Nonostante la narrativa dominante sulla scarsità di competenze STEM e la costante domanda per tali professionisti, i dati empirici suggeriscono che i lavoratori in ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico non sono affatto immuni alle dinamiche di instabilità occupazionale. Anzi, in alcuni casi sembrano essere più esposti ai licenziamenti rispetto ad altri settori. Secondo il National Survey of College Graduates, il 21% dei lavoratori STEM ha dichiarato di aver cambiato lavoro a seguito di un licenziamento, rispetto al 16% dei lavoratori non-STEM.

Una vulnerabilità particolarmente marcata si riscontra nel settore dell’informatica. Tra il 2005 e il 2015, ogni anno circa 100.000 lavoratori IT sono stati licenziati, rappresentando il 13% di tutti i licenziamenti negli Stati Uniti, una percentuale sproporzionata rispetto alla loro quota nell’occupazione totale. Allo stesso modo, l’industria farmaceutica ha dimostrato una propensione cronica al ridimensionamento della forza lavoro scientifica: tra il 2009 e il 2019, aziende leader come Pfizer, Novartis e Merck hanno effettuato licenziamenti significativi di scienziati, spesso in seguito a fallimenti nella fase di sperimentazione clinica o dinieghi dell’autorizzazione da parte della Food and Drug Administration.

Molti settori STEM sono soggetti a cicli economici di espansione e contrazione. Quando la domanda aumenta, i salari crescono rapidamente e le assunzioni si intensificano, ma nel momento in cui il ciclo si inverte, migliaia di lavoratori altamente specializzati si ritrovano improvvisamente disoccupati. È il caso emblematico del settore energetico: ingegneri petroliferi e nucleari vengono assunti in massa quando i prezzi delle materie prime sono alti, ma subiscono ondate di licenziamenti quando il mercato si contrae. Il nucleare, ad esempio, è soggetto a una domanda ciclica e instabile, ulteriormente minata da incidenti di grande risonanza come quelli di Three Mile Island, Chernobyl e Fukushima.

Anche il settore delle energie rinnovabili, come il solare e l’eolico, segue logiche simili, in quanto la domanda è fortemente legata a incentivi governativi che possono rapidamente essere rimossi. Un’ulteriore fonte di precarietà si riscontra nell’aerospaziale, settore in cui la domanda di personale tecnico dipende direttamente dalle dinamiche della difesa nazionale e delle tensioni geopolitiche. In California, molti lavoratori STEM impiegati presso colossi della difesa come Northrop Grumman, Lockheed Martin o Raytheon furono licenziati in massa dopo la fine della Guerra Fredda, generando effetti a cascata sull’economia e le finanze pubbliche dello Stato.

Un fenomeno parallelo contribuisce a esacerbare questi squilibri: i segnali distorti inviati dai datori di lavoro alle nuove generazioni. Le aziende spesso enfatizzano una presunta carenza di lavoratori STEM, attirando così migliaia di studenti verso percorsi universitari in questi ambiti. Tuttavia, quando questi laureati entrano nel mercato, la domanda potrebbe già essersi contratta. Come osservato da Carrie McClelland del Colorado School of Mines, dopo un crollo del prezzo del petrolio, la domanda di ingegneri petroliferi si era stabilizzata, ma il numero di laureati continuava a crescere, creando un’eccedenza dolorosa di profili non assorbibili dal mercato.

La precarietà non colpisce solo chi viene licenziato, ma anche chi rimane all’interno dell’organizzazione. Sondaggi anonimi condotti tra professionisti del settore tecnologico mostrano che molti vivono nel timore costante di perdere il lavoro. Nel 2021, quasi un terzo degli intervistati ha dichiarato di essere preoccupato per possibili licenziamenti, con punte del 70–80% in aziende come PayPal, Dropbox e IBM. Tale ansia genera comportamenti controproduttivi: molti lavoratori evitano di chiedere aiuto per paura di sembrare non indispensabili, altri ancora tendono a isolarsi o a trattenere conoscenze tecniche specifiche per rafforzare la propria insostituibilità.

Questa dinamica del “lavoratore esperto solitario” è stata osservata in uno studio condotto da Erin Kelly e Phyllis Moen presso un’azienda tech del Midwest. I lavoratori tendevano a trattenere competenze critiche, evitando di formare colleghi, nel tentativo di rendersi indispensabili e quindi più protetti. Un esempio emblematico è quello di Hayward, uno sviluppatore che si caricava sulle spalle turni estenuanti pur di mantenere il controllo esclusivo su un software da lui creato, nel timore che condividere tali competenze avrebbe compromesso la sua posizione.

Tale cultura della sostituibilità, normalizzata e interiorizzata sia dai datori di lavoro che dagli stessi dipendenti, è accompagnata da sistemi di valutazione delle performance spesso stressanti e poco trasparenti. Secondo un’indagine dell’American Enterprise Institute, il 52% dei laureati in discipline STEM si sente “sostituibile”, una percezione allarmante in un contesto in cui ci si aspetterebbe il contrario, visto il presunto bisogno cronico di competenze tecniche avanzate.

