Nel 1898, la guerra ispano-americana divenne uno dei momenti più emblematici nella storia degli Stati Uniti, non solo per le sue conseguenze politiche e territoriali, ma anche per il ruolo cruciale che le informazioni, o meglio, le disinformazioni, giocarono nell'influenzare l'opinione pubblica e le decisioni politiche. Prima della televisione, della radio e di Internet, la stampa aveva un potere incredibile nel modellare le opinioni pubbliche e nel guidare le risposte governative. Nessun episodio della storia americana dimostra meglio questa dinamica che la guerra contro la Spagna, un conflitto che ha visto l'esplosione di notizie false e manipolate, capaci di condizionare profondamente l'opinione pubblica e le scelte politiche.

Le origini della guerra risalgono a decenni di discussioni pubbliche sulle colonie spagnole nei Caraibi, in particolare su Cuba e Puerto Rico. Queste colonie, già da tempo, erano al centro di un acceso dibattito che coinvolgeva sia gli Stati Uniti che la Spagna. La percezione di Cuba, influenzata dalla stampa americana, era fortemente polarizzata, con molti che vedevano l’isola come una potenziale nuova aggiunta agli Stati Uniti, sia come colonia che come stato. Il dibattito sulla situazione cubana si intensificò negli anni ’90 dell’Ottocento, in particolare durante la seconda grande rivoluzione cubana (1895-1898), che vide l’isola ribellarsi nuovamente contro il dominio spagnolo.

La propaganda e le notizie false, che oggi definiremmo "fake news", divennero strumenti fondamentali in questa narrazione. I giornali americani, in particolare quelli di New York, si lanciarono in una campagna di disinformazione che alimentò il malcontento popolare e spinse verso il conflitto. Un esempio emblematico di questa manipolazione fu la narrazione riguardante la distruzione della nave USS Maine nel porto dell'Avana nel 1898, un evento che venne utilizzato per giustificare l’entrata in guerra. Le notizie che descrivevano la Spagna come un oppressore crudele verso i cubani e gli americani coinvolti nella causa indipendentista furono diffuse a dismisura, spesso senza fondamento. Le storie di atrocità, tra cui l’uso di campi di concentramento da parte delle forze spagnole e le torture a danno dei prigionieri cubani, alimentavano un’atmosfera di indignazione che lasciava poco spazio a una visione equilibrata della situazione.

Il termine "yellow journalism", coniato per descrivere il sensazionalismo di alcuni giornali, divenne famoso proprio in questo periodo. Alcuni storici sostengono che questa forma di giornalismo giocò un ruolo cruciale nell'indurre gli Stati Uniti a entrare in guerra, influenzando pesantemente l'opinione pubblica. Le storie scritte da reporter come quelli del New York Herald e del New York World dipingevano la Spagna come una potenza imperialista oppressiva, mentre i cubani venivano ritratti come vittime innocenti meritevoli di sostegno. In realtà, l'atteggiamento pubblico verso la Spagna era stato costruito per decenni attraverso questi resoconti parziali e distorti.

Ma la questione cubana non si limitava solo alla manipolazione dell’opinione pubblica. Gli Stati Uniti, pur essendo apparentemente spinti da ideali di libertà e indipendenza, avevano anche forti interessi economici legati all'isola, in particolare nel settore della produzione di zucchero e tabacco, che contribuivano a creare una pressione politica per un intervento militare. Gli Stati Uniti vedevano la possibilità di espandere la propria influenza nelle Americhe come parte della loro "Destinazione Manifesto", una concezione che giustificava l'espansione territoriale come inevitabile e giusta.

In questo clima di tensione e manipolazione mediatica, l’opinione pubblica americana, spinta dalle notizie sensazionali, si divise su come dovesse essere affrontata la questione cubana. La stampa alimentava dibattiti sulla possibilità che Cuba diventasse uno stato degli Stati Uniti, sulle condizioni di autonomia da concedere all’isola, e persino sull’opportunità di pagare la Spagna per cedere il controllo dell’isola. A questo si aggiungeva la crescente consapevolezza che Cuba rappresentava una posizione strategica per il controllo di importanti rotte commerciali e militari nel Mar dei Caraibi, un fattore che, probabilmente, pesò non poco nelle decisioni politiche di Washington.

