La pancreatite cronica (PC) è una patologia progressiva che danneggia il pancreas, portando alla perdita irreversibile della sua funzione esocrina e endocrina. La diagnosi precoce è fondamentale per rallentare la progressione della malattia, sebbene la sua gestione rimanga complessa, anche grazie alla varietà di test diagnostici disponibili. Diversi approcci diagnostici, sia diretti che indiretti, sono utilizzati per identificare la presenza di questa condizione e monitorare il suo sviluppo.

Uno dei test più specifici per la valutazione della funzione esocrina del pancreas è il test di stimolazione con secretina. La secretina stimola la secrezione di bicarbonato da parte del pancreas, che normalmente presenta un pH tra 7.8 e 8.0. In passato, questo test richiedeva l'inserimento di un catetere duodenale per raccogliere le secrezioni pancreatiche, ma oggi è stato sostituito da metodi meno invasivi, come l'aspirazione endoscopica delle secrezioni pancreatiche. Sebbene il test di stimolazione con secretina possa fornire dati importanti sulla funzionalità esocrina, la sua esecuzione è limitata dalla mancanza di trattamenti per rallentare la progressione della malattia, e dalla durata (30–60 minuti) richiesta per completarlo.

I test indiretti, che misurano gli enzimi pancreatici nel siero o nelle feci, sono ampiamente utilizzati, ma la loro sensibilità aumenta solo nelle fasi più avanzate della malattia. Questi test includono la misurazione della tripsina sierica, la determinazione dell'elastasi fecale (un test più stabile e facilmente utilizzabile rispetto al test della tripsina), e la misurazione dei grassi fecali attraverso test quantitativi, come quello delle 72 ore. Un altro approccio emergente sono i test del respiro, che analizzano i metaboliti prodotti dalla digestione enzimatica del pancreas, sebbene siano ancora in fase di studio.

Le radiografie addominali semplici, pur non essendo particolarmente sensibili nelle fasi iniziali della malattia, possono rivelare calcificazioni pancreatiche diffuse, che sono altamente indicative di pancreatite cronica, specialmente nelle fasi più avanzate. Circa il 30–40% dei pazienti con pancreatite cronica presenta calcificazioni evidenti nelle radiografie. Queste calcificazioni sono particolarmente comuni nei pazienti con abuso di alcol o in quelli con pancreatite tropicale, come riscontrato in India.

Le tecniche di imaging più avanzate includono l'ecografia (US), la tomografia computerizzata (TC) e la risonanza magnetica (RM). L'ecografia, con una sensibilità del 60-70% e una specificità dell'80-90%, è utile per identificare dilatazioni del dotto pancreatico, calcificazioni e pseudocisti. La TC, con una sensibilità superiore del 10-20% rispetto all'ecografia, fornisce una visione più dettagliata. La RM, d'altro canto, permette una valutazione più accurata della struttura del dotto pancreatico.

L'ecografia endoscopica (EUS) gioca un ruolo fondamentale nella diagnosi di pancreatite cronica, grazie alla sua capacità di visualizzare in modo dettagliato sia il dotto pancreatico che il parenchima. I criteri di diagnosi, definiti dalla classificazione Rosemont, si basano su una combinazione di segni parenchimali e ductali. Tra i segni più specifici vi sono le calcificazioni, la lobulazione con "honeycombing", e la dilatazione del dotto pancreatico. L'EUS, pur essendo molto utile, non è ancora in grado di rilevare la pancreatite cronica nelle sue fasi più precoci, ma nuove tecniche come l'EUS con contrasto e l' elastografia sembrano promettenti per il rilevamento delle fasi iniziali della malattia.

