Una teoria della traduzione fondata sugli studi culturali non si limita a spiegare come le parole passano da una lingua all’altra, ma si propone di trasformare il modo stesso in cui comprendiamo il significato e l’identità. Essa non si articola solo in termini deduttivi — come una sequenza di proposizioni logiche — ma si realizza performativamente, attraverso esempi, paradossi e mutamenti di prospettiva. L’intento non è solo quello di esporre un contenuto, ma di lasciare spazi vuoti che il lettore riempie autonomamente, partecipando così all’invenzione stessa della teoria.

Una tale teoria implica una logica che non è esterna al testo, ma che ne modella la forma. Le affermazioni, le domande, le descrizioni che compongono questo discorso sono segni nel senso peirciano: stanno per qualcosa per qualcuno in qualche modo. Ma il loro significato cambia con l’uso. È proprio questa trasformazione, questa eccedenza semiotica, a generare nuove prospettive. La traduzione culturale, intesa come sostituzione trasformativa di segni, apre possibilità interpretative che sfuggono al controllo dell’intenzionalità originaria. Ogni volta che traduciamo, eccediamo. Ogni significato genera altri significati, altri orizzonti, altre politiche.

Ma la stessa logica che apre questi spazi può anche chiuderli. Ed è questo il pericolo insito nella traduzione come potere. Quando chi detiene il potere manipola i segni per ridurre il campo del pensabile, la traduzione si trasforma in uno strumento di esclusione e controllo. In questo senso, il romanzo Nineteen Eighty-Four di George Orwell non è soltanto una distopia, ma un vero e proprio manuale di traduzione — o meglio, di traduzione perversa.

Nel suo appendice “The Principles of Newspeak”, Orwell descrive una lingua progettata per rendere letteralmente impensabile ogni pensiero eretico. Qui la traduzione culturale viene messa al servizio del totalitarismo: non si tratta più di rendere accessibile una cultura a un’altra, ma di sostituire i segni della realtà con una versione sterilizzata, ridotta, controllata. La traduzione non come apertura, ma come chiusura. Non come accoglienza dell’altro, ma come cancellazione del possibile.

La Novlingua di Orwell opera esattamente attraverso il meccanismo di sostituzione e trasformazione descritto in precedenza. Ogni parola eliminata riduce la capacità di pensare. Ogni nuova parola introdotta ridefinisce il mondo. Ma è una ridefinizione imposta dall’alto, priva di eccedenza, che mira all’equilibrio statico del significato. Il soggetto che vive in questa lingua non può più guardare da un’altra angolazione, perché non ha più parole per farlo. La vista parallax è sostituita da una vista unica, monodimensionale.

La lezione di Orwell è chiara: ogni teoria della traduzione deve fare i conti con il potere. Ogni atto di traduzione è anche un atto politico. Nella misura in cui scegliamo i segni da sostituire, i significati da trasmettere, i mondi da evocare o escludere, stiamo anche scegliendo un’etica. Non esiste neutralità nella traduzione. E se non teniamo conto della possibilità che essa venga utilizzata per opprimere, rischiamo di trasformare uno strumento di emancipazione in un’arma ideologica.

In un’epoca di globalizzazione accelerata, dove i contatti tra culture si moltiplicano e le identità si sfaldano, sviluppare una teoria critica della traduzione culturale non è un lusso intellettuale, ma una necessità etica. L’obiettivo non è solo comprendere come comunichiamo, ma costruire gli strumenti per farlo in modo giusto. Tuttavia, nulla garantisce il successo di questo progetto. La stessa logica che apre all’invenzione può essere sfruttata per chiudere ogni possibilità di pensiero. La traduzione culturale può diventare un atto di ospitalità o un atto di esclusione. Il discrimine sta nel modo in cui gestiamo l’eccedenza del significato, e nel tipo di potere che scegliamo di esercitare.

