Un intervento percutaneo è una procedura medica che prevede l'introduzione di un ago o di un altro dispositivo attraverso la pelle per trattare una lesione interna o prelevare un campione di tessuto. Questa tecnica, sebbene minimamente invasiva, richiede un’attenta valutazione pre-operatoria per garantire la sicurezza e l'efficacia dell’intervento. Esistono cinque condizioni fondamentali che devono essere soddisfatte prima di eseguire una procedura percutanea, e ciascuna di queste è cruciale per evitare complicazioni e garantire il successo dell’intervento.
In primo luogo, il consenso informato del paziente, o del suo rappresentante, è essenziale. Questo include non solo l'autorizzazione alla procedura stessa, ma anche a eventuali sedazioni coscienti endovenose e alla somministrazione di sangue o prodotti ematici, se necessari. La sicurezza del paziente durante l’intervento e il periodo di recupero post-operatorio devono essere monitorate, soprattutto se esiste un ordine di non tentare la rianimazione (DNR).
Un altro aspetto cruciale è l'analisi del profilo di coagulazione del paziente. Prima di qualsiasi procedura, è fondamentale escludere coagulopatie e correggere eventuali anomalie nei parametri di coagulazione. Le linee guida della Society of Interventional Radiology (SIR) forniscono indicazioni specifiche su come procedere in base al rischio associato alla procedura, che può essere classificata come alta o bassa per quanto riguarda il rischio di sanguinamento. Per esempio, nelle procedure a basso rischio non è necessaria una valutazione routinaria del numero di piastrine o dell'INR, ma se vengono valutati, i valori devono essere corretti.
Inoltre, la preparazione del paziente è essenziale, e la nutrizione del paziente deve essere adeguatamente gestita. Se è prevista una sedazione cosciente, il paziente deve essere a digiuno, con linee guida che raccomandano almeno 2 ore per i liquidi chiari e 6 ore per cibi solidi. Infine, se esiste il rischio che la lesione o la raccolta di fluido sia infetta, è necessario somministrare una copertura antibiotica adeguata, poiché l'intervento percutaneo potrebbe causare una batteriemia transitoria.
Per quanto riguarda i parametri di coagulazione, il paziente deve essere monitorato per identificare rischi legati all'uso di farmaci anticoagulanti o antiaggreganti, come warfarin, aspirina, e altri farmaci simili. Inoltre, la valutazione dei parametri di laboratorio come l'emocrito, il tempo di protrombina, il rapporto internazionale normalizzato (INR) e il tempo di tromboplastina parziale sono tutti fondamentali per l’identificazione di possibili rischi emorragici.
In alcuni casi, il trattamento delle coagulopatie richiede trasfusioni di globuli rossi o l'uso di agenti emostatici, come il plasma fresco congelato o il fattore VII ricombinante, per correggere i parametri anomali. Questo processo è necessario per evitare sanguinamenti significativi, che possono essere complicati in pazienti con malattie epatiche croniche o altre condizioni mediche preesistenti.
Un altro aspetto che non deve essere trascurato riguarda l'uso di farmaci anticoagulanti o antiaggreganti prima di un intervento. In caso di procedure ad alto rischio, spesso è necessario sospendere temporaneamente questi farmaci, ma la durata della sospensione dipende dalle caratteristiche farmacologiche del medicinale. Questo è particolarmente importante in pazienti con stent coronarici, fibrillazione atriale o valvole cardiache meccaniche, dove è necessario un consulto cardiologico per la gestione ottimale dell'anticoagulazione.
Infine, in caso di collezioni di liquido viscerale o setolato nell'addome, la terapia fibrinolitica intracavitaria può essere utilizzata per migliorare il drenaggio. Questa procedura prevede l'iniezione di un attivatore del plasminogeno tissutale (tPA) attraverso il catetere di drenaggio, riducendo i tempi di trattamento e migliorando l'evoluzione clinica del paziente.
Tuttavia, se durante il drenaggio persistono output elevati o cambia la composizione del fluido drenato, è necessario sospettare la presenza di una fistola. In questi casi, un'iniezione di contrasto sotto fluoroscopia può aiutare a identificare la fistola, che potrebbe essere diretta al tratto gastrointestinale, al dotto pancreatico o ad altri sistemi, richiedendo un trattamento appropriato. La fistola può guarire spontaneamente, ma spesso è necessario mantenere il drenaggio per un periodo prolungato, che può durare fino a 4 settimane.
La rimozione del catetere di drenaggio è indicata quando l'output è ridotto a meno di 10-20 mL in 24 ore, il paziente ha migliorato le sue condizioni cliniche e non ci sono altre cause di output ridotto. Tuttavia, in alcune situazioni, come la colecistostomia percutanea o i cateteri transepatici, è necessario un periodo di tempo più lungo per evitare complicazioni come la fuoriuscita di bile.
