Nel racconto personale di Jason Dittmer, l’iniziazione alla geopolitica non avviene tramite manuali o notiziari, ma attraverso una combinazione di esperienze scolastiche e visioni infantili di “Star Trek”. Questa commistione tra realtà scolastica e immaginario fantascientifico apre la porta a una riflessione essenziale: la cultura popolare non solo riflette la geopolitica, ma la costruisce, la mediatizza e, spesso, la legittima.

La lezione di geografia mondiale durante la fine della Guerra Fredda era tutt’altro che neutrale: era un’esposizione filtrata attraverso lenti ideologiche occidentali. In essa si consolidavano nozioni binarie di “noi” e “loro”, di progresso e arretratezza, di alleati e nemici. Ma questa divisione simbolica non nasceva in classe: era già stata interiorizzata tramite una narrativa culturale più vasta, accessibile, coinvolgente e quotidiana — le serie televisive, i film, i fumetti, i videogiochi. I Klingon non erano altro che una trasfigurazione culturale del nemico sovietico, resi alieni non tanto per la loro biologia, quanto per la loro ideologia. Così, sin da piccoli, apprendiamo una geopolitica emozionale, incarnata in personaggi e trame, più efficace di qualsiasi lezione accademica.

"Star Trek", con la sua iconografia utopica, rappresentava apparentemente un’alternativa pacifica al mondo reale. La Federazione Unita dei Pianeti sembrava incarnare gli ideali liberali e universali: diritti umani, cooperazione interplanetaria, autodeterminazione. Tuttavia, una lettura più attenta rivela le ambiguità intrinseche. La struttura della Federazione riecheggia le istituzioni statunitensi, tanto nelle sigle quanto nella lingua del comando. L’Enterprise non esplora soltanto: sorvola, osserva, valuta, e — se necessario — interviene. È armata, disciplinata, e parla il linguaggio della deterrenza. La missione scientifica si fonde con quella strategica. Le “nuove civiltà” da esplorare somigliano fin troppo ai “nuovi mondi” del colonialismo. La logica espansionista è mascherata da missione umanitaria.

È qui che la cultura popolare si rivela un dispositivo geopolitico potente. Non semplicemente intrattenimento, ma macchina narrativa in grado di produrre soggettività politiche. I giovani spettatori non assorbono passivamente le trame: imparano a vedere il mondo, a temere l’altro, ad affidarsi a certe forme di autorità e a interiorizzare una moralità imperiale travestita da etica universale. La cultura popolare, allora, non è solo uno specchio della geopolitica: è il suo laboratorio.

Il valore di questa prospettiva sta nella sua capacità di mostrare come la nostra comprensione del mondo sia sempre parziale, situata, affettiva. La geografia non è mai neutrale. Quando insegniamo che certi Paesi sono “arretrati” o che certi conflitti sono “inevitabili”, stiamo già scegliendo una posizione, ripetendo una narrazione. E quando lo facciamo attraverso immagini seducenti e storie coinvolgenti, rendiamo questa posizione naturale, invisibile. L’ideologia si fa intrattenimento, e l’intrattenimento diventa il veicolo silenzioso del potere.

Ciò che diventa essenziale, quindi, è sviluppare una consapevolezza critica nei confronti dei prodotti culturali che consumiamo. Comprendere i codici visivi, le metafore politiche, i modelli di rappresentazione del sé e dell’altro che ci vengono proposti quotidianamente. Riconoscere la posta in gioco nelle narrazioni apparentemente innocue. Allenarsi a leggere la geopolitica non solo nei libri, ma nei videogiochi militari, nei film di supereroi, nei reality show, nei meme.

Il lettore deve imparare a muoversi tra queste narrazioni come tra mappe cognitive del mondo, consapevole che ogni storia raccontata è anche una storia omessa, ogni eroe ha un’ombra, ogni missione pacifica un potenziale di violenza. Perché in fondo, come ci insegna “Star Trek”, il viaggio nello spazio non è mai soltanto esplorazione: è anche una dichiarazione di presenza, un gesto di potere, una geopolitica della fantasia.

Importante comprendere, inoltre, che la cultura popolare agisce non solo attraverso ciò che rappresenta ma anche attraverso ciò che rende possibile immaginare. Essa delimita l’orizzonte del pensabile, normalizzando certi conflitti, rendendo inevitabili certe alleanze, depoliticizzando forme di dominio. L’identità collettiva si costruisce su queste narrazioni reiterate, che definiscono chi siamo noi, chi sono gli altri, e cosa significa appartenere. La vera sfida non è solo sm

Come si costruisce un progetto di ricerca efficace in geopolitica popolare?