La colangiopancreatografia retrograda endoscopica (ERCP) è stata un tempo il "gold standard" per la valutazione del dotto pancreatico, ma la sua invasività e i rischi associati (complicazioni nel 5% dei casi e mortalità dello 0,1%) hanno limitato il suo utilizzo. Con il miglioramento delle tecniche non invasive come la colangiopancreatografia retrograda con risonanza magnetica (MRCP) e l'EUS, l'ERCP viene ora utilizzato principalmente per interventi programmati, come l'estrazione di calcoli. I segni suggerenti di pancreatite cronica all'ERCP includono la "catena di laghi", che indica un'alterazione del dotto pancreatico principale.

La MRCP, infine, rappresenta un eccellente strumento non invasivo per la valutazione della pancreatite cronica, con una buona correlazione con i risultati ottenuti tramite ERCP. La MRCP consente una visualizzazione dettagliata della morfologia del dotto pancreatico e può identificare cisti non collegate al sistema del dotto. L'uso della secretina per migliorare la visibilità durante la MRCP può essere utile, ma aumenta i costi dello studio.

Un'altra complicazione comune della pancreatite cronica è l'insufficienza pancreatica esocrina, che porta a difficoltà digestive significative, come la steatorrea, che si manifesta con l'eliminazione di feci oleose e maleodoranti. La gestione di questa condizione può includere l'uso di enzimi pancreatici sostitutivi per migliorare la digestione.

La comprensione di questi test e tecniche diagnostiche è cruciale per una gestione efficace della pancreatite cronica. Sebbene i test diretti come l'EUS e l'ERCP siano fondamentali nelle fasi più avanzate, i test indiretti come l'analisi degli enzimi pancreatici e i test del respiro hanno un ruolo crescente nella valutazione delle fasi precoci della malattia, nonostante la limitata sensibilità nelle fasi iniziali. La combinazione di diversi approcci diagnostici permette di ottenere una visione completa della patologia, supportando decisioni terapeutiche più mirate.

Quali sono le cause più probabili della diarrea? Un'analisi delle caratteristiche cliniche e epidemiologiche

La diarrea è una condizione comune, ma le sue cause possono variare notevolmente, e la sua classificazione è fondamentale per una diagnosi accurata. A seconda delle caratteristiche delle feci, è possibile distinguere tra diversi tipi di diarrea, come quella acquosa, grassa o infiammatoria, che forniscono indicazioni importanti sulla causa sottostante. Iniziamo ad esplorare le principali categorie, con particolare attenzione a quelle croniche.

La diarrea acquosa, per esempio, può essere suddivisa in due categorie principali: di tipo secretoria e osmotica. La diarrea secretoria è spesso legata a infezioni batteriche, come quelle causate da tossine batteriche, o a malattie infiammatorie intestinali come la colite ulcerosa o la malattia di Crohn. Essa può essere anche il risultato di malattie endocrine, come l'ipertiroidismo o il tumore secreto di polipeptide intestinale vasoattivo (VIPoma). In queste condizioni, l'intestino non riesce a riassorbire correttamente gli elettroliti o li secrete direttamente, con conseguente accumulo di acqua nel lume intestinale.

La diarrea osmotica, invece, si verifica quando il corpo non è in grado di assorbire correttamente alcuni nutrienti, come nel caso delle malassorbimento di carboidrati o di lassativi osmotici. In questa situazione, l'ingestione di sostanze poco assorbibili trattiene l'acqua nel tratto intestinale, senza che vi sia un significativo assorbimento elettrolitico.

Un'altra forma di diarrea molto interessante è quella grassa, che può essere causata da malattie che alterano l'assorbimento dei grassi. Le feci grasse, facilmente riconoscibili tramite il test qualitativo Sudan o analisi quantitative di collezioni fecali, sono caratterizzate dalla presenza di grasso non digerito. Le cause principali della diarrea grassa includono malattie della mucosa intestinale, come la celiachia e la malattia di Whipple, o la sindrome da sovraccrescita batterica intestinale, dove un eccesso di batteri nel piccolo intestino interferisce con il normale processo di digestione.

