Il sistema aritmetico noto come Q, o aritmetica di Robinson, è straordinariamente debole rispetto ai più complessi sistemi formali usati nella matematica contemporanea. Eppure, la sua rilevanza nell’ambito della strategia interpretativa emerge in maniera sorprendente. Nonostante la sua debolezza, Q conserva una potenza deduttiva sufficiente per rappresentare funzioni e relazioni ricorsive fondamentali, incluse quelle che caratterizzano proprietà aritmetiche come la primalità o la coprimalità. La forza del sistema Q risiede non nella sua complessità sintattica, bensì nella capacità di offrire una base minima, ma solida, per spiegazioni matematiche di fenomeni naturali.

L’interesse centrale non è quello di ricostruire tutta la matematica o nemmeno tutta la matematica usata nelle scienze naturali in termini nominalisti. Piuttosto, si tratta di verificare se sia possibile fornire spiegazioni nominalistiche di quei fenomeni naturali per cui si sostiene che una spiegazione matematica — e, in particolare, teorico-numerica — sia la più appropriata. L’esempio emblematico è il ciclo vitale delle cicale periodiche, la cui durata prime si presta a una spiegazione aritmetica. Q, pur essendo un sistema debole, è in grado di articolare tale spiegazione.

Le formule Σ₁⁰, ovvero quelle esistenziali costruite con quantificatori limitati, rappresentano l’interfaccia tra la debole aritmetica di Q e la capacità di esprimere proposizioni vere nel modello standard dei numeri naturali. Ogni funzione ricorsiva è definibile in Q tramite una formula di questo tipo. Le operazioni basilari come somma, prodotto, massimo, minimo e anche predicate complessi come “essere primo” possono essere espressi entro questo schema formale, senza la necessità di quantificazioni illimitate che vanno oltre i limiti empirici di qualsiasi fenomeno fisico osservabile.

In effetti, se da un lato si potrebbe obiettare che le spiegazioni scientifiche usano quantificazioni universali non limitate, è altresì vero che tali generalizzazioni sono teoriche e non necessarie nei casi concreti. I limiti fisici imposti dalla realtà — ad esempio, la durata della vita sulla Terra — rendono irrilevanti le considerazioni su valori estremi. Di conseguenza, la matematica necessaria per spiegare i fenomeni naturali può, in molti casi, essere contenuta all’interno di sistemi come Q, che utilizzano solo quantificatori limitati.

La possibilità di interpretare teorie matematiche complesse in Q rende la strategia interpretativa uno strumento potente. Q può interpretare la geometria euclidea del primo ordine, la teoria dei campi reali chiusi ordinati secondo Tarski e persino la cosiddetta Base Theory for Feasible Analysis. Se tali teorie possono essere interpretate in Q, e se QT — una teoria teoricamente nominalista — è a sua volta interpretabile in Q, allora è possibile effettuare una traduzione in catena: dalla matematica applicata alla scienza, fino a QT, passando per Q.

L’analogia con la simulazione di software è illuminante. Si tratta di far girare programmi scritti in un linguaggio all’interno di un altro linguaggio computazionale che, in ultima istanza, si riduce alla manipolazione di stringhe di simboli. Ontologicamente, il nominalista può così ridurre l’impegno metafisico a entità minimali — stringhe non vuote di simboli — eliminando ogni riferimento a oggetti astratti come i numeri o le funzioni.

La debolezza di Q non è quindi una limitazione, ma una virtù nel contesto della strategia interpretativa. Il fatto che QT sia interpretabile in Q e che Q stesso sia sufficiente per rappresentare spiegazioni scientifiche selezionate indica che l’imprescindibilità della matematica per la scienza può essere riconsiderata. La forza di una spiegazione non risiede nel potere formale del sistema, ma nella sua capacità di articolare con precisione ed economia le relazioni necessarie a descrivere il fenomeno.

La discussione sulla interpretabilità rivela quindi che il nominalismo non è tanto una posizione ontologica minimale quanto una proposta metodologica sulla struttura delle spiegazioni scientifiche. L'attenzione si sposta dalla ontologia delle entità matematiche all'efficacia e sufficienza formale dei sistemi deduttivi, anche quelli molto deboli, come strumenti per la comprensione del mondo.

