L’analisi della crescente disuguaglianza economica negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta può essere interpretata attraverso il modello a due settori. In questo schema, il settore moderno, identificato come il settore FTE (finanza, tecnologia, elettronica), richiede un’elevata intensità di capitale e forza lavoro altamente qualificata, generalmente con titoli universitari. Tuttavia, solo una minoranza della popolazione lavorativa ha accesso a questo settore, mentre la maggioranza resta impiegata in comparti a bassa produttività e con salari reali stagnanti o decrescenti.

I proprietari del capitale, che esercitano un’influenza politica considerevole, non hanno interesse ad incentivare la modernizzazione del settore agricolo o di altri settori tradizionali, perché ciò comporterebbe un aumento della produttività e, quindi, dei salari reali. Questo comportamento contribuisce a mantenere bassa la remunerazione del lavoro non qualificato e ad accentuare la polarizzazione dei redditi. Negli Stati Uniti, questa dinamica si è accentuata attraverso politiche fiscali favorevoli ai redditi elevati: tagli alle imposte sulle società e riduzione dell’imposizione sui redditi più alti, iniziati con l’amministrazione Reagan e proseguiti da governi successivi, in particolare durante l’amministrazione Trump.

La conseguenza diretta di queste scelte è stata una riduzione delle risorse pubbliche disponibili per investimenti in educazione e programmi di welfare. Ne risentono in particolare gli immigrati provenienti dall’America Latina, che faticano ad acquisire le competenze richieste dal settore FTE e rischiano l’esclusione dal mercato del lavoro qualificato. Inoltre, l’accumulazione della ricchezza rimane concentrata nei segmenti già benestanti della popolazione, producendo effetti moltiplicatori di disuguaglianza attraverso il reddito da capitale.

Un altro elemento critico è rappresentato dal capitale sociale. La fiducia e le reti sociali sono fondamentali per accedere a opportunità professionali e ottenere redditi adeguati. Tuttavia, il crescente clima di polarizzazione politica e sociale negli Stati Uniti indebolisce questi legami. La retorica divisiva e le politiche di deregolamentazione contribuiscono a minare il tessuto della coesione sociale e a ostacolare la crescita economica di lungo periodo. L'accentuazione del razzismo istituzionale, come suggerito da alcune tendenze nell’amministrazione Trump, mina ulteriormente le politiche redistributive e il ruolo dello Stato come garante dell’equità.

I dati mostrano che la povertà colpisce in modo sproporzionato le minoranze etniche: nel 1999, il tasso di povertà tra i bianchi non ispanici era del 7,7%, mentre tra gli afroamericani superava il 23%. Sebbene i bianchi non ispanici rappresentassero il 70,7% della popolazione, costituivano solo il 40% dei poveri. Questi numeri evidenziano una distribuzione ineguale delle opportunità economiche e delle risorse pubbliche.

Rispetto all’Unione Europea, gli Stati Uniti mostrano una minore spesa pubblica in proporzione al PIL, specialmente nei trasferimenti sociali. Nel 1999, tali trasferimenti costituivano solo il 10,7% del PIL statunitense, contro il 18,1% della media UE, il 20,1% della Francia e il 20,5% della Germania. Anche nel 2011, la spesa per trasferimenti sociali negli Stati Uniti restava ben al di sotto dei livelli europei. Questo scarto riflette una diversa concezione del ruolo dello Stato nella redistribuzione del reddito e nella protezione sociale.

Se il Regno Unito, nel periodo post-Brexit, dovesse orientarsi verso un modello economico statunitense, ciò potrebbe portare a una nuova competizione sistemica tra l’economia di mercato liberale anglosassone (USA-UK) e l’economia sociale di mercato europea (UE27). Tale competizione si giocherebbe non solo sul terreno economico, ma anche su quello delle politiche sociali e fiscali, accentuando le divergenze tra i due modelli.

Il sistema fiscale statunitense è meno progressivo rispetto a quello europeo: i redditi bassi sono tassati in misura relativamente maggiore, mentre i redditi elevati beneficiano di aliquote inferiori. A ciò si aggiunge un sistema di sicurezza sociale meno generoso: nel 1999, in caso di malattia, una famiglia media statunite

Come proteggere le rotte marittime UE-Asia in un contesto di crescente competizione commerciale e tecnologica

L'espansione del commercio cinese nel lungo periodo ha radicalmente trasformato le dinamiche globali, soprattutto per quanto riguarda i trasporti marittimi tra Europa e Asia. Le rotte marittime rappresentano oggi un asse cruciale per il commercio internazionale, ma il loro ruolo si evolve parallelamente all’aumento del commercio digitale e dei servizi basati sui dati. Si prevede che, entro il 2050, la quota del commercio mondiale basata sul trasporto marittimo diminuisca rispetto ai livelli attuali, a causa della crescita esponenziale di beni immateriali e servizi digitali. Tuttavia, il commercio marittimo rimarrà dominante per il trasporto di merci fisiche su larga scala.

