La terra che ora appare come una vasta distesa desertica, disseminata di tumuli e macerie, un tempo ospitava alcune delle più importanti città della Babilonia, civiltà di cui i nomi sono familiari non solo agli archeologi, ma anche ai lettori della Bibbia e della storia antica. Questi tumuli, detti “tell” dagli Arabi, sono in realtà cumuli artificiali, stratificazioni di abitazioni e monumenti costruiti e ricostruiti nel corso di millenni, sepolti da terre e sabbie portate dal vento e dall’acqua, ma soprattutto costituiti da mattoni di fango, l’unico materiale da costruzione disponibile in una regione priva di pietra naturale.

Lo scavo archeologico moderno ha trasformato un’attività un tempo dominata dalla semplice ricerca di oggetti d’antiquariato in una rigorosa disciplina scientifica. Oggi, ogni strato viene rimosso e studiato con precisione, documentato tramite disegni e fotografie per preservare il contesto e la cronologia degli insediamenti. Solo così è possibile ricostruire la storia di queste città: non un singolo momento, ma l’intera evoluzione della vita urbana e religiosa, degli edifici e delle istituzioni che si sono succeduti nel tempo.

Uno dei siti più emblematici è quello di Ur, la cui ziggurat emerge ancora come una montagna artificiale, costruita con mattoni di fango e bitume, un tempo cuore religioso e amministrativo della città. Il complesso sacro ospitava il tempio dedicato a Nannar (o Sin), il dio della luna, patrono di Ur, e comprendeva non solo la ziggurat ma un intero sistema di edifici ad essa collegati, fra cui la casa del dio e le strutture per la gestione della città. Il re stesso, considerato rappresentante divino, risiedeva nelle vicinanze e governava la città da questo centro sacro.

Le scoperte degli scavi mostrano che sotto le costruzioni visibili si nascondono numerosi strati più antichi, testimoni di fasi storiche diverse, alcune risalenti addirittura a quattro o cinque millenni prima di Cristo. La stratificazione delle mura, dei palazzi, dei magazzini e dei templi consente di seguire la crescita e le trasformazioni di Ur, passando da un insediamento primitivo a una delle maggiori metropoli dell’antichità.

La città era un centro amministrativo e religioso, dove i cittadini si recavano per offrire sacrifici e tributi, pagati in natura poiché la moneta non esisteva ancora. I magazzini erano immensi, e la documentazione rinvenuta su tavolette di argilla in scrittura cuneiforme testimonia una complessa burocrazia, con registrazioni di contratti, stipendi e ricevute di beni. La cura nella conservazione degli archivi mostra una società altamente organizzata, in cui ogni dettaglio della vita pubblica e privata era monitorato e gestito.

L’uso dei mattoni di fango, combinato con il bitume come legante, non solo ha reso possibile la costruzione di monumenti imponenti come la ziggurat, ma ha anche favorito la creazione di tumuli che, stratificandosi nel tempo, hanno sepolto le città sotto metri di terra. Questi cumuli sono una sorta di archivio naturale, contenente le tracce di una civiltà antica che si svela solo con pazienza e meticolosità.

La consapevolezza di quanto profonda e complessa fosse questa stratificazione cambia la percezione stessa del lavoro archeologico: non si tratta di un semplice recupero di oggetti, ma di un’indagine sistematica volta a ricostruire un’intera civiltà nei suoi molteplici aspetti, sociali, religiosi, politici ed economici. La relazione tra il tempio, il potere reale e la città si rivela così come un sistema integrato, fondato su un legame sacro e amministrativo che durò per millenni.

Al di là delle informazioni sulle tecniche di scavo e sulle scoperte, è importante comprendere come la storia di Babilonia non sia solo quella delle grandi pietre o dei testi scritti, ma anche quella del fango e della terra, materia prima umile ma resistente, capace di preservare testimonianze di un passato lontano. La continuità delle costruzioni, la sovrapposizione degli strati, e la sacralità attribuita ai luoghi riflettono un modo di concepire il tempo e lo spazio che si differenzia radicalmente dalla nostra visione moderna.