È cruciale comprendere che l'efficacia esplicativa di un sistema come Q non dipende dalla sua capacità di formalizzare ogni verità aritmetica universale, ma dalla sua adeguatezza nel rappresentare porzioni finite e osservabili della realtà naturale. Ogni spiegazione scientifica reale è inevitabilmente vincolata a condizioni fisiche, ecologiche e teoriche che limitano lo spettro dei valori rilevanti. Di conseguenza, la capacità di Q di formulare e dedurre teoremi in questo contesto ristretto rappresenta un punto di forza piuttosto che una debolezza.

Qual è il valore della verità nei contropossibili e come influisce sulle spiegazioni matematiche?

La discussione sulla verità nei contropossibili (ovvero, le proposizioni condizionali con antecedenti impossibili) ha suscitato un ampio dibattito nella filosofia della logica e nelle teorie dell'esposizione. Una delle questioni centrali riguarda il ruolo che questi contropossibili svolgono nelle spiegazioni matematiche e, più in generale, nelle teorie controfattuali. A partire dal concetto di "contrafattuali", che sono frasi del tipo "Se A fosse accaduto, B sarebbe accaduto", si è cominciato a esplorare come l'antecedente (la parte che esprime una condizione ipotetica) influenzi il valore di verità della proposizione complessiva, e se in alcuni casi questo valore possa essere considerato "vacuamente vero", cioè vero in modo triviale, senza che l'antecedente abbia alcun impatto reale sulla verità del conseguente.

Williamson, ad esempio, sostiene che la verità di un contropossibile è spesso vista come vacuamente vera. In altre parole, un contropossibile con un antecedente impossibile potrebbe essere considerato vero senza la necessità di una connessione causale o plausibile tra antecedente e conseguente. Ciò che importa, secondo questa visione, è che la forma logica della proposizione stessa ne garantisce la verità. Tuttavia, per altri filosofi come Priest o Berto, i contropossibili possono essere "non vacuamente veri", cioè la verità del contropossibile può essere legata a un contenuto significativo, piuttosto che derivare semplicemente da una struttura formale.

In relazione alla matematica, il caso dei contropossibili assume una dimensione interessante. Se, per esempio, si considera il contropossibile "se il problema di validità fosse algoritmicamente decidibile, allora anche il problema di arresto lo sarebbe", alcuni teorici ritengono che questa proposizione possa essere considerata vera, grazie alla riducibilità Turing tra il problema di validità e il problema di arresto. Questo implica che la soluzione di uno potrebbe automaticamente risolvere l'altro, se esistesse un algoritmo per il primo problema. D'altro canto, la proposizione "se il problema di validità fosse algoritmicamente decidibile, allora la verità aritmetica lo sarebbe" è considerata falsa, poiché la verità aritmetica non è riducibile al problema di validità.

Questo tipo di approccio alla verità nei contropossibili apre importanti riflessioni sulle condizioni epistemiche necessarie affinché una proposizione sia utilizzabile in una dimostrazione o in una spiegazione. In effetti, l'importanza della verità di un contropossibile potrebbe derivare dalla sua capacità di essere supportata da una prova o da un ragionamento formale. Questo solleva la questione se la verità logica da sola sia sufficiente per rendere una proposizione "assertabile", cioè degna di essere presa in considerazione in una spiegazione rigorosa.

L'integrazione di contropossibili non vacuamente veri in spiegazioni matematiche implica un cambiamento significativo rispetto ai tradizionali approcci logici, che tendono a trattare i contropossibili come casi triviali. La necessità che un contropossibile abbia un valore significativo per essere utilizzato in una spiegazione, soprattutto nel contesto matematico, è strettamente legata alla capacità di questo contropossibile di "fare la differenza" in una teoria o in un modello esplicativo. In altre parole, affinché un contropossibile non sia semplicemente una tautologia, deve influire in modo non triviale sull'esito di un ragionamento.

Pertanto, nella logica delle spiegazioni, è fondamentale che la proposizione condizionale che si utilizza in un controfattuale sia assunta come vera, ma con la consapevolezza che questa verità non debba essere vacua. In particolare, quando si tratta di spiegazioni matematiche, la variazione di una proprietà matematica deve avere un impatto significativo sul risultato dell'analisi. Se una proposizione è triviale, la sua capacità di spiegare un fenomeno diventa irrilevante. La ricerca di contropossibili che siano "non vacuamente veri" è dunque essenziale per una teoria completa e robusta delle spiegazioni, sia matematiche che filosofiche.

