Nel 1919, l’esperimento che coinvolse Arthur Eddington e Andrew Crommelin mise in evidenza una delle intuizioni più radicali della teoria della relatività generale: la deflessione della luce da parte della gravità. Eddington, direttore dell'Osservatorio di Cambridge, si recò a Prince Island nel Golfo di Guinea, mentre Crommelin, dell'Osservatorio di Greenwich, partì per Sobral in Brasile. Le eclissi solari erano già considerate occasioni ideali per osservare la deflessione della luce proveniente da stelle lontane, un fenomeno che, se confermato, avrebbe fornito una verifica sperimentale della teoria di Einstein. Durante un’eclissi totale, confrontando la posizione di alcune stelle nel cielo notturno con quelle osservate durante l’oscuramento del Sole, sarebbe stata visibile la curvatura dello spazio-tempo causata dalla presenza del Sole. Se Einstein avesse avuto ragione, la posizione delle stelle sarebbe apparsa lievemente diversa rispetto a quella misurata di notte. Il 29 maggio 1919, la buona notizia giunse alla Royal Astronomical Society tramite un telegramma di Eddington: la deflessione era stata osservata. La notizia fece il giro del mondo, stabilendo la popolarità di Einstein.

La relatività generale non solo dimostra come la luce si pieghi in presenza di masse enormi, ma ci svela un altro aspetto altrettanto affascinante: la gravità influenza anche il passaggio del tempo. Come già avveniva nella relatività ristretta, in cui il movimento altera la percezione del tempo, la presenza di una massa distorce anche il suo scorrere. Più ci si avvicina alla fonte di gravità, come il centro della Terra, più il tempo rallenta. Questo fenomeno è stato verificato in molteplici esperimenti, tra cui quello del sistema di satelliti Galileo, che, trovandosi a 14.000 miglia dalla Terra, sperimenta un tempo leggermente diverso rispetto a quello misurato sulla superficie terrestre.

Per fare un esempio più quotidiano, il mio nonno era solito dire che esistono due cose che aumentano le probabilità di vivere a lungo: portare sempre una castagna in tasca e correre ogni giorno sulla spiaggia di Serapo, la nostra spiaggia a Gaeta, in Italia. Le sue eccentricità meridionali, forse, ma almeno nella seconda affermazione, Einstein avrebbe avuto ragione. Correre, infatti, implica un movimento che rallenta il tempo (relatività ristretta), mentre la vicinanza al centro di gravità della Terra (relatività generale) contribuisce a farlo scorrere più lentamente. Così, nella relatività generale, spazio e tempo, ormai intrecciati, sono cambiati dalla presenza di masse enormi, una concezione che ha rivoluzionato la nostra visione dell’universo.

In effetti, la relatività generale ha introdotto un nuovo concetto di universo come entità dinamica, capace di modificare la sua geometria in risposta alla presenza di materia ed energia. Il risultato è un universo il cui tessuto si deforma, si torce, si ripiega, proprio come un pezzo di stoffa sotto la pressione di un oggetto pesante. Una visione che ha contribuito a risolvere anche il problema della simultaneità della gravità: se il Sole venisse improvvisamente a mancare, lo spazio-tempo che lo circonda si distenderebbe, ma lo farebbe solo dopo un certo intervallo di tempo, proprio come un tessuto che si ripiega. L’informazione riguardo la scomparsa del Sole viaggerebbe alla velocità della luce, e quindi il fenomeno apparirebbe quasi immediato, sebbene in realtà ci vorrebbe tempo per propagarsi.

La velocità della luce, pertanto, non è solo una costante assoluta per le onde elettromagnetiche, ma definisce anche la velocità con cui lo spazio-tempo stesso reagisce e si deforma. La velocità della luce è quindi la misura di come l'universo "reagisce" alla presenza della materia e dell'energia. Un concetto che è stato confermato dalla scoperta delle onde gravitazionali nel 2015, un passo fondamentale che ha fornito nuove prove della teoria di Einstein, confermando che la gravità non è solo una forza, ma una distorsione effettiva e misurabile del tessuto dello spazio-tempo.

Un altro aspetto fondamentale della relatività generale è quello dei buchi neri, oggetti che hanno una deformazione così estrema dello spazio-tempo da intrappolare luce e materia. Al loro centro si trova l’orizzonte degli eventi, una linea di non ritorno oltre la quale nulla può sfuggire. La gravità di un buco nero è così potente da distorcere anche il tempo: un anno trascorso in orbita a pochi metri dall’orizzonte degli eventi di un buco nero come Sagittarius A* (al centro della nostra galassia) corrisponderebbe a circa 11.000 anni sulla Terra. Questo fenomeno straordinario è la dimostrazione più evidente di come la relatività generale ci offre una visione completamente nuova e sconvolgente dell'universo.