A ciò si aggiunge un aspetto strutturale: la natura altamente specializzata delle competenze richieste in molti ruoli STEM. Questo livello di specializzazione, se da un lato è essenziale per l’innovazione, dall’altro può limitare le possibilità di riconversione professionale in caso di crisi settoriale. Un ingegnere esperto in turbine eoliche non è immediatamente impiegabile nel settore biomedicale. Questa rigidità del capitale umano acuisce l’impatto dei cicli di boom e recessione, rendendo il reinserimento lavorativo più difficile rispetto ad altri settori.

Perché i lavoratori più anziani sono esclusi nei settori STEM nonostante la carenza di personale?

L’esclusione dei lavoratori più anziani nei settori STEM, nonostante la persistente carenza di personale qualificato, rappresenta una delle contraddizioni più evidenti e problematiche nel mondo del lavoro tecnologico e scientifico contemporaneo. Sebbene molte aziende tecnologiche e di ricerca affermino di soffrire una penuria di talenti, la realtà dimostra che i lavoratori più maturi sono spesso emarginati o esclusi, sia formalmente che informalmente. Questo fenomeno non riguarda solo la perdita di competenze preziose, ma anche un sistema culturale che premia la giovinezza a scapito dell’esperienza.

L’età media dei dipendenti in molte aziende tecnologiche è sorprendentemente bassa: da 29 anni in Facebook, LinkedIn e SpaceX, fino a 38 anni in Hewlett Packard. Tuttavia, nonostante i numeri dimostrino questa predominanza di giovani, le statistiche sulla diversità aziendale raramente includono l’età come categoria rilevante, contraddicendo così le molte segnalazioni di lavoratori più anziani che lamentano barriere e ambienti lavorativi ostili. Questa esclusione anagrafica è particolarmente accentuata nei campi legati all’informatica e al software, dove spesso emerge un pregiudizio verso la cosiddetta “giovinezza tecnica”.

La cultura dominante nel settore STEM sembra valorizzare l’essere giovani non solo come un requisito tecnico ma come uno stile di vita. È emblematica la dichiarazione di Mark Zuckerberg, che ha affermato che i giovani sono “più intelligenti” e che una vita più semplice – senza famiglia o responsabilità – consente di concentrarsi meglio sul lavoro. Simili affermazioni, espresse senza imbarazzo da figure di rilievo come Zuckerberg o Vinod Khosla, riflettono un paradigma in cui l’innovazione e il cambiamento sono prerogative dei più giovani, mentre gli over 45 vengono visti come incapaci di portare nuove idee.

Questa mentalità, espressa apertamente dai vertici aziendali, influenza profondamente la cultura aziendale e il comportamento di manager e colleghi. Lo spettro di un futuro incerto alimenta ansie diffuse tra i lavoratori maturi, che temono di essere sostituiti da colleghi più giovani e disposti a lavorare più ore. La pressione è tale che alcuni sono arrivati a ricorrere a interventi estetici per apparire più giovani, mentre proposte concrete per rendere gli ambienti di lavoro più inclusivi, come evitare eventi sociali fisicamente impegnativi o con eccessi alcolici, emergono come tentativi di contrastare una cultura definita “brotopia”, dominata da giovani maschi bianchi.

I dati quantitativi supportano queste esperienze soggettive: in sondaggi condotti negli Stati Uniti, una percentuale significativa di lavoratori STEM ha espresso preoccupazioni riguardo all’età come barriera occupazionale, con i lavoratori più anziani che indicano l’età come la sfida più grande alla diversità. Questo sentimento è stato confermato anche da numerose denunce legali contro giganti della tecnologia come Google, Apple, Intel e Hewlett Packard, dove i licenziamenti spesso colpiscono in modo sproporzionato i dipendenti più anziani.

La strategia di alcune aziende sembra addirittura prevedere una “circolazione” forzata del personale, dove la preferenza per i giovani si traduce in piani pensionistici e politiche di licenziamento strutturate per favorire l’uscita anticipata dei lavoratori più anziani e l’ingresso di nuove leve. Questo modello di turnover, se da un lato può sembrare una risposta alla necessità di innovazione continua, dall’altro si rivela una forma di discriminazione sistematica che perde di vista il valore dell’esperienza e della formazione accumulata nel tempo.

È essenziale riconoscere che la discriminazione basata sull’età non riguarda solo i lavoratori maschi bianchi ma colpisce anche donne e minoranze etniche, aggiungendo un ulteriore livello di complessità alla questione della diversità e inclusione nel mondo STEM. La mancanza di studi approfonditi sul tema ha contribuito a mantenere questa problematica nell’ombra rispetto ad altre forme di esclusione, ma l’evidenza quotidiana dimostra che la diversità di età è un nodo cruciale per costruire un ambiente lavorativo realmente equo e produttivo.

