La preferenza delle aziende per l’uso di contrattisti nel settore STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) è un fenomeno che riflette una tendenza più ampia nelle modalità di lavoro alternative, in crescita su scala nazionale e da tempo radicata nella Silicon Valley. Contrariamente all’idea diffusa che i lavoratori STEM siano risorse preziose e scarse, essi sono spesso trattati come elementi facilmente sostituibili e precari. Sebbene la ricerca quantitativa specifica sul numero esatto di lavoratori STEM con titolo universitario in status di contrattisti sia limitata, prove aneddotiche indicano che questa pratica è molto diffusa nel settore tecnologico. Ad esempio, un documento interno di Google ha rivelato che su 121.000 lavoratori globali contrattualizzati, più numerosi dei dipendenti a tempo pieno (102.000), i contrattisti non sono impiegati solo in ruoli marginali, ma costituiscono una parte rilevante della forza lavoro.

Diversi fattori spingono o attraggono le aziende verso questa scelta. Studi accademici hanno evidenziato che la necessità di competenze a breve termine, spesso legata ai cicli di prodotto rapidi tipici del settore tecnologico, incentiva l’impiego di lavoratori a contratto per durate limitate. Questi contrattisti vengono reclutati per far fronte a picchi di lavoro improvvisi, per coprire assenze temporanee o per svolgere compiti specialistici come il controllo qualità o la redazione tecnica, indispensabili solo per periodi determinati. Tuttavia, questa spiegazione non basta a giustificare l’ampia e prolungata presenza di contrattisti STEM che spesso lavorano per gli stessi datori per anni consecutivi.

L’impiego diffuso di contrattisti appare infatti profondamente radicato nel modello di business delle aziende tecnologiche. L’assunzione di dipendenti a tempo pieno implica costi elevati, sia per la fase iniziale di inserimento e formazione sia per le procedure di eventuale licenziamento. Inoltre, l’aumento del numero di dipendenti riduce la flessibilità aziendale e può rendere l’impresa meno attraente agli occhi degli investitori. Il calcolo della produttività, basato sul rapporto tra fatturato e numero di dipendenti, tende a escludere i contrattisti, facendo apparire le aziende più efficienti e dinamiche di quanto siano realmente. Questa strategia di “nascondere” parte del lavoro permette alle startup e alle grandi imprese tecnologiche di valorizzarsi maggiormente sul mercato finanziario, spesso a discapito dei lavoratori STEM, che ne escono indeboliti.

In mercati caratterizzati da un numero ristretto di “superstar” STEM, che ricevono compensi elevati, si intensifica ulteriormente la pressione verso l’impiego di contrattisti meno costosi per il resto della forza lavoro. Tale dinamica rientra nel modello definito da alcuni studiosi come “winner-take-all”, dove pochi fortunati dominano economicamente e gli altri lavoratori subiscono un aumento della precarietà.

Un’altra ragione per cui le aziende preferiscono contrattisti è legata alla difficoltà di valutare le competenze specifiche dei lavoratori STEM. Assumere contrattisti permette infatti di avviare una sorta di “periodo di prova” senza impegni a lungo termine: se il lavoratore dimostra il proprio valore, potrà essere assunto come dipendente a tempo pieno, altrimenti il rapporto di lavoro può essere interrotto senza oneri aggiuntivi.

Infine, esistono casi in cui le aziende necessitano di competenze legate a tecnologie “legacy”, ormai in via di estinzione ma ancora cruciali in alcuni ambiti. I contrattisti con esperienza in queste tecnologie trovano opportunità redditizie, spesso preferendo la flessibilità del lavoro a contratto alla stabilità tradizionale.

Nonostante i rischi e la precarietà che questo modello comporta, molti lavoratori STEM scelgono il contratto proprio per i vantaggi che offre. Il compenso può essere superiore a quello di un impiego a tempo pieno, come nel caso di sviluppatori software in Silicon Valley che possono guadagnare il doppio, ampliare la propria rete professionale e acquisire nuove competenze. La possibilità di lavorare su progetti di proprio interesse e la minore esposizione alla politica interna dell’azienda rappresentano altri aspetti apprezzati. La natura temporanea del rapporto lavorativo riduce l’ansia legata a eventuali licenziamenti o a cambiamenti di strategia aziendale. Inoltre, lavorare come contrattista può essere un modo per sfuggire a un rapporto gerarchico spesso dominato da manager incompetenti, capaci di licenziare senza motivazioni chiare.

In definitiva, la crescita dell’uso dei contrattisti nel settore STEM riflette un equilibrio instabile tra le esigenze di flessibilità e controllo delle aziende e le aspirazioni di autonomia e remunerazione dei lavoratori. La precarietà non è un destino ineluttabile, ma nasce da scelte strutturali e modelli di business che privilegiano la flessibilità finanziaria rispetto alla stabilità occupazionale.

È importante comprendere che questa precarietà ha implicazioni profonde per il futuro del lavoro STEM: la continua instabilità può minare la qualità della ricerca e dell’innovazione, limitare lo sviluppo di carriere professionali solide e rafforzare disuguaglianze interne al settore. Inoltre, la pratica di affidarsi massicciamente a contrattisti può distorcere la valutazione reale della produttività aziendale, con effetti a cascata su investimenti e politiche di sviluppo tecnologico.