La diarrea infiammatoria, invece, è spesso legata a infezioni batteriche o virali, ma può anche essere il risultato di malattie croniche come la colite ulcerosa, la malattia di Crohn, o le infezioni parassitarie come l'amebiasi. In questi casi, la diarrea può contenere sangue o pus, segni clinici di infiammazione attiva. Se tali segni non sono visibili, possono essere rilevati attraverso test di sangue occulto nelle feci o mediante colorazione per neutrofili, che evidenziano la risposta infiammatoria.

Dal punto di vista epidemiologico, le cause di diarrea variano in base al contesto in cui si verifica. La diarrea del viaggiatore, per esempio, è generalmente causata da infezioni batteriche acute o infezioni parassitarie come la giardiasi e l'amebiasi. Nei pazienti con AIDS, le infezioni opportunistiche, come la critosporidiosi e la infezione da citomegalovirus, sono tra le cause più comuni. Nei pazienti istituzionalizzati, la diarrea può derivare da infezioni come la colite da Clostridioides difficile, da intossicazioni alimentari, o da colite ischemica.

Inoltre, le diarree possono essere causate da disturbi sistemici come disfunzioni endocrine, in particolare in condizioni come il diabete mellito, il morbo di Addison e il tumore endocrino multiplo tipo 1 (sindrome di Wermer). Altre condizioni sistemiche che possono contribuire includono malattie ematologiche, come leucemie e linfomi, e disturbi del sistema immunitario, come l'AIDS e l'amiloidosi.

Un altro aspetto cruciale è la distinzione tra diarrea secretoria e osmotica, che può essere effettuata misurando gli elettroliti fecali e calcolando il gap osmotico fecale. La misurazione del gap osmotico è fondamentale per determinare se la diarrea è di tipo secretorio, in cui gli elettroliti sono presenti in abbondanza, o osmotica, dove gli elettroliti sono bassi, indicando che l'acqua nel lume intestinale è trattenuta da sostanze osmoticamente attive non assorbibili.

Nell'approccio iniziale alla diarrea cronica, è fondamentale raccogliere una storia clinica dettagliata, valutare i segni fisici specifici e condurre semplici test di laboratorio per classificare la diarrea in base alle sue caratteristiche principali. La raccolta quantitativa delle feci su un periodo di 48-72 ore, sebbene non sempre necessaria, può fornire informazioni utili sull'escrezione di fluidi, elettroliti e grassi, e quindi contribuire a una diagnosi più accurata.

Infine, la diagnosi differenziale della diarrea cronica richiede una comprensione approfondita delle possibili cause e una valutazione accurata della condizione clinica complessiva del paziente. La classificazione corretta, unita a test diagnostici mirati, è essenziale per intraprendere una terapia adeguata e migliorare la gestione del paziente.

Trattamento della perforazione duodenale: un caso di embolizzazione arteriosa guidata da radiologia interventistica

Il paziente, con una pressione arteriosa di 137/73 mm Hg, frequenza cardiaca di 97 battiti al minuto, e saturazione di ossigeno (SpO2) al 97% in aria ambiente, è stato sottoposto a un'endoscopia che ha rivelato un'ulcera duodenale circonferenziale con un vaso visibile. Il trattamento iniziale con una sonda bipolare ha portato a un miglioramento dell'emoglobina (H&H) a 8,5 g/dL e 25%, ma il paziente ha continuato a manifestare melena voluminosi e un abbassamento progressivo dell'emoglobina a 5,3 g/dL e 16%. Questo ha portato a una consulenza di radiologia interventistica per una possibile embolizzazione.

Un'angiografia, condotta con tomografia computerizzata (CTA), ha mostrato una fuoriuscita arteriosa attiva nella prima e seconda porzione del duodeno, proveniente dal ramo sopradodale dell'arteria gastroduodenale. L'angiogramma ha confermato la presenza di una significativa emorragia arteriosa proveniente da questo ramo. In risposta a questa condizione, è stata eseguita una embolizzazione con spirali di coil e gelfoam, un intervento che ha contribuito al fermo dell'emorragia.