Per comprendere pienamente le implicazioni di questa teoria, è importante che il lettore tenga presente che ogni uso della lingua — ogni frase, ogni parola scelta o evitata — contribuisce a modellare la realtà. La traduzione non è mai innocente. È una forma di intervento nel mondo. La consapevolezza critica di questa verità è ciò che distingue una pratica etica della traduzione da una pratica manipolativa. Il traduttore, come l’autore, è responsabile della realtà che contribuisce a costruire.

Perché non ci fidiamo più delle notizie?

Nel contesto delle democrazie nordamericane ed europee, la crescente polarizzazione politica ha reso evidente quanto i media siano percepiti come parziali, indipendentemente dalla loro collocazione ideologica. Il mondo raccontato da Fox News non è lo stesso di quello proposto da NPR, dalla CBC o dal New York Times. Questa dissonanza solleva una domanda cruciale: quanto è vera la realtà che i giornalisti ci presentano?

Con l’avvento di internet, dei canali all-news e, più recentemente, dei social media, il concetto di oggettività giornalistica, un tempo caposaldo della professione, ha progressivamente perso la sua capacità di generare fiducia. Negli anni Settanta, il giornalismo godeva ancora di un’autorevolezza diffusa, ma già negli anni Novanta la situazione cominciava a cambiare. Le reti via cavo, sostenute dagli inserzionisti, iniziarono a frammentare il pubblico, segmentandolo per visioni politiche. L’oggettività si trasformò in strategia: un rituale che proteggeva i giornalisti dalle accuse di distorsione, ma che raramente riusciva a superare il filtro dell’ideologia.

Nel periodo precedente e successivo alle elezioni americane del 2016, la sfiducia nel giornalismo raggiunse livelli storici. La maggioranza degli statunitensi credeva che i media fossero di parte; tra i repubblicani, oltre tre quarti non si fidavano della stampa. Anche tra i democratici, la fiducia diminuiva man mano che ci si allontanava dal centro politico. L’idea di fake news trovava un terreno fertile: non era più vista semplicemente come una bufala, ma come una versione distorta della realtà, poco distinguibile dal cattivo giornalismo.

Contemporaneamente, la fiducia nei social media era ancora più bassa. Solo il 4% degli adulti statunitensi che utilizzavano il web dichiarava di fidarsi molto delle informazioni ottenute tramite queste piattaforme, mentre un altro 30% affermava di fidarsi “un po’”. In un ambiente così saturo di scetticismo, la distinzione tra disinformazione deliberata e semplice incompetenza giornalistica si assottigliava fino a scomparire.

A complicare ulteriormente il quadro intervennero le operazioni coordinate di disinformazione. L’Agenzia per la Ricerca su Internet, con sede a San Pietroburgo, impiegava centinaia di persone per diffondere propaganda filogovernativa russa online, fingendo di essere comuni cittadini occidentali. Questi “troll professionisti” utilizzavano identità fittizie e attivavano centinaia di account per amplificare messaggi mirati, generando l’illusione di un’opinione pubblica coesa e spontanea. Il loro obiettivo non era semplicemente ingannare, ma polarizzare, confondere, paralizzare il giudizio critico.

Eppure, la fake news non è un’invenzione del XXI secolo. Già nel XV secolo circolavano storie infondate come le calunnie antisemite del sangue. Dopo il terremoto di Lisbona del 1755, si diffusero manifesti che lo interpretavano come punizione divina, spesso con il supporto delle autorità ecclesiastiche. Persino Thomas Jefferson scriveva nel 1807 che “l’uomo che non legge mai i giornali è meglio informato di chi li legge, poiché chi non sa nulla è più vicino alla verità di chi è riempito di falsità ed errori”.

L’espressione “fake news” ha avuto nel tempo un uso fluttuante. Durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, i timori per la propaganda provocarono un picco nell’uso del termine, come durante la Guerra Fredda, quando il concetto di dezinformatsiya sovietica alimentava sospetti e teorie. Ma a partire dagli anni 2000, con la crescente competizione tra reti televisive e l’affermarsi di format ibridi, si osserva una nuova impennata. Programmi come The Daily Show, iniziato nel 1996 e guidato da Jon Stewart dal 1999, non solo parodiavano il linguaggio dell’informazione, ma diventavano per molti giovani una fonte primaria di notizie. Il loro successo dimostrava che la satira poteva fungere da veicolo per il coinvolgimento politico, ma al contempo contribuiva a erodere ulteriormente l’autorità del giornalismo tradizionale.