Negli scenari futuri, il commercio tra Stati Uniti e Asia assumerà un peso predominante nel totale degli scambi statunitensi, creando interessi convergenti tra USA ed Europa nella protezione delle stesse rotte marittime verso l’Asia. La cooperazione strategica tra UE e USA, sia sul piano economico che in ambito di sicurezza, risulta quindi imprescindibile. L’alleanza transatlantica, incarnata da organizzazioni come la NATO, gioca un ruolo chiave nella salvaguardia di queste vie di comunicazione. Tuttavia, tensioni politiche interne agli Stati Uniti, come quelle rappresentate da leadership populiste, rischiano di indebolire questa cooperazione, con potenziali ripercussioni negative sulla capacità occidentale di affrontare le sfide poste dall’Asia.

La politica commerciale degli Stati Uniti, in particolare sotto l’amministrazione Trump, ha assunto una posizione fortemente protezionista nei confronti della Cina e di altri partner. Le riforme degli accordi commerciali, come la revisione del NAFTA che ha aumentato le soglie di valore aggiunto regionale per le produzioni, rendono più difficile per paesi terzi usufruire delle preferenze commerciali. L’imposizione di dazi su acciaio e alluminio, giustificata da ragioni di sicurezza nazionale, ha generato tensioni con molti alleati, mettendo in discussione l’affidabilità e la coerenza delle politiche commerciali statunitensi.

Questa retorica protezionista, sebbene presentata come un tentativo di riequilibrare gli scambi, rischia di minare i fondamenti della fiducia nel sistema commerciale globale e nelle regole multilaterali. L’uso di giustificazioni basate sulla sicurezza nazionale per motivi economici crea un precedente pericoloso che può alimentare l’incertezza e indebolire il diritto internazionale e il funzionamento dei mercati. La diffusione di disinformazione e falsità a livello politico compromette la stabilità delle istituzioni democratiche, la trasparenza dei processi decisionali e la certezza del diritto.

Il fallimento di iniziative come il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), bloccato da divergenze politiche interne e da una negoziazione poco trasparente, rappresenta una perdita significativa per la liberalizzazione commerciale tra Stati Uniti ed Europa. TTIP avrebbe potuto favorire dinamiche di commercio più fluide, incrementare gli investimenti diretti esteri e stimolare l’innovazione, elementi essenziali per mantenere la competitività nell’era della globalizzazione digitale. L’innovazione, in particolare, emerge come un fattore critico, strettamente collegato agli investimenti stranieri e alla capacità di generare effetti esterni positivi su scala globale.

La strategia commerciale statunitense, incentrata sulla riduzione delle importazioni e sull’aumento delle esportazioni militari, appare però inadatta per risolvere i problemi di squilibri commerciali. È necessario un approccio più sofisticato che contempli la complessità delle interdipendenze economiche contemporanee e valorizzi la cooperazione multilaterale.

Oltre a quanto evidenziato, è fondamentale comprendere che la sicurezza delle rotte marittime non è solo una questione militare o commerciale, ma coinvolge anche la governance globale e la capacità di mantenere un sistema internazionale basato su regole condivise. Il futuro del commercio mondiale dipenderà dalla capacità degli attori internazionali di bilanciare interessi nazionali e cooperazione globale, di gestire le nuove forme di commercio digitale e di preservare la fiducia reciproca in un mondo sempre più interconnesso. La trasformazione tecnologica e la crescente importanza dei dati come merce strategica richiedono un aggiornamento delle politiche commerciali e di sicurezza, nonché una nuova visione per affrontare le sfide poste dalla globalizzazione del XXI secolo.

Quali sono le sfide politiche ed economiche fondamentali che l’Unione Europea deve affrontare dopo la Brexit?

