Comprendere come le persone recepiscono e interpretano la geopolitica attraverso la cultura popolare richiede metodi di ricerca qualitativa attenti, complessi e stratificati. Le interviste, i focus group e l’etnografia costituiscono tre approcci fondamentali, ciascuno con specificità proprie e con un diverso potenziale analitico. Ognuno di questi metodi consente di sondare livelli differenti dell’immaginario collettivo e delle pratiche culturali che mediano la comprensione del mondo globale.
Le interviste strutturate, semistrutturate e non strutturate rappresentano gradi diversi di controllo e flessibilità da parte del ricercatore. Quelle strutturate sono basate su domande predefinite e standardizzate, utili per confrontare dati tra intervistati diversi. Le semistrutturate permettono un equilibrio tra una struttura generale e una spontaneità situazionale. Le interviste non strutturate, invece, si affidano completamente alla dinamica del momento: pur essendo pianificate nel tempo e nello scopo, non seguono una traccia rigida, lasciando spazio alle espressioni individuali e agli itinerari discorsivi imprevisti.
La conduzione delle interviste può avvenire in presenza oppure attraverso modalità sincrone o asincrone online, come Skype o email. L'utilizzo del registratore vocale — previo consenso informato — è pratica comune per permettere la trascrizione e l'analisi successiva dei contenuti. Tuttavia, la natura stessa dell’intervista tende a separare il discorso dal contesto quotidiano della fruizione culturale: l’intervistato viene spesso chiamato a riflettere su esperienze che, nel loro consumo reale, non sono vissute in modo riflessivo ma intuitivo o emozionale.
I focus group, invece, introducono la dinamica collettiva nella raccolta dati. Piccoli gruppi di partecipanti discutono un tema sotto la moderazione del ricercatore, che deve saper facilitare il dialogo, gestire tensioni e stimolare interventi. Ciò genera una ricchezza di interazioni e opinioni difficilmente ottenibili in contesti individuali. Il valore del focus group risiede nella possibilità di osservare come opinioni diverse emergano, si confrontino o si rafforzino attraverso l’interazione sociale. L’esempio dello studio sui significati attribuiti alla serie televisiva Homeland ha mostrato come la discussione collettiva possa illuminare la complessità delle percezioni sul terrorismo e sulle rappresentazioni del mondo musulmano.
Tuttavia, entrambe le tecniche — interviste e focus group — si fondano su ciò che i partecipanti dicono, non su ciò che fanno. L’etnografia, al contrario, si basa sull’immersione del ricercatore nella vita quotidiana del gruppo studiato. Qui l’osservazione partecipante consente una comprensione incarnata dei comportamenti, dei significati impliciti e delle pratiche che sfuggono al discorso esplicito. L’etnografo non è solo testimone ma parte del contesto sociale, e la sua presenza, lungi dall’essere neutra, è parte integrante della produzione del sapere.
L’etnografia può avere una declinazione "offline", come nel caso dell’analisi del consumo musicale lungo il confine tra Uzbekistan e Kirghizistan, dove la musica pop locale veicolava narrazioni geopolitiche governative. Ma può anche assumere una forma "online", come l’osservazione dei forum su IMDb riguardo al film Die Another Day, utile per cogliere come le comunità di fan producano, negozino o contestino interpretazioni geopolitiche. Tuttavia, l’etnografia digitale, pur offrendo l’accesso a vasti archivi discorsivi, manca dell'immediatezza esperienziale e della profondità contestuale garantite dall'immersione diretta.
Centrale nell’approccio etnografico è il riconoscimento del ruolo del luogo e della materialità degli eventi nella costruzione del senso geopolitico popolare. Non è irrilevante se la fruizione culturale avviene in un cinema, in una stanza da letto o in uno spazio museale. L’etnografia nei luoghi di consumo — come le fiere aeree militari britanniche — ha mostrato come tali eventi costituiscano vere e proprie performance di celebraz
Come la Rappresentazione dell'Impero Britannico Influenza la Geopolitica Contemporanea
La lotta contro il razzismo, la disuguaglianza e le pratiche imperialiste sta facendo emergere nuove domande sulla memoria storica e sul ruolo che le istituzioni educative, così come le rappresentazioni pubbliche, giocano nel perpetuare o decostruire le narrazioni del passato. L'episodio della protesta #RhodesMustFall, emerso prima nelle università sudafricane e poi nella celebre Oxford, diventa il simbolo di un movimento che cerca di affrontare la complessità dell’eredità coloniale attraverso azioni concrete. La questione non riguarda solo la rimozione di statue o il cambiamento di nomi, ma si inserisce in un dibattito più ampio sul mantenimento delle strutture di potere che originano dall'impero. In questo contesto, il ruolo della rappresentazione gioca un ruolo fondamentale.
