Nel 2017, quando Donald Trump decise che gli Stati Uniti avrebbero ritirato la loro adesione all'Accordo di Parigi sul clima, la sua scelta suscitò un ampio dibattito a livello mondiale. La giustificazione ufficiale fu che l’accordo era economicamente svantaggioso per gli Stati Uniti, un paese che, secondo Trump, non doveva più essere costretto a subire restrizioni climatiche a favore di altre nazioni che non rispettavano gli stessi standard. L'idea centrale era che gli Stati Uniti, già un leader mondiale in termini di protezione ambientale, non dovessero essere penalizzati a favore di paesi come la Cina, che avrebbe potuto continuare ad aumentare le proprie emissioni per anni senza alcuna penalizzazione significativa. Trump contestava, in particolare, la facilità con cui la Cina avrebbe potuto costruire nuove centrali a carbone e l'assenza di obblighi reali per altre economie emergenti, come l'India.

La decisione di Trump di abbandonare l’accordo ha avuto implicazioni globali, non solo per gli Stati Uniti, ma anche per altre nazioni come l'Australia. Il ritiro degli Stati Uniti ha dato nuova linfa alle politiche climatiche che negavano la necessità di un cambiamento sostanziale nelle energie fossili, promuovendo invece un approccio favorevole al fracking e all'espansione della produzione di gas naturale e carbone. La retorica di Trump, che vedeva la lotta al cambiamento climatico come un ostacolo alla crescita economica, si allineava con le preoccupazioni di molti in Australia, dove il dibattito sul cambiamento climatico e le politiche energetiche erano già da anni fonte di divisioni politiche.

In Australia, il conflitto riguardo alla gestione delle risorse energetiche e la lotta per ridurre le emissioni di carbonio avevano raggiunto un punto di stallo. Le politiche del governo, guidato dal partito liberale, erano focalizzate sull'espansione delle risorse fossili e sulla difesa della "miniera di carbone", ovvero la protezione dei settori energetici più inquinanti, che venivano spesso presentati come essenziali per l'occupazione e la crescita economica del paese. Le leggi per la riduzione delle emissioni, introdotte nel corso degli anni da leader come Julia Gillard, furono annullate dal successivo governo di Tony Abbott, il quale, dopo la sua elezione nel 2013, si concentrò sulla rimozione delle politiche di carbon tax e sul rafforzamento delle industrie del carbone.

La parallela negazione del cambiamento climatico negli Stati Uniti e in Australia ha avuto un impatto profondo. In entrambi i paesi, la retorica pro-industria fossile ha alimentato una guerra ideologica contro le politiche ambientali, vista come una minaccia per l'occupazione. L'abbandono delle politiche ambientali ha favorito una continua dipendenza dalle energie fossili, impedendo un serio progresso verso fonti energetiche più pulite. Sebbene gli Stati Uniti abbiano tentato di concentrarsi sulla creazione di una superpotenza energetica, l’Australia, di pari passo, ha continuato a navigare nelle sue divisioni interne, creando un vuoto di leadership nella lotta contro il cambiamento climatico.

In questo contesto, l’interazione tra politica interna e politica estera gioca un ruolo fondamentale. L'incapacità di Trump di comprendere le implicazioni geopolitiche dell'abbandono del TPP (Trans-Pacific Partnership), che si opponeva principalmente al potere economico della Cina in Asia, è un altro esempio di come la politica estera possa essere influenzata da decisioni interne che ignorano gli equilibri globali. La rinuncia al TPP, che avrebbe potuto ridurre la potenza economica cinese, fu un errore che dimostrò la miopia della politica di Trump, nonostante i consigli contrari di alcuni dei suoi alleati più esperti.

La lezione che emerge da queste esperienze è che le decisioni politiche che trascurano le sfide globali e ignorano i benefici di una cooperazione internazionale possono avere conseguenze devastanti, non solo per la politica interna, ma anche per le relazioni internazionali. In particolare, la ritirata dagli accordi climatici e la promozione delle energie fossili non solo danneggiano l’ambiente, ma indeboliscono anche le alleanze internazionali e minano la capacità di un paese di negoziare su scala globale.

Infine, è fondamentale considerare che ogni scelta politica, specialmente in ambito ambientale ed economico, ha un impatto che va oltre i confini nazionali. L’equilibrio tra crescita economica, giustizia sociale e sostenibilità ambientale richiede una visione a lungo termine, che sia in grado di conciliare le esigenze immediate con le sfide globali che il nostro pianeta sta affrontando. La leadership, oggi più che mai, deve essere globale, mirando a soluzioni collettive piuttosto che a singoli interessi nazionali.