Conoscere questa dinamica aiuta a comprendere la natura stessa del patrimonio archeologico mesopotamico: una storia stratificata e complessa, che si rivela solo attraverso un’attenta lettura delle tracce lasciate da chi ha vissuto, lavorato e adorato in queste antiche città.

Come il clima, il terreno e la mano d’opera influenzano la collocazione delle piantagioni tropicali

Le piantagioni tropicali, che si trovino a Cuba, in Giava o nelle Filippine, condividono caratteristiche fondamentali determinate da condizioni naturali, logistiche e sociali. Il clima gioca un ruolo cruciale nella scelta del luogo: le coste tropicali sono generalmente più salubri rispetto alle regioni interne, grazie alla brezza marina che mitiga il caldo intenso e allontana gli insetti molesti. Questa presenza del vento d’oceano, più costante rispetto ai venti di terra, rende la fascia costiera un ambiente più favorevole per la vita umana e per la coltivazione.

Nonostante ciò, la ragione principale per cui molte piantagioni si trovano lungo le coste o sulle isole è l’accessibilità. I prodotti tropicali, destinati principalmente ai mercati europei e occidentali, venivano trasportati via nave, e dunque la vicinanza al mare facilitava enormemente l’esportazione. Inoltre, le pianure costiere offrono terreni più pianeggianti e adatti a colture come la canna da zucchero, che richiede superfici ampie e facilmente percorribili per il trasporto delle materie prime. Il cocco, inoltre, sembra prosperare meglio in prossimità del mare, dove l’aria è permeata da un leggero tocco di sale.

Tuttavia, non tutte le coltivazioni si trovano a bassa quota. Le piantagioni di tè, caffè, cacao, spezie e gomma spesso si estendono su alture anche di migliaia di piedi. Le temperature più basse e la migliore ventilazione delle zone collinari o montane creano condizioni più salubri per gli uomini e più favorevoli per molte colture, garantendo un drenaggio efficace durante le piogge tropicali. Questo non solo preserva la salute dei lavoratori, ma protegge anche le piante dall’umidità eccessiva che potrebbe compromettere la produttività.

Il tipo di mano d’opera locale influisce profondamente sulla scelta delle località. Gli europei, incapaci o riluttanti a lavorare fisicamente nelle piantagioni tropicali, si affidano a lavoratori nativi o importati, come cinesi o altre comunità. La qualità e l’efficienza del lavoro variano enormemente: tribù di cacciatori nomadi risultano inutili come forza lavoro stabile, mentre i coltivatori di riso, abituati a tecniche agricole consolidate, rappresentano la categoria più affidabile e produttiva. Per questo motivo, molte piantagioni sorgono vicino alle zone di coltivazione del riso, soprattutto in Estremo Oriente.

Un ulteriore aspetto da considerare è la natura stessa delle colture: prodotti pesanti e voluminosi come la canna da zucchero necessitano di terreni pianeggianti per agevolare la raccolta e il trasporto. Al contrario, colture come tè, cacao e spezie, meno ingombranti e più preziose, possono prosperare anche su terreni più accidentati. La pericolosità del lavoro e la necessità di mantenere la salute dei supervisori europei spinge inoltre a preferire altitudini moderate, dove le condizioni climatiche sono più miti e le malattie tropicali meno frequenti.

Anche le dinamiche sociali e culturali influiscono sulla produttività. Talvolta i lavoratori indigeni mostrano atteggiamenti distaccati o una diversa percezione del lavoro salariato, come accadeva con alcuni gruppi che preferivano fermarsi per pescare piuttosto che completare una giornata di lavoro, a causa delle loro esigenze immediate di sostentamento. Questo comportamento sottolinea l’importanza di un rapporto complesso tra padroni europei e lavoratori locali, che non sempre si basa su semplici schemi di produttività o disciplina occidentale.

