Nel futuro del giornalismo anglofono, sarebbe stato necessario costruire sulle intuizioni di Berkenhead, che aveva già minato la distinzione tra volantino e notizia. Il concetto di "essere veritieri" aveva suggerito una neutralità che i giornalisti erano disposti a rivendicare, ma questa sfocatura rendeva tale posizione problematica. La retorica della "verità" li voleva come "trascrittori" di realtà verificabili, piuttosto che venditori di opinioni. Anche quando loro stessi erano testimoni diretti degli eventi, affermavano di essere distaccati, "mosche sulle pareti piuttosto che mosche nella zuppa", come si diceva all'epoca. Questo atteggiamento di osservatore distaccato serviva generalmente a legittimare il reportage, sebbene si notasse una certa affinità con lo spionaggio, quando gli "intelligencers" (giornalisti) emersero nel XVII secolo come operativi distinti dai tipografi. Alla fine del secolo, la neutralità divenne un elemento consolidato nella rivendicazione della verità.
Joseph Addison, nel 1711, parlava con leggerezza di questa posizione, usando la voce di "Mr. Spectator" nel primo numero della sua rivista (e di Richard Steele), dicendo: "Vivo nel mondo come uno spettatore dell'umanità piuttosto che come uno della specie". Ma questa negazione della soggettività è un'altra presunta verità del giornalismo che non regge a troppa analisi. Berkenhead e Needham, tuttavia, erano più come elefanti nella stanza che mosche sulle pareti. Invece della neutrale voce editoriale in terza persona di Pecke, che si pensava fosse inevitabile se si voleva mantenere una parvenza di imparzialità, entrambi usavano la prima persona e un modo di comunicare colloquiale e accessibile, che permeava i loro scritti. Needham utilizzava il doppio delle "I" e "noi" rispetto a Berkenhead. Un esempio: dopo la sconfitta del re nella battaglia di Marston Moor nel 1644, Berkenhead sminuì un rapporto dei Roundhead che affermava che erano stati catturati 10.000 armamenti: "La lettera del Capitano Hamilton dice 3.000, voi potreste dire 3 milioni, e farlo votare come vero". Needham non era impressionato: "Berkenhead dice che raccontiamo bugie... pensavo che non aveste tempo di vedere le nostre bugie, dato che siete così occupato a inventare le vostre."
La soggettività esplicita sotto forma di invettive personali non divenne una pratica comune nella stampa inglese durante i periodi di pace, ma un altro tipo di soggettività, sotto forma di opinioni editoriali in stile pamphlet, sì. Needham, infatti, inseriva spesso nelle sue pagine opinioni personali, come nel caso in cui si domandava dove fosse il re Carlo: "Dove è finito? La strana varietà di opinioni non lascia nulla di certo... alcuni dicono che, quando vide la tempesta avvicinarsi a Bridgewater, fuggì in Irlanda con la sua amata... Sì, dicono che fuggì dal suo regno in maniera molto maestosa". Berkenhead non poté fare altro che rispondere a questa scandalosa "grida e ricerca" con una critica puerile: che Needham avesse scritto Britannicus con due "n". Ma queste piccole polemiche non potevano fermare il Marchmont. Gli eventi stavano giocando contro Berkenhead. Di fronte alla debolezza della posizione di Carlo, Berkenhead formulò un approccio simile a quello di Trump nei confronti delle notizie negative: gridava "falsità", "false informazioni", "bugie" ad ogni angolo.
L’Aulicus cessò la pubblicazione nel 1645, quando la finzione di neutralità divenne insostenibile dopo la rovinosa sconfitta di Naseby. Nonostante il lato di Needham stesse vincendo, il suo approccio innovativo, che smantellava il giornalismo tradizionale, lo metteva comunque in difficoltà. La sua chiamata scherzosa a una "grida e ricerca" per catturare il re fu giudicata troppo irriverente dai pari più conservatori del Parlamento. La sua carriera durante il periodo di incertezze dopo Naseby lo vide cambiare schieramento più volte, con la sua veemenza oratoria sempre intatta, qualunque fosse il suo padrone. Ogni volta, veniva salvato dalla sua penna, considerato troppo efficace per essere ignorato.