Le università sudafricane, come l'Università del Capo, dove è iniziata la protesta, non solo richiedevano modifiche simboliche come il cambio di nomi e la presenza di docenti neri, ma anche una riflessione profonda sul curriculum che, nei fatti, continuava a omettere voci diverse, perpetuando un sistema educativo che affondava le radici nell’impero coloniale. La protesta si è diffusa grazie ai social media, che hanno creato una rete di supporto globale, fino a raggiungere l'Università di Oxford, dove il legame tra l’istituzione e Cecil Rhodes, fondatore della borsa di studio Rhodes, è divenuto un emblema della continua presenza dell'imperialismo nel cuore della cultura accademica europea.
Tuttavia, a Oxford, la proposta di rimuovere la statua di Rhodes ha incontrato la resistenza di ricchi donatori, legati alle stesse élite britanniche che in passato avevano beneficiato del sistema imperiale. Questo contrasto tra le richieste di decolonizzazione e gli interessi economici che sostenevano il vecchio ordine imperialista ci offre un altro aspetto cruciale della questione: l’imperialismo non si limitava a una rappresentazione nelle opere letterarie o nei film, ma era anche un sistema che permetteva l'accumulazione di ricchezza, destinata a pochi, a discapito di molti.
Il caso di Oxford, quindi, mostra non solo la persistente rilevanza delle rappresentazioni imperialiste, ma anche come queste siano intrecciate con strutture di potere economico e politico. Le lotte per le statue, per il cambiamento di nomi e per un curriculum più inclusivo sono simboli di una battaglia per riconoscere e modificare le strutture disuguali che continuano a influenzare la vita di molti. La decolonizzazione delle menti e delle istituzioni passa anche attraverso la decostruzione di narrazioni dominanti che, spesso senza essere esplicitamente enunciate, modellano profondamente le nostre percezioni del mondo.
Le rappresentazioni delle potenze imperiali, come quelle della Gran Bretagna, sono dappertutto, anche nei film e nella letteratura. James Bond, in particolare, si è evoluto come icona che non solo rappresenta la Gran Bretagna, ma il potere globale che essa ha esercitato, anche dopo la fine dell'impero. "Skyfall" evidenzia come le sfide morali e psicologiche del protagonista siano il prezzo da pagare per mantenere un potere imperiale che, nel contesto contemporaneo, ha smesso di essere un impero tradizionale per divenire una presenza invisibile ma ancora pervasiva.
Un altro elemento che emerge da questa riflessione è la distinzione tra i luoghi "interni" ed "esterni" al dominio britannico. Nelle narrazioni dominanti, spesso non si percepisce come le disuguaglianze legate all’impero siano ancora ben radicate nei luoghi considerati decolonizzati. Le richieste degli studenti sudafricani e di Oxford non sono isolate: sono un riflesso di una battaglia globale per riconoscere le radici di potere che continuano a influenzare l’educazione, la cultura e le istituzioni.
Alla luce di tutto ciò, è importante comprendere che la rappresentazione non è solo una questione estetica o simbolica. È una costruzione di potere. La capacità di influenzare le percezioni collettive di luoghi e persone è ciò che rende una rappresentazione dominante. Ma questa "lotta per il significato" non è unilaterale. Essa dipende dal potere reciproco che si esercita tra produttori e consumatori di rappresentazioni. L'emergere di una rappresentazione come quella dell'Impero Britannico non è solo il risultato delle azioni di pochi potenti, ma anche di una certa adesione da parte della massa, che spesso accetta queste rappresentazioni perché giustificano un sistema di disuguaglianza o perché si adattano ai propri pregiudizi.
In definitiva, il movimento #RhodesMustFall e altre iniziative simili ci insegnano che l'imperialismo, lungi dall'essere solo una questione storica, è un elemento vivo e presente che si riflette nelle istituzioni, nella cultura popolare e nei sistemi educativi. La lotta contro di esso non è solo una battaglia per cambiare simboli, ma per comprendere come e perché certe rappresentazioni continuano a "prendere radici" nel nostro immaginario collettivo, influenzando il modo in cui vediamo e viviamo il mondo.