L’esplosione della Maine divenne il catalizzatore finale che scatenò la guerra. Le voci che accusavano la Spagna di aver provocato deliberatamente l’incidente si diffusero rapidamente, alimentando l’idea che la Spagna fosse responsabile della morte di decine di marinai americani. Sebbene le indagini successive non confermassero l’ipotesi di un attacco deliberato da parte della Spagna, l’opinione pubblica era ormai convinta della colpevolezza del governo spagnolo. La guerra, che durò solo pochi mesi, generò una montagna di materiale, tra cui libri, articoli e reportage che continuavano a distorcere la realtà degli eventi.

Il caso della guerra ispano-americana mostra chiaramente come la disinformazione, la manipolazione delle notizie e la creazione di miti possano influenzare profondamente l’esito di eventi storici, in particolare in tempi di conflitto. Le conseguenze della guerra ispano-americana furono significative, non solo per gli Stati Uniti, che acquisirono nuovi territori, ma anche per il modo in cui gli Stati Uniti avrebbero continuato a utilizzare la stampa e la propaganda per sostenere le proprie azioni politiche ed espansionistiche.

Inoltre, è importante riconoscere che la guerra non è stata solo il risultato di una serie di falsità diffuse dai giornali. Al di là delle manipolazioni mediatiche, la questione della Cuba sotto il dominio spagnolo era legata a complesse dinamiche geopolitiche e interessi economici che hanno reso la guerra inevitabile. La stampa ha agito come un acceleratore, ma le forze politiche ed economiche in gioco erano altrettanto decisive. Il caso della guerra ispano-americana, quindi, non solo rivela l'impatto delle notizie false nel modellare la realtà storica, ma anche come la guerra e la politica estera siano state influenzate da molteplici fattori che vanno oltre la semplice retorica dei giornali.

Come la Guerra ha Creato e Diffuso Fatti Falsi: Il Caso della Distruzione della USS Maine

La guerra e le sue cronache sono spesso terreno fertile per la diffusione di voci, miti e, purtroppo, di falsità. La distruzione della USS Maine nel 1898 è un esempio lampante di come i fatti possano essere travisati, manipolati e sfruttati per obiettivi politici e nazionali. Gli Stati Uniti, che in quel momento cercavano di rafforzare il loro intervento nella guerra di indipendenza cubana, furono trascinati in una spirale di speculazioni e distorsioni mediatiche che avrebbero segnato la storia dei rapporti internazionali e delle pratiche giornalistiche per gli anni a venire.

La tragedia della USS Maine, un'esplosione che distrusse la nave ancorata nel porto dell'Avana, costò la vita a 260 uomini e fu immediatamente avvolta da un'atmosfera di incredulità e indignazione. In un contesto già teso, alimentato dalla crescente simpatia degli americani verso la causa cubana e dalla crescente frustrazione nei confronti delle atrocità spagnole, l'esplosione venne facilmente strumentalizzata dai media e dalla politica. La copertura dell'incidente fu rapidissima e invadente, con giornali come il New York Journal, sotto la direzione di William Randolph Hearst, che non esitò a dare spazio a ogni tipo di speculazione, dalle teorie su mine e torpedini spagnole fino a presunti sabotaggi da parte dei cubani. Il tutto senza alcuna prova solida.

Le prime inchieste ufficiali, sia da parte delle autorità americane che spagnole, suggerirono che l'esplosione fosse probabilmente interna, legata a un accumulo di polvere di carbone vicino alla caldaia, ma tali risultati non fermarono la macchina della propaganda. Le teorie alternative, come quella di un attacco nemico esterno, si diffusero rapidamente, alimentando la convinzione popolare che l'esplosione fosse un atto deliberato di guerra. L'opinione pubblica americana, alimentata dalla stampa sensazionalista, si schierò rapidamente con l'idea che fosse stato un attacco intenzionale, con il celebre grido di guerra "Ricordati del Maine!" che echeggiava in tutto il paese.