Importante è inoltre riconoscere che i prodotti tropicali, sebbene non siano alimenti principali, hanno una funzione stimolante e simbolica nel consumo occidentale. La loro coltivazione e il loro commercio sono quindi legati a dinamiche economiche e culturali che trascendono la mera agricoltura, influenzando interi sistemi sociali e geografici.

La collocazione delle piantagioni tropicali è quindi il risultato di un delicato equilibrio tra condizioni climatiche, caratteristiche del terreno, esigenze logistiche e qualità della manodopera. Comprendere queste interazioni permette di apprezzare la complessità e le difficoltà che hanno segnato la storia economica e sociale delle regioni tropicali, segnate da influenze coloniali e da un intreccio di culture e ambienti naturali.

Chi è davvero al potere? La crisi della legittimità nel regime di Chiang Kai-shek

La pretesa di Chiang Kai-shek di rappresentare il "vero" governo del Kuomintang è stata, fin dall'inizio, una finzione priva di fondamento. Dei trentatré membri del Comitato Esecutivo Centrale del partito, ventuno rimasero fedeli al governo centrale di Wuhan. Solo sei sostennero Chiang, attivamente o passivamente. Gli altri erano dispersi o morti, come il grande intellettuale comunista Li Ta-chao, strangolato a Pechino. Chiang costruì il suo nuovo regime a Nanchino appoggiandosi a reazionari precedentemente espulsi dal partito, raccogliendo intorno a sé figure marginali o già screditate, con l’unica eccezione significativa del venerabile Tsai Yuan-pei, filosofo anarchico e stimato studioso troppo anziano per un ruolo attivo.

L'autorità effettiva di Chiang poggiava dunque su una coalizione eterogenea di opportunisti politici, burocrati professionisti e generali neo-militaristi. Tra i più noti figuravano Hu Han-min, C. C. Wu, Huang Fu, Wong Chung-wei, C. T. Wang e Kuo Tai-chi. Tuttavia, nessuno di loro offriva solide garanzie: alcuni erano reazionari, altri implicati in scandali finanziari o in omicidi politici, come nel caso di C. T. Wang, presunto coinvolto nell'assassinio di Liao Chung-kai. La loro carriera rifletteva un'opportunistica danza tra ideologie, governi e alleanze, segno della profondissima instabilità morale e istituzionale che permeava la politica cinese dell'epoca.

Il caso di C. C. Wu merita attenzione: storico leader del vecchio Kuomintang, nominato ministro degli esteri, trovò le sue mani legate di fronte all’autoritarismo inamovibile del dittatore. Anche i tentativi di mediazione con potenze straniere, come quello promosso dal ministro britannico Sir Miles Lampson, fallirono miseramente di fronte al rifiuto categorico di Chiang di cedere su qualsiasi questione. Wu, pur favorevole alla cooperazione con l’estero, era privo di qualsiasi leva reale. Un ministro degli esteri che dipende da un militare irresponsabile è, di fatto, irrilevante.

Huang Fu era notoriamente pro-giapponese, con un talento nell’intrigo pari solo alla sua mancanza di integrità. Wong Chung-wei, esplicitamente reazionario. Hu Han-min, tanto brillante quanto compromesso, era già stato espulso dal partito come pericoloso anarchico. Tang Seng-chi aveva distrutto il governo civile di Hankow con una defezione calcolata, segnando la fine dell'esperimento rivoluzionario. Anche il famoso Feng Yu-hsiang, pur ammirato in America, era semplicemente un altro esempio del militarismo camuffato da riformismo.

Il vero potere, quindi, non risiedeva in un’ideologia coerente o in un programma di governo, ma in una rete di compromessi, ambizioni personali e manipolazioni. Chiang, pur animato da alcuni impulsi sinceri — come la sua dichiarazione di guerra contro l’imperialismo occidentale — era intellettualmente limitato, scarsamente istruito e circondato da uomini più scaltri, più colti e senza scrupoli. In ambiti cruciali come la finanza, la giustizia, la politica contadina o del lavoro, erano questi personaggi ad influenzare il corso delle decisioni.