Dal 2016, con l’elezione di Donald Trump e l’esplosione del termine “fake news” nel dibattito pubblico, la sfiducia nei media si è trasformata in una crisi epistemologica. Non si tratta più di decidere chi ha ragione o torto, ma di comprendere se esista ancora una base condivisa di realtà. In assenza di un terreno comune, la comunicazione pubblica si riduce a una competizione tra bolle informative, dove ogni verità è relativa al gruppo che la condivide.

In un simile contesto, è essenziale comprendere che l’erosione della fiducia non è soltanto il risultato della manipolazione esterna o del sensazionalismo mediatico, ma riflette una trasformazione profonda nel rapporto tra informazione, potere e percezione. L’ipersegmentazione del pubblico ha incentivato un modello di comunicazione che non informa, ma conferma. La verità, sempre più spesso, è ciò che ci fa sentire parte di una comunità ideologica.

Per il lettore è cruciale cogliere che la crisi della fiducia nei media non può essere spiegata semplicemente come un problema di correttezza giornalistica o di fact-checking. Essa tocca la struttura stessa del discorso pubblico nelle società moderne. Comprendere il funzionamento delle logiche editoriali, il ruolo degli inserzionisti, la selezione delle fonti e la costruzione della notiziabilità diventa oggi un atto necessario di alfabetizzazione democratica. La fiducia non è un presupposto: è il prodotto di una trasparenza conquistata, mai concessa.

Come la traduzione culturale e la teoria della comunicazione ci guidano nel salto nell’ignoto

La traduzione culturale ci offre uno strumento per comprendere come il significato non sia mai stabile in modo assoluto, ma sempre relativo e mutevole. Questa visione ci permette di sviluppare strategie per vedere il mondo da prospettive diverse e, cosa ancor più importante, per persuadere gli altri a fare lo stesso. È un fenomeno quotidiano e generale, un’esperienza in cui tutti siamo coinvolti costantemente. La teoria della comunicazione rappresenta un’applicazione specifica di questo processo: studia come utilizziamo queste strategie e ne affina la comprensione attraverso l’osservazione e l’induzione. Entrambe implicano decisioni prese con informazioni incomplete, una condizione inevitabile che richiede flessibilità e apertura. Nel contesto di questa riflessione, la critica scettica diventa parte integrante del discorso: senza un confronto critico le argomentazioni rischierebbero di perdere vigore e profondità.

La critica più comune potrebbe riguardare la mancanza di generalizzabilità delle affermazioni, il fatto che l’analisi si basi su un insieme eterogeneo di testi e casi, che vanno da Claude Shannon a Pussy Riot, passando per Orwell e Donald Trump, senza alcuna pretesa statistica o prova empirica universale. Ma questa critica manca il punto centrale: il testo è performativo, cioè costruisce il proprio significato attraverso esempi concreti che invitano a un ragionamento induttivo e dialogico. Le argomentazioni non sono falsificabili nel senso tradizionale, non si propongono di essere veri o falsi, ma piuttosto persuadono, invitano a rispondere, a confutare, a migliorare. La teoria si nutre della relazione dinamica con il lettore, che diventa co-autore nel processo di costruzione del significato.

Questa apparenza di mancanza di ordine e di coerenza può essere vista come una scelta strategica. Nel mondo reale, quando ci troviamo a dover agire con conoscenze incomplete, dobbiamo improvvisare, adattarci, cercare strumenti a portata di mano e modificarli per nuovi scopi. Allo stesso modo, la selezione eclettica dei testi e delle teorie serve a dimostrare come, nel salto nell’ignoto, sia necessario un approccio parallaxico: girare, spostare, osservare da diverse angolazioni per trovare lo strumento giusto che ci consenta di scavare più a fondo. È un’epistemologia della contingenza e dell’azione, che ci costringe a pensare sul momento, senza avere tutte le risposte pronte.