Questo tipo di narrativa distorta ebbe effetti devastanti sulle relazioni internazionali e sulla capacità degli Stati Uniti di prendere decisioni informate. L'incidente divenne così potente nel plasmare l'immaginario collettivo che anche decenni dopo, storici e giornalisti continuarono a dibattere senza una risposta definitiva. Nel frattempo, la guerra ispano-americana del 1898 proseguiva, alimentata da un mix di fatti reali e falsi, e la stampa continuava a fare da cassa di risonanza per tutte le speculazioni.

L'uso della manipolazione mediatica durante eventi di grande impatto come la distruzione della USS Maine dimostra come la verità possa essere modellata e distorta per scopi specifici, specialmente in un contesto di guerra. L'incidente ci insegna che, spesso, la velocità e l'emotività della copertura mediatica possono superare la ricerca della verità. In un'era in cui le notizie viaggiano più velocemente che mai, è fondamentale mantenere una sana dose di scetticismo e analizzare le informazioni con un occhio critico.

Alla luce di quanto accaduto nel 1898, è importante considerare come i media possano essere usati per influenzare l'opinione pubblica e come le narrazioni costruite possano avere effetti a lungo termine. Le teorie non verificate e le voci possono crescere e diventare "fatti" solo per il potere della ripetizione e dell'emozione. La riflessione su questi eventi è essenziale non solo per comprendere come la storia è stata scritta, ma anche per fare in modo che non commettiamo gli stessi errori quando ci confrontiamo con le crisi contemporanee.

Perché così tante persone credono ancora alle teorie del complotto sull’assassinio di Lincoln e Kennedy?

La morte violenta di una figura politica iconica non è mai solo un fatto storico; è un trauma collettivo che genera onde lunghe nel tempo, capaci di trasformarsi in ossessione pubblica, terreno fertile per la proliferazione di narrazioni alternative, spesso etichettate come teorie del complotto. L'assassinio di Abraham Lincoln nel 1865 e quello di John F. Kennedy nel 1963 rappresentano due casi emblematici nei quali il bisogno sociale di senso ha incontrato una sfiducia radicata nei confronti delle versioni ufficiali e delle istituzioni deputate a raccontare la verità.

Nel caso di Lincoln, il ruolo della stampa fu immediato e determinante: le edizioni del Herald del 15 aprile 1865, ora conservate al Newseum di Washington, testimoniano l’urgenza narrativa dell’evento. Giornalisti e osservatori come Harold Holzer hanno esaminato in profondità la reazione mediatica all’assassinio, rivelando come già nei giorni successivi alla morte del presidente si insinuassero dubbi, omissioni e sospetti. Alcuni articoli della stampa di Richmond o Cleveland, custoditi oggi nella Biblioteca del Congresso, riflettevano già una tensione tra fatti e interpretazioni, alimentata dalla frammentazione delle notizie, dalla lentezza delle comunicazioni e dalla necessità politica di controllare l'opinione pubblica.

A distanza di decenni, studiosi come Hanchett hanno analizzato i dettagli più oscuri del complotto, mostrando come la narrazione ufficiale fosse piena di ambiguità e lacune. La possibilità che alcune prove fossero false o manipolate — come ipotizzato in The Lincoln Conspiracies — non fece altro che rafforzare l’idea che dietro l’omicidio vi fossero interessi più vasti e oscuri, forse orchestrati da elementi interni allo stesso apparato statale. La difficoltà di modificare convinzioni già consolidate, anche quando nuove prove emergono, è ben documentata: la psicologia collettiva si aggrappa a narrazioni coerenti con le proprie paure, e rifiuta la complessità in favore della semplicità dicotomica del “noi contro loro”.

La vicenda di Kennedy, un secolo dopo, esplose in un contesto mediatico e geopolitico ancora più articolato. L’assassinio, avvenuto in diretta televisiva, segnò una cesura irreversibile nell’immaginario americano. Le prime reazioni furono di incredulità e dolore collettivo, ma in pochi anni le indagini della Commissione Warren furono messe in discussione da una quantità crescente di libri, documentari, testimonianze e investigazioni indipendenti. La vastità della documentazione prodotta — tanto che un’intera bibliografia fu pubblicata già nel 1972 — dimostra quanto l’opinione pubblica non si sia mai davvero accontentata della spiegazione ufficiale. Il sospetto che Oswald non abbia agito da solo, o che le prove siano state manipolate per proteggere interessi più alti, non è mai stato del tutto dissipato, nonostante decenni di indagini supplementari, revisioni congressuali e aperture parziali degli archivi governativi.