Successivamente all'embolizzazione, i livelli di emoglobina sono migliorati a 8,8 g/dL e 28%, con una stabilizzazione delle condizioni generali del paziente. Dopo 3 giorni di monitoraggio e trattamento ospedaliero, il paziente è stato dimesso.

Il trattamento radiologico interventistico, come l'embolizzazione, è stato un passo fondamentale nella gestione di una complicanza potenzialmente fatale, quale l'emorragia del tratto gastrointestinale superiore dovuta a ulcera duodenale. La scelta di un trattamento minimamente invasivo come l'embolizzazione ha permesso di evitare interventi chirurgici più invasivi, riducendo i rischi per il paziente e migliorando significativamente l'outcome.

Questi interventi sono possibili grazie all'evoluzione delle tecniche di imaging, come la tomografia computerizzata angiografica (CTA), che offre una visibilità precisa delle lesioni vascolari, e all'angiografia, che consente la localizzazione accurata delle emorragie. Questi strumenti sono diventati essenziali in radiologia interventistica per la diagnosi e il trattamento di emergenze gastrointestinali gravi.

Inoltre, la gestione di questo tipo di emergenza medica deve considerare vari fattori, tra cui la rapida diagnosi, la scelta della tecnica di trattamento più appropriata e il monitoraggio continuo delle condizioni del paziente. La collaborazione tra gastroenterologi, radiologi interventisti e chirurghi è fondamentale per il trattamento efficace di ulcere duodenali complicate.

Quali sono i criteri e le strategie chirurgiche nel trattamento dell’ulcera peptica perforata?

L’ulcera gastrica di tipo V si manifesta prevalentemente come complicanza da farmaci antiinfiammatori non steroidei o aspirina, e nella maggior parte dei casi guarisce rapidamente con l’interruzione del farmaco e l’inizio di una terapia con antagonisti dei recettori H2 o inibitori della pompa protonica (PPI). Tuttavia, la mancata guarigione o la resistenza alla terapia impone la considerazione di una possibile trasformazione maligna sottostante. In questo contesto, la chirurgia non è un trattamento di prima linea, ma riservata a complicanze.

L’ulcera duodenale, invece, ha subito una profonda trasformazione nell’approccio terapeutico grazie alla diffusione degli inibitori della pompa protonica. La vagotomia selettiva, un tempo considerata trattamento standard, è ora riservata ai casi refrattari, in cui la recidiva è frequente. In pazienti fumatori con ulcera duodenale, la sola vagotomia con piloroplastica risulta meno efficace per via dell’elevata incidenza di recidive; perciò si preferisce la combinazione vagotomia e antrectomia.

La perforazione dell’ulcera peptica è una complicanza acuta con presentazione clinica tipica. I pazienti riferiscono un dolore epigastrico sordo e localizzato nei giorni precedenti, che diventa rapidamente diffuso in seguito alla fuoriuscita di succo gastrico acido nella cavità peritoneale. Tale versamento provoca una reazione infiammatoria generalizzata, associata a febbre, tachicardia, tachipnea e ipotensione. La perforazione posteriore del duodeno può erodere l’arteria gastroduodenale, provocando un sanguinamento digestivo superiore. L’esame fisico rivela un addome rigido e doloroso con immobilità del paziente. In circa il 70% dei casi si evidenzia aria libera intraperitoneale alla radiografia addominale in ortostatismo. La tomografia computerizzata, sebbene più sensibile, è raramente necessaria perché i segni clinici sono altamente indicativi e un ritardo nell’intervento peggiora la prognosi.

Le ulcere gastriche perforate, che rappresentano circa il 40% di tutte le ulcere peptiche perforate, richiedono quasi sempre un intervento chirurgico. A differenza delle ulcere duodenali, che in rari casi possono guarire spontaneamente, le ulcere gastriche non si chiudono autonomamente, comportano un rischio oncologico e, nei casi legati a infezione da Helicobacter pylori, l’ambiente ipoacido favorisce la proliferazione batterica e la formazione di ascessi.

