Nel gennaio del 2021, la nazione americana si trovò nel mezzo di una crisi costituzionale che minacciò non solo l’integrità del processo elettorale, ma anche la solidità delle istituzioni politiche. Le elezioni presidenziali del 2020, vinto da Joe Biden, furono contestate da una parte significativa del Partito Repubblicano, tra cui alcuni dei suoi membri più influenti, che si allearono con l'ex presidente Donald Trump per cercare di ribaltare i risultati.

Uno degli episodi più controversi avvenne il 6 gennaio 2021, quando il Congresso degli Stati Uniti si riunì per ratificare i risultati del Collegio Elettorale e ufficializzare la vittoria di Biden. Tuttavia, quel giorno non si trattò solo di una semplice formalità: una serie di manovre politiche e legali tentarono di contestare l’esito delle elezioni. Ted Cruz, uno dei principali alleati di Trump al Senato, annunciò rapidamente che lui e altri dieci senatori avrebbero obiettato ai voti elettorali di Biden, proponendo un piano non convenzionale per "rinviare" i voti contestati agli Stati per dieci giorni, mentre una commissione extralegale avrebbe indagato sulla presunta frode elettorale.

Mentre Mitch McConnell, leader della minoranza repubblicana al Senato, cercava di tenere sotto controllo i suoi senatori, il suo omologo alla Camera, Kevin McCarthy, non faceva alcun tentativo per fermare i suoi colleghi. La frattura all’interno del Partito Repubblicano divenne evidente: molti deputati erano pronti a obiettare ai voti di Biden provenienti da Stati chiave, anche se sapevano che la loro obiezione non avrebbe avuto successo, ma ciò non importava. Il gesto era simbolico, un atto di lealtà verso Trump.

Nel frattempo, Trump, a Mar-a-Lago, decise di anticipare il suo ritorno a Washington, un gesto che rispecchiava la crescente tensione anche a livello internazionale, con le minacce provenienti dall'Iran che continuavano a crescere in risposta all’uccisione di Qassim Soleimani. La paura che l’Iran tentasse di ucciderlo, espressa da Trump in una conversazione con alcuni suoi amici, portò l’ex presidente a ritenere che fosse più sicuro tornare nella capitale.

Una volta rientrato a

Perché McConnell ha continuato a proteggere Trump nonostante il suo disprezzo per lui?

Joe Neguse aveva fatto della sua missione il tentativo di ottenere il voto di Mitch McConnell. Un trentaseienne afroamericano del Colorado, primo eritreo-americano eletto al Congresso, Neguse sembrava non avere nulla in comune con McConnell, un conservatore del Sud bianco, discendente di schiavisti, vicino al compimento del suo settantanovesimo compleanno. Tuttavia, Neguse era convinto di poterlo raggiungere. A notte fonda, alle 2 del mattino, si era immerso nelle ricerche online e aveva trovato un discorso che McConnell aveva pronunciato anni prima contro l'apartheid sudafricano, scoprendo che nel 1986 aveva votato per superare il veto di Ronald Reagan contro le sanzioni contro il Sudafrica. Per Neguse, questa apparente coincidenza sembrava un'opportunità per fare breccia nel senatore repubblicano.

Ma, prima che la presentazione finale iniziasse, McConnell aveva inviato un messaggio ai suoi colleghi repubblicani, dichiarando che avrebbe votato "non colpevole", non perché Trump fosse innocente, ma perché l'impeachment avrebbe dovuto riguardare l'allontanamento di un presidente in carica, non la gestione di uno che aveva già lasciato la Casa Bianca. Neguse, tuttavia, non si lasciò scoraggiare e continuò a fare il suo intervento, includendo riferimenti al senatore John Sherman Cooper, mentore di McConnell, e a Henry Clay, il famoso senatore del Kentucky, citando anche che nel Senato c’erano solo due senatori che avevano votato contro il veto di Reagan sulle sanzioni contro l'apartheid, senza fare mai riferimento diretto a McConnell. Il messaggio giunse chiaro e McConnell ne fu colpito: "Aveva fatto i compiti a casa", disse ai suoi collaboratori, ma anche la prova più personale non fu sufficiente a cambiare il suo voto.

Dopo che il voto fu eseguito, alcuni senatori repubblicani, tra cui Richard Burr, Bill Cassidy, Susan Collins, Lisa Murkowski, Mitt Romney e altri, votarono contro Trump, un atto senza precedenti di dissenso all'interno del proprio partito. Trump, tuttavia, fu assolto, ma per la prima volta in modo bipartisan. I manager della causa si trovarono divisi tra il rammarico per il risultato e la consapevolezza che qualcosa fosse cambiato, almeno tra i repubblicani.

Poi, però, McConnell salì alla tribuna e fece una dichiarazione che scosse tutti. In un discorso tagliente, che non aveva nulla da invidiare a quelli degli accusatori di Trump, McConnell affermò che Trump era "moralmente e praticamente responsabile" per gli eventi del 6 gennaio, descrivendo l'insurrezione come il frutto di una serie di dichiarazioni false, teorie del complotto e incitamenti da parte di un presidente in uscita. Ma, pur condannando l'azione, McConnell spiegò di aver votato per l’assoluzione solo per motivi costituzionali, ritenendo che il Senato non avesse la competenza per giudicare un presidente una volta lasciato l'incarico. Nonostante ciò, lasciò intendere che, se non fosse stato per questa questione tecnica, avrebbe sostenuto l'allontanamento di Trump e, in seguito, fece capire che Trump non era immune da procedimenti penali.

Il discorso di McConnell suscitò reazioni contrastanti, in particolare all'interno del partito repubblicano. Molti lo elogiarono per aver finalmente detto ciò che pensavano, mentre altri temevano che stesse scatenando una guerra aperta tra il partito e il suo ex presidente. McConnell, pur avendo messo in chiaro il suo disprezzo per Trump, non riuscì mai a liberarsi completamente di lui. Pochi giorni dopo il processo, quando gli fu chiesto se avrebbe supportato Trump come candidato alle presidenziali del 2024, McConnell rispose senza esitazione: "Assolutamente". Questo episodio evidenziò come, nonostante il disaccordo tra McConnell e Trump, il leader repubblicano non fosse disposto a rompere definitivamente con l'ex presidente, anche dopo averlo apertamente condannato.

Trump, anche se assolto, non riuscì a fare propri i trionfi passati. Il suo status di ex presidente, privato del megafono di Twitter e della scenografia della Casa Bianca, lo ridusse a un "esiliato" a Mar-a-Lago, un "perdente" che non riuscì a rimanere immune dalle critiche interne al suo stesso partito. Ma la sua capacità di manipolare l'opinione pubblica rimase intatta.

In un contesto così diviso, la protezione continua di McConnell a Trump solleva una questione centrale: cosa guida realmente i politici nelle loro scelte più cruciali? È la lealtà verso un alleato o la difesa di principi costituzionali? La risposta può sembrare ovvia, ma la realtà è più complessa e sfumata. La difesa dei propri interessi di partito e la paura delle ripercussioni politiche a lungo termine sembrano essere fattori più determinanti di quanto non sembri a prima vista. Anche quando un politico condanna pubblicamente un altro, la necessità di mantenere il controllo e l'unità del partito, soprattutto in tempi incerti, gioca un ruolo fondamentale.