I limiti di applicazione delle conclusioni al di fuori dei contesti esaminati sono evidenti e ammessi dall’autore, che si concentra sul proprio ambiente di lavoro, la classe, i suoi studenti, i loro incontri settimanali con ciò che si può conoscere e ciò che resta ignoto. Il riconoscimento del limite del sapere, soprattutto quando si parla del “mondo” mediato dai nostri sensi, è cruciale. La teoria è un tentativo continuo di spiegare la nostra esperienza del mondo; è buona solo nella misura in cui questa spiegazione corrisponde all’esperienza stessa, e inevitabilmente è sempre da migliorare.

In questo senso, la teoria diventa una forma di tecnè, una pratica artistica e artigianale che si apprende facendo. Essa richiede di immergersi nella comunicazione stessa, di “saltare dentro” la teoria come in una lingua straniera da imparare sul campo. Attraverso questo gesto, l’atto del “jumping in” si configura come un atto etico che ci chiama a rivedere il nostro rapporto con l’altro culturale, riconoscendo la comune umanità che ci unisce. Il processo di traduzione e trasformazione dei segni, delle parole, delle idee apre una “politica dell’invenzione” che permette a chi era prima percepito come estraneo o minaccioso di trovare finalmente il proprio posto all’interno della comunità.

Oltre quanto detto, è importante comprendere che questa prospettiva non solo illumina i meccanismi della comunicazione interculturale, ma invita a una profonda riflessione sul nostro atteggiamento verso l’alterità e il conflitto. La traduzione culturale, in quanto pratica dinamica e sempre imperfetta, ci mostra che il senso non è mai dato una volta per tutte, ma si costruisce nella relazione, nel confronto, nella negoziazione continua. Dunque, comprendere queste dinamiche significa anche sviluppare una responsabilità etica nel modo in cui partecipiamo alle conversazioni, riconoscendo la fragilità del nostro sapere e la necessità di ascoltare, adattarsi, e trasformare insieme.

Come si forma e si diffonde la disinformazione nell’era contemporanea?

La disinformazione non è semplicemente una questione di notizie false o inesattezze occasionali; essa rappresenta un fenomeno complesso che si struttura e si diffonde attraverso meccanismi comunicativi profondamente radicati nelle dinamiche culturali, sociali e politiche contemporanee. Studi come quelli di Derakhshan e Wardle definiscono la disinformazione come un ecosistema in cui vari attori, intenzionalmente o meno, contribuiscono alla produzione e alla diffusione di contenuti ingannevoli. Questo ecosistema si basa non solo sulla manipolazione diretta dei fatti, ma soprattutto sull’uso strategico del linguaggio, sulla selezione delle informazioni e sul framing, vale a dire sulla costruzione di una cornice interpretativa che guida la percezione del pubblico.

Il framing, secondo Entman, è un processo che enfatizza certi aspetti della realtà e ne ignora altri, modellando così l’esperienza e l’interpretazione degli eventi. La rilevanza di questa nozione si evidenzia nella comunicazione politica, dove figure pubbliche come Donald Trump hanno utilizzato espressioni forti e polarizzanti, come nel caso della sua definizione degli immigrati irregolari come “animali”, per costruire narrazioni che rafforzano una determinata agenda politica e sociale, influenzando così l’opinione pubblica.

Un ulteriore elemento da considerare è il ruolo delle emozioni e delle motivazioni cognitive nella ricezione delle informazioni. Come sottolineano Frimer, Skitka e Motyl, sia i liberali che i conservatori tendono a evitare l’esposizione a opinioni divergenti, favorendo la creazione di bolle informative che rafforzano credenze preesistenti e rendono più difficile un confronto critico e oggettivo. Questa tendenza cognitiva si combina con il lavoro dei media, che spesso privilegiano un approccio sensazionalistico o ideologicamente orientato, minando la fiducia del pubblico e alimentando il circolo vizioso della disinformazione.