Ciò che rende queste teorie particolarmente persistenti non è tanto la quantità di prove alternative, quanto la sfiducia endemica nei confronti delle istituzioni. Come hanno dimostrato studi di sociologia politica, tra cui quelli di Barber e Hetherington, la fiducia politica è un capitale simbolico fragile: quando viene eroso — attraverso scandali, segreti e ambiguità — il vuoto lasciato viene spesso riempito da spiegazioni alternative, che non necessariamente cercano la verità, ma piuttosto la coerenza narrativa. Il concetto di "paranoid style", introdotto da Hofstadter e successivamente ripreso da Oliver e Wood, evidenzia come la mentalità complottista sia spesso un’espressione culturale della perdita di controllo collettivo, un tentativo di ridurre la complessità a schemi interpretabili.

Inoltre, nel mondo contemporaneo, la costruzione della paura da parte dei media ha contribuito a rafforzare una percezione costante di minaccia invisibile. L’opera di Altheide ha sottolineato come le crisi, reali o p

Come le informazioni e i media influenzano la percezione del cambiamento climatico

Il cambiamento climatico, come questione globale, ha suscitato un crescente interesse pubblico e scientifico negli ultimi decenni, ma il modo in cui le persone lo comprendono e ne sono preoccupate è fortemente influenzato dalle fonti di informazione di cui si avvalgono. Studi recenti hanno mostrato come il livello di conoscenza e le fonti di informazione, siano esse ritenute affidabili o meno, plasmino in modo significativo l'opinione pubblica riguardo il riscaldamento globale. Le preoccupazioni sociali sul cambiamento climatico sono spesso il risultato di un complesso intreccio di media, politica e scienza. La percezione pubblica non è soltanto il prodotto della realtà scientifica, ma una costruzione sociale modellata da come i media presentano le informazioni, e da come le élite politiche e economiche dirigono il dibattito.

Nel contesto statunitense, l’accesso a informazioni accurate ha evidenziato una disparità nelle percezioni. Le persone che si informano tramite fonti percepite come più scientifiche o imparziali tendono a preoccuparsi maggiormente del riscaldamento globale rispetto a chi si affida a fonti politiche o a media che trattano l’argomento con maggiore scetticismo. La fiducia nelle informazioni è un fattore chiave che modella le attitudini riguardo al cambiamento climatico, e ciò diventa ancora più evidente quando si osservano le divergenze politiche. La polarizzazione del dibattito, ad esempio, è emersa in modo marcato nei paesi con forti divisioni politiche, dove le opinioni sul cambiamento climatico tendono a seguire linee di partito. Di conseguenza, chi appartiene a determinati schieramenti tende a minimizzare la gravità della situazione o addirittura a negare la sua esistenza, influenzando così l'intero dibattito pubblico.

Studi recenti, come quelli di McCombs (2004) sul ruolo dei media nell'influenzare l’opinione pubblica, evidenziano che i mezzi di comunicazione non si limitano a informare il pubblico, ma giocano un ruolo cruciale nel definire le priorità politiche. Quando i media decidono di trattare o meno un argomento, stanno, di fatto, determinando l'agenda pubblica e le preoccupazioni collettive. Questa funzione di "agenda-setting" è stata osservata anche in relazione al cambiamento climatico, dove il crescente interesse mediatico ha contribuito a sensibilizzare l'opinione pubblica, ma ha anche suscitato reazioni di resistenza in alcuni gruppi, spesso alimentati dalla disinformazione e da campagne politiche mirate.

Nonostante la crescente disponibilità di dati scientifici che confermano l'urgenza di affrontare il cambiamento climatico, non mancano ancora molte voci che mettono in discussione l'esistenza di una crisi imminente. Le teorie del "climategate", per esempio, hanno avuto un impatto significativo sulla fiducia del pubblico nella scienza del cambiamento climatico, mostrando come scandali o dubbi scientifici possano compromettere la credibilità delle evidenze. Tuttavia, la continua divulgazione di ricerche e la pressione crescente dei movimenti ambientalisti sono stati strumenti essenziali per contrastare tali posizioni. In questo contesto, la comunicazione scientifica deve affrontare non solo il trasferimento di dati, ma anche le resistenze politiche e sociali, facendo un uso strategico delle prove e mantenendo una narrazione coerente e persuasiva.