Come si costruisce l’identità nazionale americana attraverso il mito di Captain America negli anni ’50 e ’70?
La rappresentazione storica degli Stati Uniti negli anni Cinquanta è complessa e sfugge a una semplice dicotomia tra bene e male, come illustrato nel film Pleasantville del 1998, che propone un’immagine repressiva di quell’epoca. Nel mondo dei fumetti, tuttavia, la narrazione segue spesso convenzioni più nette: due Captain America di epoche diverse si scontrano, e il “vero” Captain America trionfa, eliminando così quel periodo “scomodo” dalla narrazione seriale dell’America, mantenendo intatta un’identità nazionale moralmente pura.
Questa battaglia simbolica tra due Captain America permette di collegare ideologicamente il nazismo e la caccia alle streghe anticomunista (red-baiting), accomunandoli sotto la categoria di “anti-americani”. Nel 1979, la narrazione si evolve includendo il razzismo come parte integrante di questo “altro” negativo. La figura di Sharon Carter, agente segreto e fidanzata di Captain America, investigando sull’organizzazione National Force — che indossa cappucci del Ku Klux Klan e simboli nazisti — mette in luce come il razzismo radicale e la lotta per la segregazione siano inseriti in questa categoria negativa. In una manifestazione a Central Park, la National Force riesce a convertire alcuni bianchi protestanti al loro odio, con Sharon stessa che, presa dalla folla, viene manipolata per diventare una loro sostenitrice.
Captain America scopre che a capo della National Force c’è il cosiddetto Grand Director, un uomo che incarna un’estrema visione purista della nazione: “L’unico modo per assicurare la forza dell’America è renderla pura! Perché un’America bianca è un’America forte!” Questa retorica echeggia apertamente il linguaggio nazista e razzista, rafforzata dall’esplicito richiamo di Captain America al suo impegno “fin dai giorni di Auschwitz e Treblinka.” Il conflitto tra la National Force e la comunità afroamericana di Harlem è fermato solo dall’intervento delle autorità, mentre la scoperta finale rivela che il Grand Director altro non è che il Captain America degli anni ’50, simbolo della paranoia e dell’intolleranza di quel decennio.
Attraverso questa vicenda si collega la caccia alle streghe di McCarthy e l’opposizione ai diritti civili a un’unica immagine negativa, accomunandoli anche al nazismo. Il razzismo viene così collocato fuori dal “vero” America, che si presenta come impegnata nel multiculturalismo. Nazismo e razzismo, pur non essendo identici, sono indistinguibili all’interno di questa narrazione nazionale, come nemici assoluti della libertà. Inoltre, la corruzione e l’intolleranza sono presentate come fenomeni esterni al nucleo autentico americano: la paranoia del Captain America degli anni ’50 è indotta da droghe, mentre il razzismo della National Force deriva dal controllo mentale del perfido Dr. Faustus, suggerendo che nessuno, neanche i suoi stessi membri, è libero o completamente responsabile delle proprie azioni.
Questa narrazione lascia la storia americana moralmente intatta, nonostante la complessità e le contraddizioni della lotta per i diritti civili. Nel cinema contemporaneo, come nel Marvel Cinematic Universe, la figura di Captain America viene rinnovata e resa più accessibile, ma i temi di fondo restano: la lotta tra libertà e fascismo continua, anche se ora l’“antiamericano” può essere rappresentato da un’agenzia governativa corrotta come SHIELD, infiltrata dall’organizzazione HYDRA. Captain America si erge ancora una volta come simbolo della resistenza contro le forze che vogliono “purificare” la nazione attraverso la violenza e il controllo.
Le narrazioni nazionali non solo raccontano la storia di un paese, ma sono essenziali per comprendere noi stessi. Ognuno si riconosce in un ruolo all’interno di queste storie, e queste influenzano il modo in cui interpretiamo il mondo e la nostra identità. Il mito di Captain America funge da lente per esaminare i mutamenti sociali e politici degli Stati Uniti, costruendo un’immagine di un’America ideale che resiste ai propri lati oscuri.
La costruzione della nazione avviene attraverso la serialità dei media di massa, che propongono episodi della “vita nazionale” a milioni di persone, creando un senso di coesione attraverso la cultura popolare. Questa co-produzione tra identità nazionale e cultura popolare permette discussioni e riflessioni collettive sul significato di essere americani, pur mantenendo ambiguità e tensioni irrisolte.