Il dibattito sullo status dei contropossibili e sul loro valore di verità continua a essere un campo di ricerca vivace, con implicazioni dirette sulle teorie matematiche e logiche. In ogni caso, l'esplorazione dei contropossibili come strumenti esplicativi dovrebbe considerare attentamente non solo la forma logica delle proposizioni, ma anche il loro potenziale di produrre spiegazioni sostanziali e non banali.

Che cosa rende una dimostrazione veramente esplicativa?

Nella matematica, non tutte le dimostrazioni sono considerate uguali in termini di potere esplicativo. Alcune mostrano semplicemente che cosa è vero, mentre altre riescono a illuminare anche perché qualcosa è vero. Questa distinzione è centrale nel lavoro di James Steiner, il quale introduce l’idea di proprietà caratterizzanti come criterio distintivo tra dimostrazioni puramente dimostrative e quelle autenticamente esplicative.

Una dimostrazione è esplicativa quando utilizza una proprietà che caratterizza in modo essenziale l’oggetto matematico coinvolto e dalla quale dipende il risultato del teorema. Prendiamo, ad esempio, la dimostrazione del fatto che il 2 è l’unico numero primo pari. Il fatto che i numeri pari siano divisibili per 2 senza resto non è un semplice dettaglio, ma una proprietà caratterizzante che spiega perché nessun altro numero pari può essere primo. Questo tipo di informazione va oltre la semplice verifica caso per caso e fornisce un’intuizione più profonda sulla struttura dei numeri naturali.

In contrasto, le dimostrazioni per esaustione o per casi tendono a essere considerate non esplicative. Esse si limitano a esaurire tutte le possibilità disponibili, mostrando che in ogni caso il risultato è valido. Dimostrano la verità del teorema, ma non ne chiariscono il motivo. Sono operazioni di forza bruta, prive di insight teorico. La loro mancanza di eleganza è precisamente ciò che le esclude dal dominio dell'esplicazione matematica.

Steiner afferma che una dimostrazione è esplicativa se il teorema collassa quando si sostituisce l’oggetto centrale con un altro che non possiede la proprietà caratterizzante. Ma va oltre: una dimostrazione esplicativa non è solo una relazione tra un singolo teorema e una singola prova, bensì tra una classe di dimostrazioni e una classe di teoremi. L'esplicazione emerge dal confronto tra varianti, ciascuna deformazione dell'oggetto originario produce un teorema correlato ma diverso, rendendo evidente il ruolo cruciale della proprietà in questione.

Per illustrare questa idea, Steiner contrappone due dimostrazioni dello stesso teorema: la somma dei primi n numeri naturali, cioè 1 + 2 + 3 + ... + n = n(n + 1)/2. La prima dimostrazione è per induzione matematica: si verifica il caso base e si prova che, se la formula è valida per n, allora lo è anche per n + 1. Questa dimostrazione, pur essendo formalmente corretta, non è esplicativa: mostra che la formula è vera, ma non perché è vera.

La seconda dimostrazione, invece, fa uso della simmetria dell’addizione. Si scrive la sequenza in ordine crescente e poi decrescente, sommando ogni termine in posizione corrispondente: 1 + n, 2 + (n − 1), ..., ciascuna coppia somma a (n + 1), ripetuta n volte. Il totale è n(n + 1), che, diviso per 2, dà la formula cercata. In questa dimostrazione, la simmetria è la proprietà caratterizzante: spiega il perché della formula e permette una visione più profonda della struttura del problema.

La stessa idea può essere applicata a una diversa sequenza, come 1 + 3 + 5 + ... + (2n − 1). Anche qui si può duplicare la sequenza in ordine inverso e sommare posizione per posizione. Ogni somma dà 2n, ripetuta n volte, il cui totale è 2n². Dividendo per 2 otteniamo n². Il metodo è lo stesso, ma il teorema risultante è diverso: questo mostra come la variazione dell’oggetto all’interno della stessa idea dimostrativa genera nuovi teoremi e illumina la relazione tra struttura e risultato.