Le percezioni sul cambiamento climatico non sono solamente una questione di conoscenza scientifica, ma anche di esperienze quotidiane. La percezione personale delle condizioni climatiche locali, come le temperature anomale o gli eventi estremi, gioca un ruolo importante nel formare le opinioni su scala globale. Ad esempio, alcuni studi hanno rilevato che eventi di calore estremo a livello locale aumentano la preoccupazione per il cambiamento climatico, mentre periodi di clima più fresco o di negazione della realtà del riscaldamento riducono tale preoccupazione. Ciò implica che la sensibilizzazione e l'educazione al cambiamento climatico devono non solo concentrarsi sulle informazioni globali, ma anche collegarsi all'esperienza locale, per costruire un legame emotivo che spinga all'azione.

A livello internazionale, la scienza ha da tempo raggiunto un consenso sul fatto che il riscaldamento globale sia una realtà e che le sue cause siano per lo più antropiche. Tuttavia, la comunicazione di questo messaggio spesso si scontra con potenti interessi economici e politici che, per motivi legati alla sostenibilità economica, non vogliono ammettere l'urgenza della questione. Gli attacchi alle politiche ambientali, come quelli osservati negli Stati Uniti, dove le politiche climatiche sono stati oggetto di forti opposizioni, mostrano quanto sia difficile per i governi e le organizzazioni internazionali spingere per cambiamenti significativi quando non c'è un consenso diffuso tra i cittadini.

In questo contesto, l'importanza di sviluppare una comunicazione efficace, che sappia coniugare i dati scientifici con la sensibilità sociale, è cruciale. Le campagne educative devono essere in grado di utilizzare non solo argomenti razionali, ma anche emozionali, per creare un senso di urgenza. La persuasione, infatti, non passa solo attraverso la logica, ma anche attraverso la creazione di una consapevolezza collettiva che faccia leva sui sentimenti di responsabilità e di necessità di azione immediata.

Per comprendere pienamente l'argomento, è importante anche tenere presente che la scienza da sola non è sufficiente a cambiare le opinioni pubbliche. La percezione del cambiamento climatico dipende anche dalle convinzioni personali, dalle ideologie politiche e dai valori culturali. Inoltre, è necessario riconoscere che non tutti i gruppi sociali hanno lo stesso accesso alle informazioni o gli stessi mezzi per formarsi un’opinione informata. La disuguaglianza nell'accesso alla conoscenza e le disparità nei mezzi di comunicazione possono portare a differenze significative nella comprensione e nell'impegno rispetto al cambiamento climatico.

Che ruolo ha avuto la disinformazione nella cultura americana dell'informazione?

Negli ultimi decenni, il dibattito intorno alla disinformazione negli Stati Uniti ha subito un’accelerazione notevole, alimentato da eventi politici recenti e dall’evoluzione tecnologica che ha trasformato le modalità con cui l’informazione viene prodotta, diffusa e recepita. Tuttavia, la disinformazione — sotto forma di notizie false, fatti alternativi, menzogne deliberatamente costruite, e distorsioni intenzionali della realtà — non è un fenomeno nuovo nella cultura americana. Piuttosto, rappresenta una componente ricorrente, spesso invisibile, della vita pubblica fin dal XIX secolo.

Mentre storici e sociologi hanno a lungo considerato tali dinamiche come sottotesti di altre narrazioni — economiche, politiche, sociali — solo di recente esse stanno emergendo come oggetto d'indagine autonoma. I politologi, in particolare, hanno esaminato la manipolazione della verità come strumento per ottenere consenso e potere, soprattutto nei momenti di forte polarizzazione. Parallelamente, studiosi dei media hanno sviluppato un approccio più teorico e sistematico per comprendere la relazione tra media, pubblicità e costruzione della realtà pubblica.

