, DePaulo decise in anni recenti di applicarla al linguaggio politico contemporaneo, focalizzandosi sulle dichiarazioni pubbliche del presidente Donald Trump nei primi dieci mesi e mezzo del suo mandato. Utilizzando il monitoraggio del Washington Post, l’obiettivo era comprendere non solo la frequenza delle falsità, ma anche la loro natura. In questo caso, DePaulo adottò una definizione più ampia di menzogna, includendo affermazioni false, dichiarazioni fuorvianti e cambi repentini di posizione (flip-flop), senza poter necessariamente determinare l’intenzionalità di tali affermazioni.
Il risultato fu sorprendente: in soli 298 giorni, Trump raccontò in media sei bugie al giorno. Un numero significativamente più alto rispetto alla media degli studenti e dei membri della comunità nel primo studio. Questo dato, tuttavia, solleva una questione cruciale: fino a che punto possiamo considerare menzogna ciò che è falso ma non necessariamente intenzionale? È sufficiente la falsità di un’affermazione per definirla bugia? O è l’intento manipolativo a renderla tale?
Dietro la semplice conta delle bugie si cela un problema più profondo: la percezione della verità in un contesto culturale e politico. L’informazione, oggi, è diventata una merce che si consuma, si manipola, si adatta ai desideri di chi la riceve. Come ha osservato Jim VandeHei, CEO di Axios, “Se il tuo feed di Facebook è pieno di spazzatura, significa che in partenza stavi già leggendo spazzatura. L’algoritmo ti dà solo di più di ciò che desideri”. La responsabilità dell’informazione ricade dunque non solo su chi la produce, ma anche su chi la consuma.
Viviamo in una società dell’informazione in cui la quantità di dati a disposizione è immensa, ma la capacità di discernere il vero dal falso non è cresciuta di pari passo. In tale scenario, la disinformazione non è soltanto un prodotto di élite malintenzionate o di piattaforme digitali irresponsabili. È anche il riflesso di una cultura che ha disimparato a dubitare in modo critico, che ha ceduto alla conferma dei propri pregiudizi e che ha perso interesse per la verità come valore condiviso.
Comprendere la storia delle menzogne pubbliche, delle falsificazioni politiche e delle distorsioni mediatiche è, quindi, un atto di consapevolezza civile. Studiare il passato — dalle elezioni truccate dell’Ottocento alle teorie del complotto del Novecento, dalle manipolazioni belliche della stampa alle negazioni scientifiche contemporanee — significa riconoscere i modelli ricorrenti della disinformazione. Non per difendersi con il cinismo, ma per reagire con lucidità.
In definitiva, il problema non è che tutti mentono, ma che tutti imparano troppo presto a convivere con la menzogna. La società dell’informazione richiede una nuova alfabetizzazione: non solo tecnica, ma etica, epistemologica e culturale. Occorre educare al valore della verità, alla fatica del dubbio, all’importanza del metodo. Solo così sarà possibile non solo riconoscere la disinformazione, ma anche scegliere consapevolmente di non alimentarla.
È fondamentale, quindi, capire che la lotta alla disinformazione non si vince con strumenti tecnologici o soluzioni rapide, ma attraverso un lento e faticoso lavoro culturale. Ciò implica formare fin dall’infanzia una capacità critica nei confronti dell’informazione, coltivare l’umiltà intellettuale di fronte alla complessità e promuovere una cultura del confronto basata su fatti verificabili, e non su emozioni o identità collettive fragili. La verità, pur se sfuggente, resta un orizzonte verso cui orientare la nostra azione sociale.
Come la disinformazione plasma la vita pubblica: le dinamiche storiche e moderne
Le tecniche di disinformazione hanno avuto un ruolo centrale nella vita politica e sociale degli Stati Uniti, non solo influenzando le elezioni, ma anche creando disordini, diffondendo paure infondate e alimentando teorie del complotto. Negli ultimi decenni, i politici si sono preoccupati tanto della loro immagine pubblica — dai capelli alla personalità — quanto delle loro posizioni politiche. Le immagini e le parole sono diventate strumenti di persuasione, capaci di influenzare profondamente l'opinione pubblica, come dimostrano numerosi casi di manipolazione nelle campagne elettorali e in eventi storici cruciali.