Questa prospettiva è stata inizialmente accolta con scetticismo, anche da Einstein stesso, che per molto tempo rifiutò l’idea che i buchi neri potessero essere oggetti reali. Un’altra manifestazione di questa nuova visione è la proposta di Karl Schwarzschild, un altro fisico tedesco, che, durante la Prima Guerra Mondiale, risolse le equazioni di campo di Einstein per descrivere la curvatura dello spazio-tempo attorno a corpi sferici, come pianeti, stelle e buchi neri. La sua soluzione, conosciuta come metrica di Schwarzschild, fornisce il modello fondamentale per descrivere questi fenomeni estremi.

La relatività generale ha permesso di vedere l'universo sotto una nuova luce, rivelando fenomeni nascosti e mettendo in discussione ciò che prima sembrava immutabile. La flessibilità dello spazio-tempo non è solo un concetto teorico, ma ha conseguenze reali e misurabili, che si estendono dalla nostra vita quotidiana alla comprensione dell'universo su scala cosmologica. Una teoria che, come ogni grande rivoluzione scientifica, ci obbliga a rivedere le nostre percezioni più fondamentali e a rimanere aperti alle possibilità che ci attendono.

La Prima Vera Colpa Dopo la Creazione: La Matematica come Chiave della Realtà Fisica

Nel 1960, un articolo di Eugene Wigner intitolato "L'irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali" sollevava una questione fondamentale: che cosa ha a che fare la matematica con la realtà? Che legame esiste tra i simboli matematici e il mondo che ci circonda? Il testo esordisce con un episodio che illustra una reazione tipica di chi non riesce a vedere il rapporto tra la matematica e la realtà fisica. Due amici, un matematico e un suo compagno di scuola, si confrontano sulla natura di alcuni concetti matematici come la distribuzione gaussiana. Quando il matematico introduce il simbolo di pi greco (π), il suo interlocutore non capisce come questo possa essere pertinente al tema che stanno trattando, e si dimostra incredulo: "Come puoi sapere questo? E che cosa rappresenta questo simbolo?" Questa domanda riflette una diffusa frustrazione nei confronti della matematica: un linguaggio che sembra irraggiungibile e che non ha alcuna connessione diretta con la nostra esperienza quotidiana.

Tuttavia, il punto cruciale che Wigner sottolinea è che la matematica è sorprendentemente in grado di descrivere il mondo fisico con una precisione che spesso sfida la nostra comprensione. Le leggi della fisica, infatti, sono esprimibili attraverso equazioni matematiche, e la matematica non solo descrive ciò che osserviamo, ma può anche prefigurare ciò che ancora non conosciamo. Le connessioni che la matematica riesce a scoprire sono talvolta inaspettate, come una sorta di miracolo che svela realtà nascoste dietro i numeri e le formule.

Uno degli esempi più emblematici di questa "miracolosa" capacità della matematica è il lavoro del fisico teorico Paul Dirac. Dirac, noto per la sua solitudine e la sua riservatezza, sviluppò una celebre equazione nel 1928 che riusciva a unificare la meccanica quantistica con la relatività ristretta di Einstein, due teorie che apparentemente erano incompatibili. La sua equazione non solo spiegava il comportamento dell'elettrone, ma ne prevedeva un "gemello", una particella simile ma con energia negativa: il positrone. Questa previsione, apparentemente assurda per la fisica classica, si rivelò corretta quando nel 1932 il fisico Carl Anderson osservò per la prima volta un positrone in un esperimento con una camera a nebbia, guadagnandosi il Premio Nobel per questa scoperta.

Ciò che affascina in questo caso è che Dirac, inizialmente, non riusciva a concepire il positrone come una particella indipendente, ma piuttosto come una "versione invertita" dell'elettrone, esistente in uno stato di energia negativa. L’idea di energie negative sembrava incompatibile con la fisica tradizionale, che assumeva che l'energia fosse sempre positiva. Tuttavia, Dirac ebbe il coraggio di abbracciare questa strana soluzione matematica, e la sua intuizione portò alla scoperta dell'antimateria, un fenomeno che sfidava le concezioni fisiche consolidate.

La realtà dell'antimateria non era solo un'intuizione matematica, ma una previsione che avrebbe potuto essere confermata solo attraverso esperimenti pratici. Questo è un aspetto cruciale del rapporto tra matematica e fisica: la matematica offre una lingua universale per descrivere i fenomeni naturali, ma è l'esperimento che verifica la validità delle teorie proposte. L'antimateria, sebbene fosse stata concepita in modo puramente teorico, è stata scoperta attraverso l’osservazione concreta, un processo che unisce la pura astrazione della matematica alla realtà tangibile degli esperimenti fisici.