Come la Razzialità e la Giustizia Coloniale Si Riflettono in Australia e negli Stati Uniti

Nel contesto delle lotte razziali, gli eventi che segnano le vicende di minoranze in diverse nazioni si intrecciano attraverso un legame comune: la ricerca di giustizia per le vittime e il riconoscimento della loro umanità. Il caso che ha coinvolto tre uomini condannati all'ergastolo in Australia per crimini d'odio, il primo di questo tipo nella storia dello stato, è un esempio emblematico delle dinamiche razziali che si riflettono negli Stati Uniti, in particolare nel movimento Black Lives Matter. Tuttavia, dietro le tragedie comuni si celano contesti storici distinti che, pur influenzando la percezione e l'affrontamento delle ingiustizie, seguono linee divergenti nella storia di ogni paese.

In Australia, il trauma legato all'invasione coloniale e alla forzata espropriazione delle terre da parte dei popoli aborigeni continua a pesare sulle generazioni contemporanee. Questa storia di sottrazione di terre e di sofferenze ancestrali è simile a quella degli afroamericani, la cui oppressione affonda le radici nella schiavitù. Nonostante le somiglianze tra i due popoli nella lotta per il riconoscimento dei diritti, le differenze sono sostanziali, sia nella modalità in cui tali ingiustizie sono state vissute, sia nei modi in cui le rispettive società le hanno affrontate.

Queste differenze storiche sono chiaramente riflesse nelle politiche e nei discorsi sulla razza di Donald Trump. Mentre gli Stati Uniti sono alle prese con la questione dei diritti di voto, l’Australia si concentra sulla necessità di garantire un posto stabile e riconosciuto alla democrazia per i popoli indigeni. Le parole e le azioni di Trump, che esacerbano le divisioni razziali in America, hanno iniziato a risuonare anche in Australia, anche se in modo diverso. Le manifestazioni di razzismo esplicito o la manipolazione delle questioni razziali, come nel caso di Pauline Hanson che proponeva la risoluzione di riconoscere la "deplorabile ascesa del razzismo anti-bianco", sono segni di come anche la politica australiana stia affrontando simili tensioni.

Il panorama politico in Australia, sebbene più moderato rispetto agli Stati Uniti, non è immune all'influenza di tali movimenti. Le politiche di Trump e la sua retorica hanno forgiato un discorso che ha trovato eco anche tra le forze di destra australiane. Tuttavia, il rifiuto australiano di un razzismo apertamente esplicitato in alcune sue manifestazioni non ha impedito che certe tematiche e atteggiamenti si insinuassero nel dibattito politico, come dimostra l'accaduto in Senato nel 2018, con l'approvazione da parte dei senatori della Coalizione di una risoluzione contro il presunto "razzismo anti-bianco".

In questo scenario, il popolo aborigeno ha cercato di fare un passo avanti attraverso la proposta della "Voce al Parlamento", un'istanza costituzionale che permetterebbe agli aborigeni di avere un riconoscimento istituzionale e, attraverso questa voce, di influire sulle decisioni politiche che li riguardano direttamente. La proposta è culminata nell'adozione della Dichiarazione di Uluru nel 2017, un documento che esprime con chiarezza la volontà di ripristinare la sovranità dei popoli aborigeni, riaffermando il legame spirituale con la terra e chiedendo cambiamenti costituzionali per garantirne la partecipazione politica. Nonostante le resistenze politiche, la forza di questo messaggio risiede nella sua semplicità e nella chiarezza della domanda di giustizia.

Tuttavia, la reazione del governo australiano, che ha rigettato la proposta della Voce e l’ha dipinta come un terzo ramo del Parlamento, ha dimostrato una persistente incomprensione e paura dell'aspirazione aborigena. Questo rifiuto si è trasformato in una barriera per il progresso delle richieste di giustizia e riconoscimento, alimentando una disinformazione che ha ostacolato una comprensione adeguata dei bisogni degli aborigeni. La resistenza a questo cambiamento costituzionale, come mostrato dal disprezzo per la Dichiarazione di Uluru, riflette una paura radicata nell'establishment politico di perdere il controllo su una narrativa storica che ancora oggi resiste.

Il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni in Australia non è solo una questione di giustizia storica, ma anche un passo fondamentale verso l'inclusione politica e la ricomposizione di una nazione che continua a lottare con il proprio passato coloniale. La consapevolezza di queste dinamiche, la comprensione delle loro radici storiche e il riconoscimento della sovranità indigena sono elementi cruciali per poter intraprendere un vero processo di riconciliazione.

In definitiva, la lotta per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni in Australia si intreccia con il dibattito globale sulle disuguaglianze razziali e la giustizia sociale, ma ogni paese affronta queste sfide secondo un quadro unico che tiene conto delle sue specifiche condizioni storiche e culturali. La comprensione delle radici di queste problematiche e la consapevolezza delle implicazioni politiche e sociali sono essenziali per affrontare le sfide contemporanee e per garantire un futuro inclusivo e giusto per tutte le minoranze.