La gestione medica è controindicata in presenza di terapia concomitante con corticosteroidi, dimostrata persistenza della perdita attraverso esami contrastografici o se il paziente è già in terapia con antagonisti H2 o PPI al momento della perforazione.

L’intervento chirurgico si pone tre obiettivi principali: la chiusura della perforazione, la bonifica della cavità addominale e, se indicato, l’intervento definitivo sull’ulcera. La chiusura può essere eseguita con il "Graham patch", che consiste nell’applicazione di un lembo omentale sul difetto, oppure con una sutura del difetto associata a rinforzo omentale (patch modificato), riservato a perforazioni piccole e poco infiammate. Una bonifica peritoneale abbondante è sempre necessaria.

Nei pazienti stabili, con sintomi da meno di 24 ore e senza gravi comorbidità, l’intervento definitivo sull’ulcera è raccomandato. Negli altri casi, il trattamento post-operatorio con PPI e, se applicabile, eradicazione dell’H. pylori resta la strategia principale.

L’uso sistematico di drenaggi chirurgici nella sede della riparazione è dibattuto. Studi più datati non hanno dimostrato benefici significativi, ma analisi più recenti indicano una riduzione, seppur lieve, delle reinterventi post-operatori. L’imaging radiologico post-operatorio, di routine, per valutare la tenuta della riparazione, è sconsigliato: prolunga la degenza ospedaliera senza reali vantaggi clinici e va riservato solo in presenza di sospetto clinico di deiscenza.

Nel trattamento dell’ulcera gastrica perforata, l’escissione dell’ulcera, con o senza vagotomia e drenaggio, è l’intervento preferito. È fondamentale escludere il carcinoma gastrico, pertanto si esegue una biopsia o una resezione diagnostica. Per ulcere perforate in sede antrale, si può optare per un’antrectomia comprendente l’ulcera, eventualmente associata a vagotomia in pazienti ipersecretori. La scelta della procedura va personalizzata, tenendo conto delle comorbidità, dell’età e della gravità clinica.

Per l’ulcera duodenale perforata, il trattamento di p

Come viene diagnosticato e trattato l'infezione da HCV?

Tutti i soggetti per i quali è raccomandato lo screening dell'HCV dovrebbero essere inizialmente sottoposti al test degli anticorpi contro l'HCV. Un test positivo per gli anticorpi dell'HCV può indicare una infezione attiva, una infezione passata che si è risolta, o un falso positivo. Pertanto, è necessario un test per rilevare la viremia da HCV (HCV-RNA tramite reazione a catena della polimerasi, PCR) per confermare la presenza di un'infezione attiva da HCV e per orientare la gestione clinica. Per accelerare la diagnosi, è consigliato che, quando possibile, il primo test diagnostico sia "anticorpi HCV con riflesso a HCV-RNA PCR". In questo modo, il laboratorio riceve automaticamente l'indicazione per eseguire la quantificazione virale se il test degli anticorpi risulta positivo, evitando così una seconda visita e un nuovo prelievo di sangue.

Il test HCV-RNA dovrebbe essere eseguito anche nelle persone con un test negativo per gli anticorpi HCV che sono immunocompromesse (ad esempio, persone sottoposte a emodialisi cronica o che ricevono chemioterapia) o che potrebbero essere state esposte all'HCV negli ultimi sei mesi, poiché queste persone potrebbero essere negative per gli anticorpi HCV pur essendo viremmiche. Le persone con un test positivo per gli anticorpi HCV e un risultato negativo per HCV-RNA tramite PCR dovrebbero essere informate che non presentano evidenza laboratoristica di infezione attiva da HCV, sebbene possa esserci stata un'esposizione precedente. In genere, ulteriori test per l'HCV non sono necessari, ma il test HCV-RNA può essere ripetuto in caso di forte sospetto di infezione recente o in pazienti con un rischio continuo di infezione da HCV.