Nel 1646, fu imprigionato e il Britannicus fu bandito per un altro editoriale troppo "scomodo". Un anno dopo, ignorando che i venti stavano soffiano in modo irriversibile verso il Parlamento, cercò di rimettersi nelle grazie del re, che era tenuto prigioniero a Hampton Court. Subito dopo, creò un periodico di propaganda realista, il Mercurius Pragmaticus, con storie sensazionali, come quella dei battisti che tagliavano la gola ai loro neonati per assicurarsi che andassero in paradiso. Dopo l'esecuzione del re, Needham fu catturato dai puritani nel maggio del 1649 e, mentre rifletteva in prigione, decise di tornare dalla parte del Parlamento, sostenendo Cromwell e la Commonwealth. Nel 1650, con Milton come censore, gli fu concesso il monopolio delle notizie, lanciando il Mercurius Politicus. Tuttavia, il suo comportamento ribelle continuò a spingere oltre i limiti, e nel 1660, ammonì che il figlio del re esiliato, Carlo Stuart, stava cercando di vendicare l'esecuzione di suo padre. Questo fu l'ultimo capitolo della carriera giornalistica di Marchmont.
Il futuro del giornalismo anglofono non fu mai così semplice come una lotta tra verità e falsità. Piuttosto, si trattava di navigare su una linea sottile tra osservazioni triangolate e immaginazioni sempre più distaccate dalla realtà. La verifica delle informazioni, purtroppo, non divenne mai una pratica obbligatoria. In effetti, il "fake news" aveva cominciato a diventare parte integrante delle notizie stesse, una sfocatura che ancora oggi rappresenta una delle principali problematiche del giornalismo. Needham, pur non essendo un giornalista imparziale, divenne una delle figure fondamentali nella storia del giornalismo inglese, un autore di una brillantezza vivida e in grado di parlare la verità al potere con un'efficacia innovativa. La sua carriera ci insegna quanto sia complessa e a volte pericolosa la relazione tra il giornalismo e la verità.
L'illusione del giornalismo obiettivo: un'analisi critica
Il giornalismo obiettivo è un concetto che ha radici profonde nella tradizione dei media occidentali. L’idea che il giornalista debba essere imparziale e distaccato è stata una pietra angolare della professione per decenni. Tuttavia, nonostante questa visione sia ancora largamente diffusa, la sua applicabilità è diventata oggetto di crescente critica, soprattutto quando si esaminano le complessità insite nella pratica giornalistica.
Un rapido sguardo ai risultati di una semplice ricerca su Google, come quelli ottenuti nel febbraio 2020, ci fornisce un quadro che riflette la continua presenza di questa ideologia, ma anche una sua messa in discussione sempre più evidente. In mezzo a lodi per il giornalismo obiettivo, spuntano articoli che criticano direttamente questo approccio, come quello in cui alcuni studenti di Harvard protestano contro il giornalismo obiettivo, accusandolo di mettere a rischio la sicurezza degli studenti non documentati. Questa tensione riflette un problema che sta emergendo nella società: se il giornalismo debba essere oggettivo, o se invece debba assumersi la responsabilità di un punto di vista più esplicito e soggettivo.
Dal punto di vista teorico, l'idea di un giornalismo perfettamente obiettivo sembra attraente: un giornalista che lascia da parte opinioni personali, pregiudizi e convinzioni, fornendo una narrazione puramente "fatta di fatti". In questo modello ideale, la neutralità, l’imparzialità e l’equità sono i principi guida. Ma, come vedremo, questo modello è fondamentalmente illusorio.
Il problema centrale risiede nel fatto che l’oggettività giornalistica non è semplicemente difficile da raggiungere: è, nella pratica, impossibile. Gli esseri umani, per la loro natura, sono sempre soggetti a influenze, pregiudizi e interpretazioni, anche quando cercano di rimanere neutrali. Nessuna persona è in grado di scrivere o raccontare una storia senza che il proprio punto di vista, anche inconsciamente, influenzi la narrazione.