L’affermazione dell’economia dell’intrattenimento e la concentrazione proprietaria dei media nelle mani di pochi miliardari hanno modificato radicalmente il panorama dell’informazione. Il risultato è un ecosistema dove l’informazione autentica compete ad armi impari con contenuti costruiti per ottenere attenzione, influenza o profitto. Tale contesto ha favorito la diffusione della cosiddetta "fake news", amplificata dalle dinamiche virali dei social media e dalla dipendenza crescente degli utenti dalle piattaforme digitali per l’accesso alle notizie.

Le statistiche recenti mostrano una stabilizzazione nell'uso di Internet e dei social network, ma non una maturazione parallela nella capacità critica degli utenti. Nonostante l’aumento esponenziale dell’accesso all’informazione, la capacità di distinguere tra fatti e opinioni, o tra notizie autentiche e manipolate, rimane limitata. Studi del Pew Research Center confermano che una parte significativa della popolazione americana fatica a operare tali distinzioni, alimentando una cultura dell’ambiguità e della sfiducia nei confronti delle fonti istituzionali.

La storia dell’informazione negli Stati Uniti rivela, inoltre, un divario strutturale tra la rapidità di diffusione tecnologica nelle aree urbane e la marginalizzazione informativa delle zone rurali. Se Internet ha raggiunto le élite urbane in pochi anni, vaste aree del paese rimangono tuttora parzialmente escluse da una piena connettività. Tale squilibrio ha contribuito alla creazione di “silos informativi” in cui la percezione della realtà si costruisce su fonti omogenee, spesso non verificate, rafforzando narrazioni distorte e polarizzanti.

La ricerca dell’autenticità, centrale nel pensiero americano fin dal XIX secolo, si è intrecciata con una cultura dell’imitazione e della finzione, come notato da Miles Orvell. In questo scenario, la disinformazione non è solo un errore o una svista, ma un elemento strutturale nella costruzione culturale del reale. Il pubblico americano si è abituato a una sovrapposizione tra verità e rappresentazione, tra fatto e messa in scena, facilitando così l'accettazione di notizie false come alternative legittime.

Il concetto di “alfabetizzazione informativa”, elaborato da studiosi come Eisenberg, Bawden e Mackey, ha cercato di colmare il divario tra accesso e comprensione. Tuttavia, la maggior parte dei programmi educativi resta confinata all’ambito accademico o all’istruzione secondaria, senza produrre un impatto sistemico nella società adulta. La transizione verso una "metaletteratismo", ovvero una consapevolezza riflessiva e partecipativa nell'uso delle informazioni, rimane un obiettivo più teorico che pratico.

In questo contesto, la velocità di diffusione dell’informazione ha superato di gran lunga la capacità della società di assorbirla in modo critico. A differenza dei quotidiani del secolo scorso, che hanno rapidamente raggiunto una diffusione capillare, Internet ha creato spazi informativi frammentati e gerarchizzati, in cui la verità è spesso una costruzione situata, negoziata o imposta.

A ciò si aggiunge l’eredità culturale americana della spettacolarizzazione e della retorica pubblicitaria. Come osservato da Edward Bernays, il padre delle relazioni pubbliche, la persuasione di massa si costruisce sulla gestione dell’opinione pubblica più che sulla trasparenza informativa. Tale modello ha permeato l’intero sistema mediatico statunitense, alimentando una cultura in cui il vero perde valore di fronte all’efficace.

È dunque essenziale comprendere che la disinformazione non nasce con il digitale, né con i social media: questi sono solo strumenti più potenti per un fenomeno radicato storicamente. Comprendere la genealogia della menzogna pubblica negli Stati Uniti significa affrontare le fondamenta ideologiche e strutturali della società dell’informazione americana. Solo da questa consapevolezza può nascere una reale alfabetizzazione critica, capace di opporsi non solo alle fake news, ma al sistema che le rende credibili.

Fondamentale è riconoscere che la manipolazione dell’informazione è spesso invisibile proprio perché normalizzata: non si presenta come un errore evidente, ma come una costruzione coerente con aspettative, paure e desideri del pubblico. In questo senso, l'informazione non è mai neutra, e la sua interpretazione dipende tanto dalla fonte quanto dalla predisposizione culturale del lettore. La disinformazione funziona perché è verosimile, non perché è vera. Ed è proprio nella verosimiglianza che si gioca la battaglia per la verità.