L'HCV è un virus a RNA che non si integra nel genoma dell'ospite e può essere eradicato definitivamente con un ciclo di trattamento con farmaci antivirali diretti (DAA). È fondamentale testare la presenza di HCV-RNA 12 settimane (o più) dopo il completamento del trattamento. Un risultato negativo per HCV-RNA in quel momento è definito come risposta virologica sostenuta (SVR), che è coerente con la guarigione da un'infezione cronica da HCV. I pazienti che ottengono una SVR possono avere una recidiva dell'HCV a causa di una reinfezione o di una recidiva tardiva, ma quest'ultima è molto rara (<1%). Gli anticorpi HCV rimangono positivi nella maggior parte dei pazienti anche dopo aver ottenuto una SVR; pertanto, è raccomandato l'uso di un test che rilevi l'HCV-RNA per monitorare una possibile recidiva o reinfezione.

Il trattamento è raccomandato per tutti gli individui con infezione attiva da HCV (sia acuta che cronica) al fine di prevenire lo sviluppo di complicazioni come cirrosi, scompenso epatico, carcinoma epatocellulare (HCC) e manifestazioni extraepatiche. Inoltre, il trattamento è indicato per prevenire la trasmissione dell'infezione da HCV ad altri, compresi i bambini nati da madri infette da HCV. L'unica eccezione sarebbe rappresentata da persone con una aspettativa di vita ridotta che non può essere migliorata dal trattamento per HCV, dal trapianto di fegato o da altre terapie mirate.

Prima di iniziare la terapia antivirale, è necessaria una valutazione pre-trattamento per valutare la gravità della fibrosi e altri fattori di base che potrebbero influire sul trattamento dell'HCV e determinare se il paziente debba essere co-gestito con il supporto di uno specialista. Durante la valutazione iniziale, devono essere ottenuti una visita fisica e una storia dettagliata del paziente, che includa i fattori di rischio di acquisizione dell'HCV, eventuali trattamenti precedenti per HCV, la presenza di altre malattie epatiche e i segni di cirrosi. I pazienti devono essere valutati anche per consumo di alcol, uso di droghe per via endovenosa (IDU), indice di massa corporea, diabete e sindrome metabolica, condizioni che spesso coesistono con l'infezione da HCV.

La valutazione della fibrosi è raccomandata per tutti i pazienti con infezione cronica da HCV. Lo scopo principale di tale valutazione è identificare la fibrosi avanzata, che potrebbe richiedere un riferimento a uno specialista. La fibrosi può essere valutata tramite metodi non invasivi come i test sierologici (ad esempio, il punteggio FIB-4 o l'indice AST-platelet ratio) e le tecniche anatomiche come l'elastografia (FibroScan) o l'ecografia addominale con imaging a impulso di forza acustica. La risonanza magnetica elastografica, sebbene probabilmente la più precisa tra i metodi non invasivi, non è ampiamente disponibile e risulta costosa. È importante riconoscere che i test non invasivi sono ideali per escludere la fibrosi, ma tendono a sovrastimare la sua presenza; pertanto, quando un test risulta negativo, si può essere abbastanza certi che la fibrosi sia assente. In caso di discordanza tra i test, può essere necessaria una biopsia epatica per una valutazione completa.

Infine, la genotipizzazione dell'HCV, che una volta era essenziale per determinare il regime terapeutico, non è più necessaria per i pazienti naïve al trattamento, poiché i regimi antivirali attuali sono pangenotipici, ossia ugualmente efficaci indipendentemente dal genotipo del virus. Tuttavia, nei pazienti con cirrosi o con trattamenti precedenti falliti, la genotipizzazione può ancora essere utile, poiché alcune variazioni genotipiche potrebbero influenzare la scelta della terapia.