Gli esempi che emergono da vari studi di caso mostrano come la disinformazione venga usata per ottenere vantaggi politici, suscitare paura (come nel caso degli assassinii politici o durante le guerre), fomentare attitudini ostili verso determinate industrie (tabacco, cambiamenti climatici), combattere i concorrenti (come nelle pubblicità aziendali), proteggere gli interessi economici (ad esempio, per evitare regolamenti governativi su tabacco e cambiamenti climatici), e persino per dividere gruppi etnici o politici. Nonostante il numero limitato di studi di caso, sono numerosi i settori che rimangono ancora poco esplorati, come il ruolo della disinformazione nell'incitare l'ingresso degli Stati Uniti nelle guerre mondiali o la diffusione di voci e pettegolezzi utilizzati per scopi di intrattenimento.
Il fenomeno del complotto è un altro elemento che emerge costantemente nelle nostre indagini storiche. Le persone tendono a collegare fatti disparati in modo irrazionale, cercando di dare un senso a eventi misteriosi quando mancano informazioni certe. Le teorie del complotto non sono mai state una novità e si sono sviluppate rapidamente, come nel caso dell’assassinio di Abraham Lincoln, dove la questione della cospirazione ha alimentato sospetti che sono durati per più di un secolo. Anche i cosiddetti "fatti stabiliti" continuano a essere messi in discussione, come dimostrato dalle controversie sulla salute legate al tabacco, sul cambiamento climatico e sull'assassinio di John F. Kennedy.
Un aspetto cruciale che emerge è il potere degli editori e dei giornalisti di influenzare l'opinione pubblica, e talvolta gli eventi stessi, utilizzando fatti falsi o incompleti. La guerra ispano-americana del 1898 offre un esempio significativo di come una serie di informazioni fu distorta per giustificare l'entrata in guerra degli Stati Uniti. In quel caso, l'opinione pubblica americana si era già preparata alla guerra prima che fosse stata completata un'indagine ufficiale sull'affondamento della USS Maine, con il Congresso che si dimostrò più cautelato rispetto alla spinta popolare, aspettando una valutazione accurata dei fatti.
Il mondo degli affari ha mostrato quanto possa essere potente e sfaccettata la disinformazione. Le industrie, tra cui quelle del tabacco e dell'energia, hanno usato le stesse tecniche sviluppate nella politica per influenzare legislatori, consumatori e il pubblico in generale. L'industria delle pubbliche relazioni, pioniera nel suo campo, ha creato un modello che ha avuto un impatto non solo sulle aziende private, ma anche sulla politica. Oggi, i politici, esposti alle stesse dinamiche, ricorrono ai consulenti di PR e agli esperti di marketing come strumento fondamentale per ottenere consensi e manipolare le percezioni.
Uno degli strumenti più potenti utilizzati nella sfera privata è il pettegolezzo, che oggi potrebbe essere paragonato al "buzz" diffuso su Internet dai professionisti delle pubbliche relazioni. I pettegolezzi, che in passato venivano spesso sparsi da individui, oggi sono talvolta amplificati dalle stesse istituzioni, come dimostra l'esempio di Donald Trump che, parlando a nome del partito repubblicano, incita a dubitare e a diffondere sospetti su determinati temi attraverso l'uso di "voci" che possono giustificare certe posizioni politiche.
Le dinamiche della disinformazione non sono limitate a un settore o a una nazione. Nel caso dei cambiamenti climatici, ad esempio, le tecniche che si sono rivelate efficaci negli Stati Uniti sono state diffuse anche a livello globale, mostrando che la disinformazione non ha confini. Tuttavia, le reazioni a queste pratiche non sono sempre state omogenee: mentre in molti paesi la scienza sul cambiamento climatico è stata presa sul serio, gli Stati Uniti continuano a distinguersi per la loro reticenza e per le politiche ambigue in merito.
In questo contesto, è importante che il pubblico comprenda come funziona la scienza e come distinguere tra ricerche valide e quelle distorte. La "mercificazione del dubbio" è una strategia che ha avuto grande successo nel distorcere la percezione pubblica, in particolare nei confronti delle evidenze scientifiche. Gli americani, ad esempio, spesso non comprendono che la scienza è un campo in evoluzione, dove "fatti stabiliti" possono essere soggetti a modifiche a mano a mano che emergono nuove scoperte. E, quando c'è incertezza su un tema scientifico, l'atteggiamento corretto sarebbe di non intraprendere azioni basate su ipotesi infondate, piuttosto che rischiare di agire sulla base di informazioni imprecise o parziali.