Il comitato finanziario, un tempo organo di controllo, era ormai ridotto a una servile esecuzione degli ordini del dittatore. Quando Chiang chiese un finanziamento mensile triplo rispetto a quanto riceveva nei mesi di fedeltà al partito, non ricevette alcun rifiuto, ma un obbediente impegno a trovare quei fondi con mezzi apertamente illegali. La regione coinvolta, comprendente Jiangsu, Zhejiang e Fujian, era la più ricca della Cina e contribuiva al 40% delle entrate nazionali. Eppure il governo centrale no

Come può un uomo passare da San Paolo a Lenin e poi di nuovo a San Paolo in un solo anno?

La figura del Maresciallo Feng Yu-hsiang rappresenta uno dei più enigmatici e affascinanti fenomeni dell’Asia moderna. Non tanto per i suoi atti politici – spesso incoerenti, a tratti contraddittori – ma per l’instabilità intellettuale che li sottende, una sorta di sincretismo ideologico che non nasce da cinismo o calcolo, bensì da una profonda ma disordinata sincerità. In lui convivono formule acquisite dal cristianesimo missionario, massime confuciane e slogan importati da Mosca, senza che nessuna di queste ideologie venga realmente interiorizzata, né del tutto rifiutata. Piuttosto, sembrano stratificarsi sulla superficie di una mente accesa, permeabile e pronta ad assorbire qualunque principio etico o spirituale con un certo entusiasmo.

Feng scrive su un ventaglio: “Tutti gli uomini sono uguali” e “Il mondo è una sola fratellanza”. Poi firma con orgoglio: “Feng Yu-hsiang”. L’unica parte che probabilmente intende davvero è la firma. Le frasi che la precedono sono più decorazioni retoriche che espressioni di convinzione. Tuttavia, proprio questa decorazione, questo uso apparentemente vuoto di grandi idee, lo trasforma da semplice avventuriero in un neo-militarista con sfumature ideologiche, un prodotto singolare dell’incontro tra ignoranza rurale e modernità politica. Non è un traditore in senso classico, ma un “esperimentatore nato”, come lo definì Borodin. Egli tradisce per convinzione, poi si convince di nuovo, e di nuovo tradisce. Vittima di sincerità successive, cambia rotta come una banderuola, seguendo il vento di nuove suggestioni.

La sua mente, intrisa di superstizione e priva di una formazione strutturata, è un campo caotico di esperienze intellettuali disgiunte. Eppure, proprio per questo, è affascinante. In una tale oscurità mentale, il fatto che riesca a credere prima in San Paolo, poi in Lenin, e poi ancora in San Paolo – con identica convinzione – è quasi un miracolo antropologico. Il suo cristianesimo, ad esempio, non è una fede coerente, ma una fusione approssimativa tra l’etica protestante e un teismo vago. Firmava i moduli della scuola biblica a Pechino, fu battezzato da un missionario metodista, e continuava a definirsi membro della setta anche quando le sue azioni sembravano negarlo in toto.

Ma ciò che rende Feng un fenomeno tanto degno di studio è il suo futuro imprevedibile. L’idea che possa un giorno diventare un devoto buddista, issare la bandiera della restaurazione dei templi e proclamarsi sommo sacerdote di una nuova teocrazia, non è in alcun modo assurda. La sua traiettoria non è lineare, ma spiraliforme; il suo pensiero non evolve, si rigenera continuamente. Non esiste un fine ultimo visibile nelle sue metamorfosi, ma piuttosto una tensione costante verso l’adesione – per quanto passeggera – a qualcosa che gli conferisca un senso.

Nato nel 1881 da un soldato contadino dell’Anhui, Feng conosce la fame e l’analfabetismo. Impara a leggere da adulto, e si avvicina al cristianesimo più per contagio sociale che per meditazione teologica. Il suo generale più fidato, Chang Sh