Inoltre, anche se immaginassimo una macchina, un robot, in grado di redigere un articolo "oggettivo", emergerebbero comunque dei limiti. Anche un'ipotetica macchina, pur priva di emozioni o inclinazioni personali, non potrebbe accedere a tutte le informazioni possibili o confermare ogni dettaglio in modo assolutamente certo. I vincoli pratici sono evidenti: i giornalisti operano in un contesto in cui le informazioni sono parziali e le fonti non sempre verificabili. Non possono, ad esempio, replicare il rigore della scienza o il procedimento giuridico di un interrogatorio sotto giuramento.
Un altro aspetto che raramente viene messo in discussione è il processo stesso di selezione delle notizie, che è un atto intrinsecamente soggettivo. Prendiamo, ad esempio, il concetto di "gatekeeping", che si riferisce al lavoro degli editori di decidere quali storie verranno pubblicate e quali no. Questo processo, che dovrebbe teoricamente garantire una selezione imparziale delle notizie, è in realtà influenzato da una serie di fattori soggettivi: dal background dell'editore alle sue inclinazioni politiche. Non solo, ma il materiale che arriva alla redazione è già stato filtrato, selezionato e interpretato in vari stadi della sua diffusione. La selezione delle notizie è, dunque, per sua natura parziale.
Esiste inoltre un altro livello di complessità che riguarda il "contesto" in cui le notizie vengono raccontate. Immaginate un giornale che racconta ogni storia in modo perfettamente imparziale, con l'intento di essere giusto e equo. Tuttavia, se tutte le storie trattano tematiche che mettono in luce i difetti di un partito politico e i successi di un altro, la somma di queste storie non sarà più obiettiva. Il giornale, pur raccontando ogni storia in modo "giusto", finirà per sostenere implicitamente una visione del mondo piuttosto che un’altra.
La critica all’oggettività nel giornalismo non è nuova, ma negli ultimi anni ha acquisito una nuova urgenza. Ci si rende conto che non solo l’oggettività è difficilmente raggiungibile, ma che il suo perseguimento potrebbe anche rivelarsi problematico, perché rischia di ignorare la realtà complessa e sfaccettata dei fatti. I lettori, spesso, si aspettano una narrazione che tenga conto delle prospettive diverse, che esplori le contraddizioni e che non si limiti a un’idea di "verità" univoca e immutabile.
Alla luce di questi interrogativi, diventa fondamentale per chi pratica il giornalismo, e per chi ne usufruisce, comprendere che l’oggettività assoluta è un mito. Questo non implica che il giornalismo debba diventare completamente soggettivo o parziale, ma che si debba riconoscere e affrontare apertamente la soggettività come parte integrante della narrazione. L’informazione non è mai completamente neutrale: è sempre influenzata dal punto di vista di chi la racconta, dalle scelte editoriali, dal contesto culturale e sociale in cui avviene la produzione e la diffusione delle notizie.
In definitiva, l’idea di un giornalismo perfettamente oggettivo è destinata a rimanere una costruzione ideale, non raggiungibile nella pratica quotidiana. Il giornalismo, come ogni altra attività umana, è permeato di soggettività e non c'è nulla di male in questo, a condizione che ci sia consapevolezza di queste dinamiche e che si lavori per raccontare il mondo in modo il più possibile onesto e approfondito.
Come la descrizione “spessa” ci aiuta a comprendere meglio i conflitti e le tradizioni in antropologia e giornalismo
L’analisi delle pratiche sociali, delle tensioni e dei conflitti nelle comunità umane ha sempre affascinato gli studiosi delle scienze sociali, ma l’approccio attraverso il quale questi fenomeni vengono descritti può variare notevolmente. Quando l’antropologo Clifford Geertz esplora le tradizioni delle lotte tra galli a Bali, ad esempio, non si limita a registrare i fatti, ma li inserisce in una rete simbolica e culturale che li rende comprensibili in relazione a una serie di temi comuni, come la violenza animale, il narcisismo maschile, la rivalità per lo status, e il sacrificio di sangue. Questi eventi non sono semplici manifestazioni di furia, ma sono parte di un sistema di significati più ampio, in cui la rabbia e la paura di essa sono temi centrali, che legano insieme azioni, simboli e regole che governano il comportamento umano.