L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea rappresenta un momento storico che ha rivelato non solo la vulnerabilità politica dell’UE, ma anche una carenza strutturale nella gestione professionale dei rischi politici a livello sovranazionale. Il referendum del 2016, che ha sancito la Brexit, ha colto di sorpresa non solo il governo britannico guidato da Cameron, ma anche le istituzioni europee, evidenziando come la preparazione e la capacità di previsione degli eventi critici siano gravemente insufficienti nell’ambito politico europeo. Questa incapacità di gestione del rischio sistemico politico, contrapposta alla rigorosa regolamentazione bancaria, dimostra una lacuna significativa: sebbene gli stati e le istituzioni finanziarie siano sottoposti a controlli severi, i governi stessi e i meccanismi di coordinamento europeo mancano di una visione strategica e anticipatoria degli eventi politici di vasta portata.

Un caso emblematico di questa insufficienza è rappresentato dal ruolo del European Systemic Risk Board (ESRB), che nel periodo cruciale post-Brexit non ha funzionato secondo il suo mandato, ovvero quello di analizzare sistematicamente i rischi di natura sistemica e proporre misure di mitigazione. Invece di sviluppare una valutazione unitaria e condivisa tra i 53 enti membri – compresi i paesi dell’Area Economica Europea come Islanda e Norvegia – il lavoro si è diviso in compartimenti stagni: la Bank of England si è occupata dei rischi macroprudenziali del Regno Unito, mentre la BCE si è focalizzata sull’Eurozona. Tale frammentazione analitica rende difficile una comprensione integrata delle dinamiche europee e prefigura complicazioni nei futuri rapporti post-Brexit tra UE e Regno Unito.

Sul piano istituzionale, l’Unione Europea è sotto pressione crescente per adottare politiche più sovranazionali, anche se questa spinta appare spesso legata più a ragioni di potere interno alla Commissione Europea che a reali benefici per i cittadini. L’analisi della politica fiscale federale suggerisce che investimenti infrastrutturali di ampia scala, difesa comune e meccanismi di redistribuzione siano i settori in cui un ruolo rafforzato dell’UE è giustificato, ma il trasferimento di competenze e risorse fiscali da parte degli Stati membri rimane bloccato da timori nazionalisti e da dinamiche di potere politico, come evidenziato dalla presidenza semestrale rotante dell’UE, che spesso porta a decisioni non ottimali per il bene collettivo.

Il principio di sussidiarietà, che garantisce la priorità alle decisioni nazionali se l’azione europea non promette chiari vantaggi, deve essere interpretato in modo dinamico. Non si tratta solo di bilanciare compiti e competenze, ma di alimentare un interesse politico più intenso dei cittadini verso l’UE, incrementando così la partecipazione elettorale e rafforzando la competitività politica a livello sovranazionale. Un profilo istituzionale dell’UE troppo modesto favorisce invece l’astensionismo e il voto per forze politiche radicali, indebolendo la qualità delle decisioni europee. Pertanto, un’espansione ragionata delle competenze e delle responsabilità dell’UE potrebbe contribuire a rafforzare il legame democratico tra istituzioni europee e cittadini.

La Brexit ha inoltre dato slancio a correnti populiste in altri paesi, minacciando la stabilità dell’intero progetto europeo. In questo contesto, la dimensione geopolitica è diventata particolarmente rilevante. La recente dichiarazione del Segretario di Stato britannico alla Difesa, Gavin Williamson, sulla proiezione di potenza globale del Regno Unito con l’invio della portaerei HMS Queen Elizabeth nel Pacifico e l’istituzione di nuove basi militari in Asia e nei Caraibi, testimonia un tentativo di ridefinire un ruolo internazionale fuori dall’UE. Queste scelte militari e geopolitiche si intrecciano con le difficoltà economiche di lasciare un mercato unico di cui il Regno Unito ha goduto ampi vantaggi, come l’accesso preferenziale a 71 paesi attraverso oltre 40 accordi di libero scambio negoziati dall’UE.

È fondamentale comprendere che le sfide poste dalla Brexit e dalle pressioni interne all’UE non si limitano alle dinamiche politiche o economiche, ma coinvolgono una trasformazione profonda del modo in cui l’Europa si governa e si integra. Il futuro dell’Unione dipenderà dalla capacità di sviluppare strumenti di gestione del rischio politico all’altezza delle sfide, di riformare le sue istituzioni per renderle più efficienti e democratiche, e di trovare un equilibrio tra sovranazionalità e autonomia nazionale capace di coinvolgere attivamente i cittadini europei.