La scoperta dell'antimateria non solo ha rivoluzionato la nostra comprensione delle particelle subatomiche, ma ha anche messo in luce il potere insospettato della matematica: quella stessa matematica che, all'inizio, sembrava distante dalla nostra realtà quotidiana, si è rivelata capace di descrivere un mondo che non avevamo mai visto prima. La forza predittiva della matematica, come affermato da Dirac, è una testimonianza della "bellezza" intrinseca che il creatore ha infuso nel tessuto dell'universo, una bellezza che solo attraverso la matematica possiamo sperare di comprendere in parte.

È fondamentale, perciò, comprendere che la matematica non è un linguaggio estraneo o privo di significato, ma un ponte verso una realtà più profonda e nascosta. Ciò che all'inizio può sembrare una formulazione astratta, una mera sequenza di simboli, può rivelarsi un mezzo per descrivere e comprendere fenomeni naturali complessi e sconosciuti. La matematica, con la sua capacità di rappresentare leggi universali, diventa così il vero strumento per esplorare l’universo, un linguaggio che, sebbene distante dalle nostre percezioni quotidiane, è essenziale per la nostra comprensione della natura.

In questo contesto, è importante non perdere di vista il fatto che la matematica non è solo uno strumento tecnico, ma una chiave di lettura per la realtà stessa. La sua "irragionevole efficacia" ci invita a riconoscere che il mondo fisico è governato da leggi precise, spesso esprimibili in termini matematici, ma che la nostra comprensione di queste leggi dipende dalla nostra capacità di interpretarle correttamente e di sperimentarle. La matematica, quindi, non è solo un esercizio intellettuale, ma una porta verso l'infinito, capace di svelare l'essenza stessa dell'universo.

Qual è l'origine della materia e dell'antimateria e perché l'universo è fatto solo di materia?

La scoperta del positrone da parte di Anderson nel 1932 fu un momento decisivo nella fisica moderna. Anderson osservò una particella con le stesse caratteristiche dell'elettrone, ma con una carica elettrica positiva, il che la rendeva un'antimateria: il positrone. Nonostante Anderson fosse ignaro dell'equazione di Dirac, che prediceva l'esistenza di questa particella, la sua intuizione si rivelò esatta, come ammesso dallo stesso fisico britannico, che successivamente dichiarò: "L'equazione è stata più furba di me."

La scoperta del positrone aprì nuovi orizzonti, ma la vera domanda rimase: da dove proveniva questa particella? Gli elettroni sono abbondanti nel nostro mondo, ma i positroni sono difficili da trovare, poiché quando una particella di materia e una di antimateria si incontrano, si annichilano a vicenda, generando una radiazione di luce ad altissima energia, sotto forma di due fotoni. Questo fenomeno rende il positrone sfuggente, poiché ogni volta che entra in contatto con un elettrone, entrambe le particelle vengono annichilate in un istante, lasciando dietro di sé solo energia pura.

Nel caso del positrone osservato da Anderson, la sua origine risiedeva nello spazio profondo. La particella era il risultato di una collisione tra i raggi cosmici provenienti dallo spazio profondo e le particelle atmosferiche, dando vita a particelle instabili che non si trovano normalmente sulla Terra. La teoria di Dirac afferma che la materia e l'antimateria nascono sempre insieme, in coppie. Ma se le due particelle si incontrano, si annichilano immediatamente, cancellandosi a vicenda, come nel caso di un 2x=0, che ha una sola soluzione: x=0. Non esiste una particella "sola", senza la sua antiparticella, salvo eccezioni come i fotoni, che sono loro stessi le antiparticelle.

La scoperta che ogni particella ha la sua antiparticella ha comportato una comprensione fondamentale: materia e antimateria non possono coesistere nel nostro universo. Se l'universo fosse composto da entrambe, non esisterebbe nulla come lo conosciamo. In effetti, il nostro mondo è fatto esclusivamente di materia. Eppure, secondo la teoria di Dirac, non c'è nulla di intrinsecamente speciale nella materia rispetto all'antimateria. I positroni e gli antiprotoni possono formare atomi di antimateria con la stessa facilità con cui si formano atomi di materia.