Il lavoro di Geertz si distingue per l’abilità di presentare questi temi in modo chiaro e accessibile, evitando il linguaggio tecnico tipico delle scienze sociali, come "agnate", "fratria" o "gens". La sua scrittura è lucida ed elegante, accessibile a un pubblico non specialistico pur mantenendo una profondità analitica. In tal senso, il suo approccio si avvicina al giornalismo d’inchiesta, dove il reporter non solo raccoglie informazioni, ma cerca di inserire i fatti all’interno di una visione d’insieme, rendendo chiara la relazione tra gli eventi osservati e i contesti più ampi in cui si inseriscono. Sebbene il suo lavoro antropologico assuma spesso una connotazione "scientifica", la sua capacità di raccontare storie rende il suo approccio affine a quello del giornalista impegnato, che narra la realtà attraverso una prospettiva arricchita dalla propria esperienza e soggettività.
Geertz offre una prospettiva che sfida le convenzioni dell’antropologia tradizionale, separandosi dal modello di osservazione oggettiva e distaccata che si è consolidato nel corso degli anni. Tuttavia, anche in questo contesto, l'antropologo non può sfuggire completamente alla questione della soggettività. Sebbene la sua partecipazione diretta agli eventi gli consenta di accedere a una conoscenza profonda e "intima" delle pratiche balinesi, non è immune dal rischio di distorcere o semplificare certe dinamiche culturali, così come accade spesso anche in campo giornalistico. La preoccupazione principale per un antropologo che osserva una società, soprattutto se appartenente a una cultura diversa dalla propria, è quella di non imporre categorie che possano limitare la comprensione delle pratiche osservate.
Questa problematica viene ben esemplificata dal caso dell'antropologo Napoleon Chagnon e della sua celebre etnografia sui Yanomami. Chagnon ha descritto i Yanomami come "popolo feroce", un termine che ha suscitato non poche polemiche e critiche. Altri antropologi, infatti, hanno messo in discussione questa visione, mostrando che la comunità Yanomami non è affatto pervasa dalla violenza che Chagnon aveva descritto, ma vive in modo relativamente pacifico. Il film documentario "The Ax Fight" (1971), realizzato da Chagnon insieme al cineasta etnografico Timothy Asch, illustra quanto possano essere ambigue le letture delle pratiche sociali. Sebbene il film tenti di spiegare la causa di un conflitto all’interno di una comunità Yanomami come un effetto di strutture familiari e di discendenza, molti dettagli rimangono oscuri e interpretati secondo un punto di vista che enfatizza la violenza.
Un punto critico del film è che, pur cercando di spiegare la causa del conflitto attraverso la sua connessione con le linee di discendenza, non fornisce una visione "spessa" della realtà. Al contrario, la visione è "sottile" perché si concentra su una sola interpretazione e, in molti casi, ignora le complessità emotive e culturali che potrebbero influenzare il comportamento osservato. Le etichette utilizzate nel commento, come "colpi" o "tremori di rabbia", non sono supportate dalle immagini, lasciando il pubblico con una comprensione parziale e, potenzialmente, fuorviante degli eventi. La "spessore" della descrizione, come la intende Geertz, è la capacità di inserire un fenomeno in un contesto ricco e stratificato che ne rivela il significato profondo, lontano dalle semplificazioni riduttive.
Per comprendere appieno le dinamiche in gioco in qualsiasi cultura, è essenziale non solo osservare gli eventi, ma anche esplorare il significato che i partecipanti attribuiscono alle loro azioni. Un antropologo o un giornalista deve essere consapevole del rischio di distorcere la realtà con pregiudizi culturali o preconcetti. La descrizione "spessa" è quindi un tentativo di approfondire, non solo di riportare i fatti, e di restituire al pubblico una comprensione più completa della realtà sociale e psicologica che si sta indagando.
Infine, non bisogna mai dimenticare che la comprensione di un fenomeno culturale o sociale non può prescindere dalla consapevolezza delle proprie limitazioni interpretative. Né gli antropologi né i giornalisti possono pretendere di possedere una verità assoluta. Piuttosto, l’obiettivo dovrebbe essere quello di rendere accessibile e comprensibile la molteplicità di significati che animano le pratiche sociali, senza cadere nell’errore di ridurle a mere manifestazioni superficiali o a stereotipi.
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