La narrazione nazionale implica sempre un processo di selezione e rimozione. Non tutte le verità trovano posto nella storia ufficiale; alcune sono rimosse o attribuite a “esterni” per preservare la purezza del racconto principale. Il racconto del Captain America degli anni ’50 illustra come si gestiscano queste verità scomode, esternalizzandole per mantenere intatta l’identità nazionale ideale.
È fondamentale comprendere che le narrazioni sulla nazione non sono mai neutrali o esaustive: si tratta di costruzioni culturali che riflettono e influenzano le tensioni sociali, le lotte di potere e i desideri collettivi. La distinzione tra “vero” e “falso” America, tra eroi e nemici, è spesso funzionale a rassicurare e legittimare una visione unitaria e moralmente coerente della nazione, nonostante le molteplici contraddizioni e conflitti reali.
Come la diplomazia digitale trasforma la geopolitica: conflitti, mash-up e droni
La diplomazia digitale si è ormai affermata come un elemento cruciale nel modo in cui gli Stati comunicano e si confrontano nel panorama internazionale contemporaneo, pur rimanendo un terreno di tensioni inedite e di rottura rispetto alle norme diplomatiche tradizionali. Un esempio emblematico è rappresentato dallo scambio cartografico tra la missione russa presso la NATO, che, sebbene sembri una contesa piuttosto blanda secondo gli standard della comunicazione online, costituisce invece un evento insolito e rilevante dal punto di vista diplomatico. In questo contesto, l’uso di Twitter da parte di figure istituzionali, come l’ex presidente degli Stati Uniti, rappresenta un vero e proprio spartiacque. Trump ha infatti portato nella politica internazionale un linguaggio e uno stile aggressivi, non mediati dai tradizionali canali diplomatici, provocando frequenti imbarazzi e scompensi nella conduzione della politica estera americana. Le sue esternazioni, spesso dirette e irriverenti – come gli epiteti rivolti al leader nordcoreano Kim Jong-un – mostrano quanto la comunicazione digitale possa deviare in maniera radicale dalle consuetudini diplomatiche consolidate.
Tuttavia, la dimensione statale della diplomazia digitale è soltanto una piccola parte di un fenomeno più ampio, che coinvolge la sfera pubblica internazionale resa accessibile dalle piattaforme sociali. L’abbattimento delle gerarchie comunicative consente infatti a cittadini comuni di intervenire attivamente in questioni geopolitiche complesse. Un caso esemplare è quello delle Isole Falkland/Malvinas, un territorio conteso tra Regno Unito e Argentina, dove la disputa è stata alimentata anche attraverso campagne mediatiche virali. Un video pubblicitario argentino, girato segretamente nelle Falkland, è diventato virale su YouTube e ha suscitato reazioni infuocate non solo da parte dei governi coinvolti ma anche da organizzazioni internazionali come il Comitato Olimpico. L’utilizzo di queste piattaforme ha così amplificato la disputa, mostrando come i media digitali possano diventare terreno di guerra simbolica e propaganda, dando voce a narrazioni contrapposte e modelli di legittimazione territoriale.
La risposta creativa degli abitanti delle Falkland ha portato alla diffusione di un mash-up che reinterpreta il video originale con elementi simbolici britannici, trasformandolo in un dispositivo di memoria e resistenza culturale. Questa pratica di rimescolamento e ricontestualizzazione dei contenuti digitali rappresenta una forma di "cittadinanza statale" partecipativa, in cui individui comuni possono influenzare discorsi geopolitici attraverso strategie di comunicazione innovative.
La portata della trasformazione digitale, però, si estende oltre la sfera della rappresentazione e della comunicazione. Le stesse infrastrutture tecnologiche che consentono la diffusione globale di contenuti mediatici e il gioco interattivo online, come Fortnite, sono alla base di sistemi militari avanzati come i droni armati. Questi dispositivi,
In che modo la cultura popolare costruisce l'identità nazionale attraverso la geopolitica critica?
Nel contesto della geopolitica critica, la cultura popolare non è un semplice riflesso delle realtà politiche o sociali, ma un potente strumento di produzione simbolica e affettiva che modella le percezioni collettive del mondo, dell'altro e di sé. Lontano dall'essere marginale o decorativa, essa costituisce una vera e propria arena di formazione identitaria e di esercizio del potere. Film, serie televisive, videogiochi, letteratura e social media sono spazi dove si negoziano, si rinforzano e si contestano rappresentazioni della nazione, del nemico, della guerra, della memoria e dell’etica.