Nel 1996, i fisici del CERN riuscirono a creare atomi di antimateria, osservando per la prima volta atomi di anti-idrogeno. Tuttavia, isolare questi atomi si è rivelato un compito arduo, poiché, come già accennato, tendono ad annichilirsi non appena entrano in contatto con la materia. Nonostante le difficoltà, l'esistenza di antimateria ha implicazioni enormi. Essa apre teoricamente la possibilità che esistano altri mondi, altri sistemi solari, o addirittura altre galassie composte esclusivamente da antiparticelle. La cosa sorprendente è che l'antimateria si comporta esattamente come la materia quando interagisce con i campi elettromagnetici, il che implica che sia possibile distinguere una galassia fatta di materia da una fatta di antimateria, osservando la sua radiazione luminosa.

Tuttavia, finora, gli scienziati non hanno mai osservato nulla che suggerisca l'esistenza di "antigalassie". Lo spazio tra le galassie non è vuoto, come potrebbe sembrare ad occhio nudo; è pieno di atomi, come l'idrogeno. Se esistessero antigalassie, vedremmo delle brillanti esplosioni nel cielo dovute all'annichilazione reciproca tra materia e antimateria. Ma finora, nulla di simile è stato osservato.

Secondo l'equazione di Dirac, materia e antimateria sono identiche, salvo per la carica. Sebbene non si conosca ancora l'origine dell'universo, le teorie convergono sul fatto che, subito dopo il Big Bang, esistevano quantità uguali di materia e antimateria. In pochi istanti, l'annichilazione di queste particelle avrebbe dovuto svuotare l'universo di tutto ciò che conteneva. Tuttavia, è probabile che qualcosa sia accaduto: un meccanismo sconosciuto che ha permesso a una piccola parte di materia di sopravvivere, mentre l'antimateria veniva annichilita. Come spiegare la predominanza della materia sull'antimateria? Questo è uno dei misteri più affascinanti della fisica moderna.

Michel Cassé, fisico, ha descritto questo scenario come una "genesi" e allo stesso tempo un "omicidio", indicando che metà del cielo è scomparsa, nel senso che metà dell'universo, costituita da antimateria, non è mai arrivata a esistere. Questo squilibrio tra materia e antimateria è ancora un mistero. Il fatto che in un universo primordiale così denso e caldo le particelle di materia e antimateria interagissero costantemente, annichilendosi reciprocamente, suggerisce che qualcosa abbia interrotto questa parità, permettendo a una piccola parte della materia di sopravvivere.

Secondo Andrei Sakharov, fisico russo e dissidente, esistono tre condizioni necessarie affinché questo squilibrio avvenga. La prima è la violazione del numero di barioni, che implica che il numero totale di barioni (particelle come neutroni e protoni) non sia uguale al numero di antibarioni (le loro antiparticelle). La seconda condizione riguarda la violazione delle simmetrie C e CP. La simmetria C afferma che le leggi della fisica devono restare invariate anche se le cariche positive vengono sostituite da cariche negative. La simmetria CP è più complessa e implica una trasformazione sia della carica che della parità, cioè un'inversione spaziale. La terza condizione riguarda il fatto che l'universo non fosse in equilibrio termico, il che è certamente vero per un universo in espansione e raffreddamento.

Sebbene la violazione di simmetrie e la creazione di un eccesso di materia rispetto all'antimateria rimangano misteri da decifrare, la ricerca presso il CERN e in altri laboratori continua, con l'obiettivo di comprendere meglio le forze che hanno permesso alla materia di prevalere e dare origine all'universo che conosciamo.

Perché la gravità è così debole rispetto alle altre forze?

A livello atomico, la forza di gravità ha un effetto praticamente nullo. La gravità, infatti, diventa predominante solo quando le distanze si estendono su scala cosmica. Non vedremo mai un'attrazione percepibile tra la caffettiera e la tazza, perché la forza di gravità è talmente debole che altre forze, come l'attrito, sono molto più significative e finiscono per mascherare l'esistenza stessa della gravità agli occhi nudi. La differenza tra la gravità e le altre forze, ossia il motivo della sua debolezza intrinseca, è uno dei grandi misteri irrisolti della fisica. I fisici chiamano questo "il problema della gerarchia", un enigma che potrebbe avere implicazioni profonde, che al momento ci sfuggono.

Questo mistero potrebbe essere legato al bosone di Higgs, all'esistenza di molteplici universi, o forse a spiegazioni altrettanto affascinanti. Una di queste ipotesi suggerisce che il nostro universo possa avere molte più dimensioni spaziali di quelle che siamo in grado di percepire, come immaginato da alcune teorie fisiche, tra cui la teoria delle stringhe. Non solo quelle legate all'altezza, larghezza e lunghezza, ma anche altre, ben nascoste. In un tale universo ricco di nuove dimensioni spaziali, possiamo immaginare la gravità come una forza che ha un'intensità simile a quella delle altre tre forze, ma nel mondo tridimensionale che sperimentiamo, essa appare debole poiché è diluita su una molteplicità di dimensioni disponibili, visibili e nascoste.