Questo porta alla nozione di proof-idea, un concetto che comprende una struttura dimostrativa generale all'interno della quale è possibile variare l’oggetto specifico. Le singole dimostrazioni, da sole, non spiegano il perché, ma il confronto tra loro — il modo in cui si deformano con il variare dell’oggetto — rivela l’aspetto esplicativo del ragionamento matematico. L'intuizione non risiede nella singola prova, ma nella rete di connessioni tra prove imparentate.

Tuttavia, l’idea di proprietà caratterizzante non è immune da critiche. Alcuni sostengono che la definizione sia troppo vaga: non è sempre chiaro cosa significhi “caratterizzare” un oggetto all’interno di un dominio. Inoltre, ci sono dimostrazioni che sembrano esplicative pur non facendo uso evidente di tali proprietà. È possibile, ad esempio, che la differenza tra le sequenze 1 + 2 + ... + n e 1 + 3 + 5 + ... + (2n − 1) sia dovuta più alla natura del passo (incremento di 1 o di 2) che a una variazione strutturale dell’oggetto. In questo caso, ciò che spiega la differenza nel risultato non è tanto la variazione dell’oggetto, quanto la differenza nella sua descrizione.

Infine, c’è il problema del disaccordo tra diversi sottodomini della matematica. Ciò che un logico matematico considera esplicativo, potrebbe non esserlo per un topologo, e viceversa. La percezione dell’esplicazione può dipendere dalla formazione, dalla pratica e dalle convenzioni disciplinari. Eppure, nonostante queste difficoltà, vi è un consenso implicito che certe dimostrazioni, come quelle per esaustione, siano esclusivamente dimostrative e prive di valore esplicativo, mentre altre, come quelle fondate su simmetrie o proprietà strutturali essenziali, riescano a illuminare la natura intrinseca dei teoremi.

L'importanza di questa distinzione risiede nella comprensione stessa della matematica come disciplina non solo deduttiva, ma anche esplicativa. La matematica, nel suo livello più profondo, non è fatta solo di verità, ma di ragioni per cui quelle verità sono tali.

Come la matematica contribuisce alle spiegazioni scientifiche: la questione delle spiegazioni extra-matematiche

Le teorie causali dell’esplicazione, introdotte in precedenza, hanno determinato un predominante approccio scientifico che interpreta le spiegazioni in termini di causalità. Si è consolidato nel tempo il pensiero che un’esplorazione scientifica consista principalmente nell’identificare o descrivere una causa, un punto di vista che ha guadagnato grande accettazione tra i filosofi della scienza (Reutlinger, 2017; Pincock, 2015). Tuttavia, si è anche ben consapevoli che la classe delle spiegazioni non si esaurisce nelle sole spiegazioni causali. Le teorie statistiche, ad esempio, non sono di natura causale, così come le teorie che pongono l'accento sull'unificazione. Inoltre, come sottolineato, anche la teoria DN dell’esplicazione, seppur di grande rilevanza, non è intrinsecamente causale.

Nel corso degli ultimi decenni, un nuovo filone di interesse ha messo in luce il fatto che molte spiegazioni non causali sembrano dipendere in parte dalla matematica per svolgere un ruolo esplicativo. La matematica, infatti, è percepita come parte integrante delle spiegazioni di fenomeni empirici, sebbene venga tradizionalmente considerata come causalmente inerte: essa è atemporale, aspatiale e inefficace sul piano causale. Di conseguenza, le spiegazioni che coinvolgono elementi matematici non dovrebbero, secondo alcuni, essere considerate pienamente causali. Ciò non implica, ovviamente, che le spiegazioni causali siano di minore importanza o meno prevalenti, come testimoniato, per esempio, dai lavori recenti di Strevens (2008). Piuttosto, questa prospettiva alternativa apre una nuova visione riguardo alle modalità attraverso cui i fenomeni empirici vengono spiegati.

La questione delle spiegazioni matematiche in scienza è tuttavia controversa. Non solo non esiste accordo sul fatto che la matematica abbia un ruolo esplicativo in sé, ma nemmeno sulla natura di tale spiegazione, se esiste. È nato così lo studio delle spiegazioni matematiche dei fenomeni empirici, a volte definite "spiegazioni extra-matematiche", in contrapposizione alle "spiegazioni intra-matematiche", che riguardano piuttosto i fatti matematici in sé, come quelle di cui si è parlato nel paragrafo precedente.