Le complicazioni maggiori di una biopsia percutanea guidata da imaging (PNB) comprendono emorragie, infezioni, lesioni d'organo, perforazioni intestinali e pneumotoraci. Tra queste, l'emorragia è la complicazione più comune, ma le emorragie clinicamente significative che richiedono trasfusioni sono rare. La frequenza di queste complicazioni dipende dalla tecnica e dalle dimensioni dell'ago utilizzato, oltre alla vascolarizzazione dell'organo o della lesione biopsiata.
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Qual è il rischio di progressione verso il cancro nell'esofago di Barrett, e come deve essere gestito?
L’esofago di Barrett (BE) rappresenta una metaplasia intestinale dell’epitelio esofageo, che si verifica in risposta a un reflusso gastroesofageo cronico. Il rischio di trasformazione neoplastica, sebbene aumentato rispetto alla popolazione generale, rimane basso in termini assoluti nei pazienti con BE non displastico. Le proiezioni dell'incidenza annuale di adenocarcinoma esofageo (EAC) variano dallo 0,1% al 3%, ma la maggior parte degli studi colloca il rischio tra lo 0,1% e lo 0,4% all’anno. Tuttavia, questo rischio aumenta significativamente una volta che si sviluppa displasia.
Nei casi di displasia a basso grado (LGD), la progressione verso il carcinoma si attesta intorno allo 0,54% per anno. Quando si parla di displasia ad alto grado (HGD), il rischio sale tra il 4% e l’8% per anno. Le diagnosi "indeterminate per displasia" comportano un rischio variabile tra lo 0,2% e l’1,2% per anno. L'evoluzione maligna non è immediata, ma progressiva e strettamente legata al grado di atipia cellulare osservata all’istologia.
I fattori di rischio che predispongono alla displasia e alla trasformazione neoplastica includono l’età superiore ai 50 anni, il sesso maschile, la presenza di segmenti lunghi di BE (≥3 cm), l’obesità viscerale e, in alcuni studi, il fumo. L’influenza del tempo sul rischio cumulativo resta incerta, ma non si può ignorare che la cronicità del reflusso e dell’infiammazione mucosa svolga un ruolo di accelerazione nella cascata displasica.
Il trattamento con inibitori della pompa protonica (PPI) ha dimostrato, in studi osservazionali, un effetto protettivo sulla progressione verso la displasia o il carcinoma. L’associazione di statine e aspirina è stata correlata a una riduzione significativa del rischio di adenocarcinoma e HGD, sebbene l’efficacia dell’aspirina da sola non raggiunga una significatività statistica tale da suggerirne l’uso sistematico come strategia preventiva. La fundoplicatio, sebbene efficace nel controllo dei sintomi del reflusso, non ha dimostrato un impatto convincente sulla prevenzione del cancro.
La sorveglianza endoscopica del BE è raccomandata, con intervalli variabili in base alla lunghezza del segmento metaplasico. Segmenti inferiori a 1 cm non richiedono biopsie o follow-up routinari. Segmenti tra 1 e 3 cm vanno rivalutati ogni 5 anni, mentre quelli tra 3 e 10 cm ogni 3 anni. Segmenti superiori ai 10 cm devono essere gestiti in centri specializzati. Pazienti oltre i 75 anni o con aspettativa di vita limitata non dovrebbero essere sottoposti a sorveglianza endoscopica sistematica.
Durante la sorveglianza endoscopica, l’uso della cromoendoscopia virtuale (NBI) è preferibile alla sola luce bianca. NBI consente una visione più dettagliata delle alterazioni mucose, senza costi aggiuntivi, e si è rivelato utile nell’identificare neoplasie precoci. La cromoendoscopia con coloranti, sebbene efficace, viene meno frequentemente utilizzata. L’American College of Gastroenterology raccomanda biopsie a quattro quadranti ogni 2 cm in assenza di displasia e ogni 1 cm nei pazienti con displasia precedente, insieme a biopsie mirate su ogni anomalia visibile.
La diagnosi patologica di displasia, sia LGD che HGD, soffre di una significativa variabilità interosservatore. È indispensabile che ogni diagnosi di displasia venga confermata da un patologo gastrointestinale esperto. La diagnosi di LGD è particolarmente insidiosa: fino al 30% dei casi inizialmente diagnosticati non viene confermato in endoscopie successive, spesso a causa di interpretazioni errate di modificazioni rigenerative. Per questo motivo, una singola diagnosi non è sufficiente per giustificare l’ablazione: è necessaria una conferma istologica di secondo livello.
Nei pazienti con LGD confermata, è raccomandata la terapia con ablazione mediante radiofrequenza (RFA), soprattutto nei soggetti disposti ad accettare i rischi procedurali. La RFA ha mostrato una significativa riduzione della progressione verso HGD o carcinoma rispetto alla sola sorveglianza. Tuttavia, rimangono dubbi sulla durabilità dell’effetto ablativo nel tempo.
Il trattamento dell’HGD richiede un approccio attivo. Data l’
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