Come l'integrazione dei sistemi di scambio di emissioni può promuovere un futuro sostenibile

Il sistema di scambio di emissioni dell'Unione Europea (EU ETS), avviato nel 2005, ha rappresentato un tentativo fondamentale per contenere le emissioni di gas serra nel settore energetico e industriale, che costituiscono il 45% delle emissioni totali di gas serra nell'UE. Lo stesso approccio è stato adottato dalla California, che copre l'85% delle emissioni di CO2, rendendo il suo sistema più ampio rispetto a quello europeo. Questo paragone suggerisce una chiara opportunità a medio termine: l'integrazione dei vari sistemi di scambio di emissioni di paesi come l'UE, la California (insieme a Ontario e Quebec), la Cina, la Corea del Sud, il Giappone (con le prefetture di Tokyo e Saitama), e altre nazioni che hanno implementato nuovi ETS. Una tale unione potrebbe dar vita a un sistema ETS internazionale che, in modo efficiente, contribuirà a costruire un nuovo ordine globale a favore del clima, che promuova prosperità, protezione del clima e stabilità.

Parte delle riduzioni delle emissioni di CO2 deriverebbero da politiche innovative in paesi che perseguono un'economia rispettosa del clima, mentre altre provengono dai guadagni di efficienza derivanti dal libero scambio—sempre che l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) resti operativa. Un'integrazione globale dei sistemi di scambio di emissioni, o quantomeno tra i paesi del G20, sarebbe cruciale. Tuttavia, non ci si può aspettare un'integrazione fluida del sistema di scambio di emissioni se gli Stati Uniti dovessero restare fuori da tale processo. Un lungo periodo di populismo negli Stati Uniti potrebbe compromettere questa opportunità globale di sostenibilità e prosperità, portando a un ciclo economico di boom e crisi alimentato politicamente, con boom economici artificiali e instabili.

Il problema di credibilità che ha caratterizzato la presidenza Trump ha peggiorato ulteriormente la situazione. Le sue dichiarazioni spesso incoerenti e la sua comunicazione politica poco seria, soprattutto sui social media, hanno ridotto la fiducia nei confronti della presidenza e delle politiche statunitensi. L'abbassamento della credibilità rende necessarie politiche più incisive per ottenere gli stessi risultati di un tempo. Il ripristino della credibilità della presidenza diventa quindi una sfida a lungo termine per gli Stati Uniti. Le sue politiche non convenzionali, che cercano di ottenere supporto elettorale a breve termine, come nel caso delle tariffe sulle importazioni di automobili dall'UE, rivelano un approccio miope che non considera i più ampi effetti economici globali, come quelli legati alla distribuzione del reddito.

Il sistema politico americano è anch'esso influenzato dalla crescente disuguaglianza economica, e fino a quando questa problematica non verrà affrontata seriamente, non sarà possibile trovare soluzioni politiche efficaci. In questo contesto, sarebbe utile per i paesi dell'UE promuovere ricerche transatlantiche su una moderna economia sociale di mercato, avviando progetti di partnership politica come i gemellaggi tra città transatlantiche. Inoltre, la cooperazione tra l'UE e paesi come la Cina deve essere gestita con cautela, evitando di spingere la Cina in una posizione politica che la escluda dall'economia globale. Sebbene la Cina sia ormai abbastanza grande da sostenere la propria crescita anche con un ridotto scambio commerciale con gli Stati Uniti e l'UE, tale scenario non sarebbe vantaggioso né per gli Stati Uniti né per l'Europa.

Il commercio internazionale non è solo un motore di prosperità economica, ma anche di dialogo politico e culturale, e la sua interruzione potrebbe minacciare la stabilità globale. Se l'UE dovesse disintegrarsi, una politica occidentale guidata da un USA populista potrebbe dominare, caratterizzandosi per un protezionismo e un nazionalismo che alimenterebbero conflitti a lungo termine, specialmente con la Cina. Giappone e Regno Unito, soprattutto post-Brexit, sarebbero costretti a seguire questa logica.

L'espansione digitale globale sta contribuendo a incrementare le disuguaglianze legate al reddito da mercato, ma se gestita correttamente, la politica fiscale può mitigare almeno in parte questa disuguaglianza. È anche evidente che un ordine economico liberale basato su regole è una delle fondamenta della prosperità globale. Pertanto, è cruciale che un gruppo minimo di paesi occidentali e asiatici sostenga il multilateralismo. Gli Stati Uniti, in particolare, dovrebbero abbandonare le politiche protezionistiche e concentrarsi su un approccio che valorizzi le istituzioni globali come l'OMC, evitando che le azioni unilaterali minaccino l'equilibrio globale.