Uno degli interrogativi principali è quello di capire cosa renda una spiegazione scientifica distintivamente matematica. Non basta che l’esplorazione quantifichi entità matematiche, come numeri, funzioni o insiemi, poiché in tal caso molte spiegazioni scientifiche comunemente accettate, pur utilizzando la matematica, verrebbero erroneamente classificate come spiegazioni matematiche. Prendiamo ad esempio il caso del termometro a mercurio, discusso da Hempel e Oppenheim. In questo esempio, la spiegazione causale si fonda sulla differenza nel coefficiente di espansione tra il vetro e il mercurio. Questo coefficiente è dato da una formula matematica che descrive la relazione tra il tasso di espansione o contrazione di una sostanza e la variazione della temperatura. Sebbene la spiegazione coinvolga una formula matematica, il ruolo che essa gioca nell'esplicazione del fenomeno non sembra giustificare l'idea che tale spiegazione sia "matematica" nel senso più stretto del termine. Infatti, l'intuizione comune è che ci sia una differenza significativa tra le spiegazioni scientifiche ordinarie, che pur utilizzando la matematica, non dipendono da essa in modo fondamentale, e quelle che invece si fondano interamente sulla matematica.

Nel caso di una spiegazione distintamente matematica di un fenomeno empirico, la matematica gioca un ruolo essenziale. Oltre al fatto che la matematica figura in modo imprescindibile nell'esplicazione, il risultato dell'esplorazione deve dipendere, in parte, dalla proprietà caratterizzante della dimostrazione matematica. Alcuni autori, come Steiner (1978b), sostengono che una spiegazione matematica in scienza debba essere preceduta da una spiegazione matematica in matematica. In questo contesto, l'esplorazione extra-matematica sarebbe subordinata alla dimostrazione matematica, con la parte matematica che si collega alla parte fisica grazie alle assunzioni della teoria fisica. Queste assunzioni fungono da ponte tra la matematica e la teoria fisica (Steiner, 1978b, p. 19). Si potrebbe dire che la matematica, nel caso delle spiegazioni scientifiche, emerga "al di fuori" del contesto fisico e si relazioni ad esso solo tramite i principi teorici che ne consentono l’applicazione.

Einstein, nel suo lavoro del 1921, aveva discusso un’analogia simile riguardo alla relazione tra la geometria assiomatica e la geometria pratica, sottolineando come quest'ultima fosse quella utilizzata in fisica, come nel caso delle sue teorie della relatività. La geometria pratica nasce da una definizione coordinata che lega oggetti fisici reali agli schemi concettuali "vuoti" della geometria assiomatica. Anche Lyon e Colyvan (2008, p. 241) hanno una visione simile, suggerendo che una parte della spiegazione extra-matematica provenga dalle stesse dimostrazioni matematiche, a condizione che esistano dei principi di raccordo che colleghino la matematica pura alla sua applicazione scientifica.

Tuttavia, non tutti concordano su questa visione. Baker (2015, pp. 236–239), ad esempio, critica l’idea che le spiegazioni matematiche in scienza debbano essere precedute da una dimostrazione matematica. Secondo lui, è difficile trovare una definizione universalmente accettata di cosa costituisca una dimostrazione esplicativa. Inoltre, una dimostrazione può svolgere un ruolo importante nell’esplicazione scientifica senza essere necessariamente esplicativa di per sé. In definitiva, ciò che conta è che il risultato della dimostrazione matematica partecipi in modo essenziale alla spiegazione scientifica, indipendentemente dal fatto che la dimostrazione stessa sia esplicativa.

Un’altra questione importante riguarda il concetto di "esplanatorietà". All’interno delle dimostrazioni matematiche esplicative, alcune sono considerate più esplicative di altre. Ad esempio, le dimostrazioni più generali sono spesso ritenute più esplicative, in quanto permettono di fare inferenze che si estendono oltre i singoli casi specifici. Questo è noto come "generalità del tema", dove la spiegazione non dipende dal tema specifico, ma solo da alcune caratteristiche che il caso particolare condivide con altri casi simili.