Mantenersi aggiornati quotidianamente attraverso notizie e media è generalmente consigliabile, mentre la creazione di feed RSS permette di seguire costantemente gli sviluppi più recenti su argomenti di interesse. Tuttavia, la ricerca non deve necessariamente concentrarsi su temi contemporanei. Archivi digitali e fisici, come quelli approfonditi in questa sede, costituiscono una ricca fonte di documenti e oggetti capaci di esplorare e decostruire nel tempo l’immaginario geopolitico e le sue implicazioni per il presente.

La curiosità intellettuale rappresenta un altro motore fondamentale della ricerca, incarnando il desiderio di approfondire o ampliare la comprensione accademica di un concetto o di una teoria specifica. L’interesse di Daniel per la geopolitica popolare nei videogiochi a tema militare, per esempio, nasce dalla sua esperienza accademica presso l’Università di Newcastle, dove l’assenza di studi accademici significativi sui videogiochi, nonostante la loro diffusione, è emersa come una lacuna importante. Le ricerche in questo campo tendono spesso a privilegiare l’analisi dei discorsi geopolitici e delle loro rappresentazioni, trascurando l’esperienza diretta e l’interazione degli individui con questi media. Tali osservazioni hanno guidato lo sviluppo teorico e metodologico di indagini successive, che hanno approfondito l’esperienza incarnata dei giocatori e il riconoscimento della propria posizione in un conflitto virtuale.

Inoltre, l’impulso a condurre un progetto di ricerca sulla geopolitica popolare può scaturire da interessi personali. Non è raro che gli studiosi siano motivati da investimenti emotivi e da una conoscenza preliminare degli oggetti di cultura popolare analizzati. Tuttavia, è imprescindibile riconoscere come la propria posizione, attitudini, conoscenze e pregiudizi influiscano inevitabilmente sulla ricerca stessa, plasmandone le domande e i risultati.

Una volta definito l’argomento, è necessario progettare la ricerca, che costituisce la struttura portante dell’intero processo. Clifford et al. (2016) individuano sei aspetti chiave da considerare per un design efficace. In primo luogo, la formulazione della domanda di ricerca, che deve essere chiara, specifica e suscettibile di risposta. Questa domanda guiderà tutte le fasi successive, anche se potrà evolversi nel corso del progetto, adattandosi a nuovi temi emergenti o a difficoltà pratiche nella raccolta dei dati.

I metodi scelti rappresentano gli strumenti per rispondere alla domanda di ricerca. Nel campo della geopolitica popolare, spesso si adottano approcci qualitativi, ma è possibile combinare metodi qualitativi e quantitativi per ottenere una comprensione più ampia e sfaccettata. La natura del dato raccolto dipende dai metodi: i dati quantitativi, numerici, si prestano ad analisi statistiche, mentre i dati qualitativi approfondiscono significati e interpretazioni, tramite interviste, gruppi di discussione, osservazioni.

Non tutte le ricerche richiedono lavoro sul campo, ma quando questo è necessario, occorre pianificare con attenzione tempi, luoghi, modalità di partecipazione, sicurezza, rischi e considerazioni etiche. Le questioni etiche sono centrali: la partecipazione volontaria, il consenso informato, la riservatezza dei dati raccolti devono essere garantiti e approvati dagli enti competenti, specialmente quando si lavora con soggetti umani.

Infine, la presentazione della ricerca va progettata in relazione alle aspettative accademiche, che possono prevedere conferenze, tesi o discussioni orali. Un buon design di ricerca favorisce la sicurezza e la chiarezza nell’esposizione, anche di fronte a interrogazioni critiche.

Sebbene questi principi forniscano una solida base, la realtà della ricerca è spesso caotica. Problemi imprevisti come difficoltà di accesso ai dati, interviste cancellate o mutamenti contestuali richiedono flessibilità e capacità di adattamento. È essenziale mantenere un equilibrio tra rigore metodologico e apertura ai cambiamenti durante tutto il percorso.

In aggiunta a quanto sopra, è importante considerare come il contesto geopolitico, culturale e tecnologico influenzi sia l’oggetto sia la modalità di ricerca. La riflessività sul proprio ruolo e la consapevolezza delle dinamiche di potere nel campo di studio aiutano a evitare semplificazioni e a valorizzare le molteplici dimensioni del fenomeno analizzato. Infine, la comprensione delle implicazioni sociali e politiche dei risultati ottenuti amplifica la rilevanza della ricerca, rendendola un contributo non solo accademico, ma anche culturale e critico.