L’identità nazionale, lungi dall’essere una realtà fissa o essenziale, si costruisce attraverso narrazioni reiterate che danno senso al passato, orientano il presente e legittimano determinati progetti futuri. Queste narrazioni sono stratificate, conflittuali, e si esprimono tanto attraverso dispositivi ufficiali quanto attraverso pratiche quotidiane e popolari. La costruzione narrativa della nazione è quindi un atto performativo, che opera mediante immagini, racconti, e affetti condivisi. La cultura popolare, in questo senso, agisce come un dispositivo geopolitico che rende naturali e desiderabili specifiche visioni del mondo.
Le rappresentazioni cinematografiche, come quelle della saga di James Bond, offrono un esempio paradigmatico: l’eroe anglosassone, razionalmente superiore, eticamente giustificato, si muove in uno spazio internazionale che riflette gerarchie di potere, minacce esotiche, e valori occidentali universalizzati. L’ideologia sottesa è quella della legittimità dell’intervento, del controllo, della difesa di un ordine precostituito. Queste narrazioni non solo intrattengono, ma formano l’immaginario geopolitico collettivo, giustificando interventi militari, rafforzando stereotipi e normalizzando pratiche imperiali.
Allo stesso modo, i videogiochi a tema militare, che si inseriscono pienamente nel complesso militare-industriale-mediatico (MIME), contribuiscono a una naturalizzazione della guerra, alla spettacolarizzazione della violenza e alla produzione di soggettività patriottiche. Il giocatore è immerso in un’esperienza performativa in cui l’azione bellica non solo è giustificata, ma è desiderata, celebrata, premiata. La guerra diventa così intrattenimento, consumo, routine cognitiva. L’interattività e l’estetica immersiva dei media digitali non fanno che rafforzare l’efficacia affettiva di queste narrazioni.
La geopolitica popolare si fonda su immaginari geografici che definiscono confini morali e spaziali: chi appartiene alla nazione, chi è minaccia, chi è vittima. Attraverso queste geografie immaginate si riproducono costantemente categorie identitarie (noi/loro), si organizzano le emozioni pubbliche (paura, orgoglio, nostalgia) e si rende operativa una visione del mondo gerarchica e spesso dicotomica. L’"altro" è costruito in modo funzionale alla coesione interna, alla mobilitazione emotiva e all’autoaffermazione nazionale.
Questa costruzione simbolica si intreccia con processi materiali e istituzionali. L’industria dell’intrattenimento non agisce in modo autonomo, ma è interconnessa con strutture di potere, apparati militari, dinamiche economiche globali. La produzione culturale è così un campo di battaglia per l’egemonia: le immagini non sono mai neutre, ma veicolano interessi, ideologie e rapporti di forza. Le rappresentazioni della guerra, dell’identità, della memoria sono quindi sempre anche rappresentazioni del potere.
È in questo orizzonte che diventa cruciale interrogarsi sul ruolo dell’etica. Le tecnologie militari, sempre più integrate nella cultura popolare, pongono sfide etiche inedite, in particolare quando la linea tra reale e virtuale si dissolve. I droni, la guerra interattiva, la sorveglianza digitalizzata trasformano il cittadino in spettatore, giocatore, complice. L’ethos militarizzato si inserisce nella quotidianità, si fa cultura, consumo, abitudine. Il consenso viene così costruito non attraverso la coercizione, ma tramite il desiderio e l’identificazione.
È fondamentale comprendere come l’identità non sia un’essenza ma un processo, un assemblaggio instabile di affetti, rappresentazioni e pratiche. Essa si produce nella relazione con l’altro, si negozia nello spazio culturale, si esprime nel linguaggio, nelle immagini, nei gesti. In questo senso, la soggettività non è un dato, ma un’esigenza narrativa, una costruzione situata. Il sé networked, immerso in ambienti digitali e flussi transmediali, è insieme produttore e prodotto di queste narrazioni geopolitiche.
Va inoltre considerato che la memoria e il patrimonio (heritage) operano come vettori temporali della geopolitica culturale. I memoriali, i film storici, le celebrazioni nazionali non solo ricordano, ma selezionano, gerarchizzano, politicizzano il passato. La temporalità del patrimonio è sempre strategica: rende visibili certi eventi e ne oscura altri, consolida identità collettive e orienta le emozioni pubbliche. In questo senso, la temporalità è una forma di governo.
Importante è anche la riflessione sul linguaggio
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