L’attenzione critica a questi fenomeni è fondamentale per immaginare modelli di lavoro più sostenibili e inclusivi, che valorizzino pienamente il capitale umano alla base del progresso tecnologico.

Perché alcune aziende investono nella formazione STEM dei propri dipendenti, nonostante i rischi?

Nel panorama della trasformazione digitale, alcune aziende hanno intrapreso la cosiddetta "strada alta" (high road) nella formazione, decidendo di investire direttamente nello sviluppo delle competenze STEM dei propri dipendenti, anche quando questi non possedevano una formazione tecnica di base. Questo approccio si discosta dalla norma, dove la maggior parte delle imprese preferisce assumere dall’esterno piuttosto che formare dall’interno.

Un caso emblematico è quello di General Assembly, nata come bootcamp intensivo per l’apprendimento di competenze digitali, anche per persone prive di una laurea STEM. In seguito, l’azienda ha adottato un modello di business centrato sulla collaborazione con imprese che volevano formare i propri dipendenti, tra cui realtà al di fuori del settore tecnologico tradizionale come Walmart, Citibank, Aetna, Booz Allen Hamilton e Disney. Queste imprese non erano considerate mete ambite per i laureati STEM, spesso a causa della loro identità aziendale o dei limiti percepiti nell’innovazione. Tuttavia, proprio queste difficoltà nel reclutamento esterno le hanno spinte ad agire con maggiore lungimiranza, trasformando la necessità in strategia. Il successo di General Assembly è stato tale da attirare l’acquisizione da parte del colosso svizzero delle risorse umane Adecco per 413 milioni di dollari nel 2018.

Una strategia simile è stata adottata da AT&T, storico gigante delle telecomunicazioni, che ha dovuto reinventarsi come azienda informatica per competere con attori come Google e Amazon. Il presidente e CEO Randall Stephenson ha promosso un programma di riqualificazione per 280.000 dipendenti, pur con limiti significativi: le lezioni non erano retribuite né previste durante l’orario di lavoro. Tuttavia, l’azienda ha collaborato con partner come Udacity e il Georgia Institute of Technology per offrire percorsi certificati e, in alcuni casi, persino lauree online. Questa trasformazione è stata sostenuta anche dal sindacato dei lavoratori, che ha riconosciuto l’inevitabilità del cambiamento tecnologico.

Royal Dutch Shell ha adottato una filosofia simile. Anch’essa costretta a reinventarsi sotto la pressione della transizione energetica e della digitalizzazione, Shell ha puntato sull’intelligenza artificiale e sull’analisi dei dati per rimanere competitiva. Non riuscendo ad attrarre giovani talenti dal mondo tech, spesso riluttanti a lavorare per un’azienda percepita come obsoleta o inquinante, ha scelto di riqualificare i propri dipendenti esistenti. Più di duemila lavoratori, anche over cinquanta, hanno partecipato a programmi in Python, reti neurali e scienze dei dati. A differenza di AT&T, la formazione era retribuita e integrata nell’orario di lavoro. I corsi, completabili in pochi mesi, culminavano in una certificazione “nanodegree” riconosciuta.

Amazon rappresenta un ulteriore caso limite. Nel 2019, in un contesto di mercato del lavoro altamente competitivo, l’azienda ha annunciato un investimento di 700 milioni di dollari per formare internamente 100.000 lavoratori. Non si trattava solo di riqualificare personale non tecnico: l’iniziativa includeva anche percorsi avanzati, come la Machine Learning University, dedicata agli sviluppatori già operativi in ambito STEM, per mantenere la loro competitività. Amazon ha perfino assunto un'esperta accademica in scienze cognitive, Candace Thille, per guidare la strategia educativa interna. Nonostante il suo ambiente lavorativo fosse già noto per ritmi duri, Amazon ha rotto la tendenza di un declino generalizzato della formazione aziendale negli Stati Uniti.

Perché, allora, questi casi restano eccezioni e non la norma? L’economista Gary Becker offre una risposta: formare dipendenti può essere un cattivo investimento per le imprese, se esiste il rischio che questi lascino l’azienda per portare altrove le competenze acquisite. In quest’ottica, il mercato del lavoro è visto come una perdita di valore per chi forma ma non può trattenere.

Eppure, gli esempi citati indicano un altro tipo di razionalità, più orientata alla sostenibilità organizzativa e alla resilienza interna. La formazione non viene offerta per generosità, ma perché rappresenta una risposta strutturale alle difficoltà di reclutamento, ai mutamenti tecnologici e all’accelerazione della domanda di competenze. In questo contesto, il vincolo si trasforma in opportunità: costruire capacità dall’interno diventa non solo necessario, ma strategico.

In assenza di un sistema universitario in grado di produrre talenti tecnici su larga scala e in tempi rapidi, le aziende si trovano costrette a diventare esse stesse agenti formativi. Questo rovesciamento del paradigma classico – dove prima si assumeva formato e ora si forma assunto – segna una svolta nel rapporto tra imprese, lavoratori e conoscenza tecnica. La vera sfida non è solo tecnica, ma culturale: il passaggio da un modello lineare a uno ciclico di apprendimento continuo, in cui la formazione diventa parte integrante del ciclo di vita lavorativo.