La disinformazione, quindi, non è solo una questione politica, ma un fenomeno complesso che coinvolge numerosi aspetti della vita sociale, economica e scientifica. Essa mostra come la manipolazione dell'informazione possa plasmare le decisioni politiche, le convinzioni sociali e, in ultima analisi, il destino di intere nazioni. È un processo che può essere compreso solo considerando la vasta interconnessione tra economia, politica, scienza e la psicologia del pubblico.
Come il negazionismo climatico ha influenzato il dibattito globale sulla scienza del cambiamento climatico
La questione del cambiamento climatico ha attraversato numerosi stadi nel corso degli anni, dalle prime intuizioni scientifiche a una crescente evidenza empirica che suggerisce impatti devastanti. Tuttavia, uno degli ostacoli principali nel trattare questo problema globale è stato il fenomeno del negazionismo climatico, un movimento che ha spesso manipolato l'informazione per mettere in dubbio la veridicità delle prove scientifiche. Inizialmente, i primi segnali del cambiamento climatico, tra cui l'aumento delle temperature globali e le evidenti modifiche nei pattern meteorologici, non erano considerati dai più come una minaccia immediata. Solo a partire dagli anni '70 e '80 il problema ha iniziato a ricevere un'attenzione crescente.
Il concetto di "truthiness" è emerso in un contesto in cui affermazioni non basate su fatti concreti, ma su una percezione immediata di veridicità, venivano accettate come verità. Il termine, coniato dal comico americano Stephen Colbert nel 2005, descrive esattamente quel fenomeno di diffusione di informazioni non verificate che spesso si sono fatte strada nel dibattito pubblico. I negazionisti climatici hanno sfruttato questa dinamica per promuovere una narrazione che non fosse supportata da prove scientifiche, ma che risuonava emotivamente con un pubblico già incline a dubitare delle autorità e delle istituzioni.
Le compagnie petrolifere, come ExxonMobil, sono state accusate di aver finanziato ricerche e campagne che negavano l'evidenza scientifica del cambiamento climatico, nonostante avessero già compreso i rischi legati alle emissioni di gas serra già negli anni '80. Questo tipo di disinformazione ha contribuito a creare una divisione politica e sociale, in cui la scienza veniva frequentemente messa in discussione per servire gli interessi economici di grandi corporazioni.
Il dibattito sul cambiamento climatico ha acquisito una dimensione politica, particolarmente evidente negli Stati Uniti. La polarizzazione tra le diverse fazioni politiche ha creato un divario crescente tra coloro che accettano i dati scientifici e coloro che li respingono. Studi recenti hanno dimostrato che la percezione del cambiamento climatico negli Stati Uniti dipende fortemente dalle inclinazioni politiche degli individui, con i conservatori più inclini a negare o minimizzare il problema rispetto ai liberali.
Nonostante ciò, la comunità scientifica ha continuato a fornire prove sempre più concrete che evidenziano la necessità urgente di rispondere al cambiamento climatico. Gli accordi internazionali, come il Protocollo di Kyoto e l'Accordo di Parigi, sono stati sviluppati per cercare di affrontare il riscaldamento globale, ma le difficoltà politiche e le resistenze da parte dei paesi industrializzati e delle grandi multinazionali hanno impedito progressi significativi. I negazionisti hanno continuato a sfruttare la confusione e il disorientamento pubblico, alimentando dubbi attraverso pubblicazioni, media e politiche che hanno perpetuato il ciclo di inazione.
È importante comprendere che il cambiamento climatico non è solo una questione scientifica, ma anche una questione sociale e politica. Le scelte che vengono fatte oggi avranno un impatto duraturo sul nostro futuro e su quello delle prossime generazioni. La capacità di prendere decisioni informate e razionali su questa problematica richiede un approccio che consideri non solo le prove scientifiche, ma anche le implicazioni economiche, sociali e politiche. Solo attraverso un impegno collettivo e la volontà di agire possiamo sperare di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico.
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