Comprendere il fenomeno dell’esclusione anagrafica significa anche riflettere sul modo in cui la cultura dell’innovazione tecnologica è spesso associata a valori giovanili che rischiano di escludere contributi preziosi, limitando la capacità delle aziende di crescere e adattarsi in un mondo complesso e in rapido cambiamento. Solo un approccio che valorizzi l’esperienza insieme alla freschezza delle idee potrà superare questa dicotomia dannosa e creare spazi di lavoro inclusivi per tutte le età.

Come la formazione STEM può salvare il pianeta: un’analisi del ruolo cruciale dell’educazione scientifica e tecnologica

La crescente domanda di competenze STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) sta trasformando il panorama educativo e professionale globale. Un numero sempre maggiore di studenti sta scegliendo percorsi accademici in queste discipline, un fenomeno che non solo riflette le esigenze economiche, ma anche una visione più ampia del nostro futuro collettivo. La formazione STEM, infatti, non è più solo una risposta a sfide professionali immediate, ma anche un’opportunità per affrontare le crisi globali, tra cui i cambiamenti climatici e la sostenibilità ambientale.

Molti, tuttavia, tendono a ridurre il termine STEM a un puro obiettivo di carriera, senza considerare appieno il suo potenziale impatto su scala globale. La crescita dei laureati STEM, specialmente nelle scienze applicate e nelle tecnologie informatiche, è stata oggetto di molte analisi, come evidenziato da una varietà di fonti. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno assistito a un aumento dei laureati nelle discipline STEM, ma anche a una diminuzione delle iscrizioni in ambito umanistico, un cambiamento che ha scatenato dibattiti sui benefici e i rischi di un tale squilibrio. I laureati STEM, sebbene altamente richiesti nel mercato del lavoro, sono spesso confrontati con una domanda che non corrisponde alla crescita delle loro competenze, specialmente nel settore accademico, dove le opportunità per i dottorati in STEM restano limitate.

Nonostante le difficoltà nel coniugare la formazione accademica con le aspettative del mercato, l’importanza di educare le future generazioni nelle materie scientifiche e tecnologiche è indiscutibile. Un’educazione STEM di qualità non solo prepara gli studenti per un mondo del lavoro competitivo, ma li fornisce anche degli strumenti necessari per risolvere i problemi più urgenti del nostro tempo. Il cambiamento climatico, la scarsità delle risorse naturali, l'inquinamento e la necessità di una transizione energetica globale richiedono innovazioni che solo una solida formazione STEM può offrire.

L’emergere delle tecnologie verdi, delle energie rinnovabili e delle soluzioni sostenibili dipende in larga parte da professionisti altamente qualificati che possiedono una comprensione approfondita delle scienze e delle tecnologie. Le università e le istituzioni educative stanno ora riconoscendo questo bisogno crescente, cercando di integrare percorsi di studio che colleghino direttamente la teoria scientifica alle applicazioni pratiche per la risoluzione dei problemi ecologici. In altre parole, non si tratta più solo di imparare a "fare" scienza, ma di imparare a usarla per "cambiare" il mondo.

Una particolare attenzione dovrebbe essere rivolta alla formazione dei giovani nelle discipline STEM attraverso metodi che favoriscano non solo l’acquisizione di competenze tecniche, ma anche la capacità di pensare in modo critico, etico e interdisciplinare. La vera innovazione nasce dalla capacità di integrare le scienze naturali con le scienze sociali, la tecnologia con l'umanesimo, la matematica con la filosofia della sostenibilità. La soluzione ai problemi globali non può essere solo tecnologica; deve essere anche sociologica, culturale ed economica. In questa ottica, gli studenti devono essere preparati a collaborare in team multidisciplinari e ad affrontare sfide complesse con una mentalità aperta e una solida base scientifica.

Anche se la crescente enfasi sull'educazione STEM è un segnale positivo, non bisogna dimenticare che l'accesso equo a queste opportunità rimane una questione cruciale. Gli studenti provenienti da contesti svantaggiati o da paesi in via di sviluppo non sempre hanno le stesse opportunità di apprendimento e di carriera. Pertanto, l’accesso alla formazione STEM deve essere universale, inclusivo e mirato a superare le disuguaglianze educative.

In conclusione, la vera sfida per il futuro dell'educazione STEM non è solo quella di preparare gli studenti per un lavoro ben retribuito, ma di formare una generazione che possa affrontare i problemi globali con soluzioni innovative e sostenibili. Solo in questo modo, l’educazione STEM potrà diventare uno degli strumenti principali per "salvare il pianeta", non solo per garantire un futuro prospero per pochi, ma per migliorare la qualità della vita di tutti, indipendentemente dalla loro provenienza o status socio-economico.