Perché la gravità ha bisogno di una tale diluizione per rimanere così "debole"? Per rispondere a questa domanda, bisogna immaginare come si formano le stelle. Un numero molto grande di protoni deve aggregarsi affinché, nel conflitto tra la forza gravitazionale che attrae e la forza elettromagnetica che respinge, la gravità abbia la meglio e una stella possa nascere. La natura utilizza un trucco per evitare la repulsione elettrica tra protoni. Infatti, nella nube interstellare, che è la madre della stella (e in un certo senso la "nonna" di noi), la stragrande maggioranza dei protoni si trova sotto forma di atomi di idrogeno (un protone e un elettrone), per cui non c'è carica complessiva. In queste condizioni, non si manifesta la repulsione elettrica, e gli atomi vengono attratti tra loro dalla debole forza gravitazionale.

Affinché una stella nasca da questa nube, ci sono vari fattori che devono giocare a favore della gravità. Il primo di questi è che l'agitazione termica della nube, che tende a distruggere la sua struttura, deve essere minima. In altre parole, la nube deve essere molto fredda (a qualche decina di gradi sopra lo zero assoluto). Solo in queste condizioni, la gravità può svolgere la sua funzione di forza organizzatrice senza ostacoli. Qualsiasi piccola concentrazione di gas comincia ad attrarre la massa circostante e innesca un processo di aggregazione che porta a una concentrazione di milioni di atomi. Che questa concentrazione si trasformi in una stella (come il Sole) o in un pianeta (come Giove) dipende dalla quantità di massa nella nube e dalla sua composizione.

A un certo punto, quando la nube diventa sempre più densa, essa diventa opaca, e l'energia gravitazionale rilasciata in questo processo non può più essere irradiata. Il nucleo della nube comincia a scaldarsi sempre di più e, quando raggiunge circa 10 milioni di gradi Celsius, si innescano le prime reazioni di fusione termonucleare, quelle che fanno brillare la stella e la rendono visibile. Se la nube non ha abbastanza massa, niente si innesca. La massa minima degli oggetti celesti che diventano stelle è circa 0,08 volte quella del Sole. Non tutti i corpi gassosi, dunque, sono in grado di accendersi nel buio cosmico.

Un esempio emblematico è Giove. Questo enorme pianeta gassoso, composto principalmente da idrogeno, potrebbe sembrare una stella in potenza, ma la sua massa è troppo piccola per innescare reazioni termonucleari al suo interno. Con una massa pari a 1.321 volte quella della Terra, e una massa complessiva che è due volte e mezzo quella di tutti gli altri pianeti del nostro Sistema Solare messi insieme, Giove è ancora lontano dalla "massa critica" per diventare una stella. Se fosse stato più massiccio, circa 80 volte la sua attuale massa, avrebbe potuto brillare come una stella, anche se la sua luce sarebbe stata comunque debole, come quella di una stella lontana, appena visibile nel cielo.

Dunque, Giove è una stella mancata, una "stelletta" che non è riuscita a diventare tale, ma che si è fermata nel suo cammino, limitata dalla sua massa insufficiente. Questa condizione non solo ci fa riflettere sulla delicatezza dei meccanismi che regolano la nascita delle stelle, ma ci invita anche a pensare più a fondo alla forza di gravità e alla sua debolezza comparativa rispetto ad altre forze. La gravità non è solo la forza che tiene insieme la Terra e il Sole, ma è anche la chiave per comprendere i misteri più profondi dell'universo. Una forza che, pur essendo debole nel nostro piccolo mondo, acquisisce una potenza straordinaria su scala cosmica.

È importante comprendere che la debolezza della gravità, purtroppo, non significa che essa sia di poco conto. La sua debolezza rispetto ad altre forze non ne diminuisce affatto l'importanza; anzi, è proprio nella sua capacità di operare su vasta scala, con l'influenza che esercita sugli oggetti più massicci dell'universo, che risiede il suo valore cruciale. La debolezza della gravità potrebbe essere il risultato di dimensioni spaziali non ancora percepite, o di leggi fisiche che non comprendiamo completamente, ma la sua forza di attrazione è fondamentale per l'evoluzione dell'universo stesso. Nonostante la sua modesta manifestazione nel nostro quotidiano, la gravità governa in modo implacabile le dinamiche dell'universo, dalle stelle alle galassie.