L’industria culturale, come descritta da Horkheimer e Adorno, contribuisce a questa dinamica attraverso la produzione di contenuti massificati che tendono alla standardizzazione e alla manipolazione delle coscienze, impedendo una riflessione critica e favorendo una passività attiva nel pubblico. In questo contesto, l’obiettività giornalistica, pur rimanendo un ideale, si trova messa a dura prova da pressioni economiche, politiche e culturali che ne limitano l’efficacia e l’autonomia.

Importante è anche comprendere come la traduzione e la comunicazione globale influiscano sul fenomeno della disinformazione. La mediazione linguistica non è solo un trasferimento di significati, ma un processo di trasformazione culturale che può amplificare o attenuare determinati messaggi, contribuendo così a un quadro complessivo di interpretazione spesso distorto o parziale.

Inoltre, la pedagogia critica e post-critica suggerisce un approccio educativo che vada oltre la semplice trasmissione di informazioni, promuovendo la capacità di analisi, la consapevolezza delle strutture ideologiche sottostanti e la responsabilità del soggetto nella costruzione del sapere. Questa prospettiva è fondamentale per contrastare efficacemente la disinformazione, che non si limita a un problema di contenuto, ma è radicata nelle modalità di ricezione e nella struttura stessa della comunicazione contemporanea.

Infine, la consapevolezza che la disinformazione si nutre anche di fattori sociali, come la polarizzazione politica e la crisi di fiducia nelle istituzioni, è cruciale per una comprensione completa del fenomeno. Solo attraverso un’analisi multidisciplinare che tenga conto degli aspetti cognitivi, culturali, linguistici e politici è possibile delineare strategie efficaci per la sua mitigazione.

È quindi fondamentale che il lettore riconosca la disinformazione non come un mero problema di verità o falsità, ma come un fenomeno complesso e multifattoriale che richiede un approccio critico e consapevole, capace di decodificare i meccanismi comunicativi e di promuovere una cultura della responsabilità e della riflessione attiva.

Teoria e Esperienza: Il Processo di Riflessione e Perfezionamento

La teoria si fonda su un principio fondamentale: cercare di spiegare l'esperienza del mondo che viviamo. Ogni autore, quando scrive, parte da una domanda che intende risolvere, una domanda che guida la sua riflessione e la sua ricerca. Spesso queste domande sono esplicite, ma altre volte rimangono implicite, celate dietro l'argomentazione che l'autore propone. Riuscire a identificare tali domande è il primo passo per capire la validità e la portata delle risposte che l'autore offre, argomentando per sostenere la propria posizione.

Il compito di analizzare un testo teorico si articola in tre fasi principali: identificare la domanda che l'autore cerca di rispondere, esaminare le argomentazioni che propone e, infine, offrire una critica di queste argomentazioni. Quest'ultima fase è quella che, tradizionalmente, risulta più complessa, ma è anche la più ricca di potenziale per lo sviluppo di una comprensione critica. La critica, infatti, può assumere diverse forme: si può individuare un'omissione nell'argomentazione, si può riscontrare una contraddizione tra ciò che l'autore propone e ciò che osserviamo nella nostra esperienza quotidiana, oppure si può cogliere una contraddizione interna al testo stesso.

L'aspetto più interessante di questo approccio critico è che non richiede necessariamente una "negazione" del testo. Piuttosto, si tratta di una forma di dialogo che invita a mettere in discussione le risposte offerte e a riflettere su ciò che manca, su ciò che potrebbe essere stato detto ma non lo è stato. Ad esempio, se ci accorgiamo che un autore non ha preso in considerazione un aspetto della realtà che noi riteniamo rilevante, la nostra critica può ruotare attorno proprio a questo punto. Spesso, se non riusciamo a trovare contraddizioni manifeste, possiamo sempre ripiegare su una questione che non è stata affrontata: un tema trascurato che potrebbe arricchire la riflessione dell'autore.

Tuttavia, la critica non si limita a mettere in luce le lacune o le contraddizioni di un testo. Essa, infatti, è parte di un processo continuo di raffinamento del pensiero. La teoria non è mai definitiva, non esiste una risposta definitiva. Ogni spiegazione che la teoria offre è, per sua natura, imperfetta. La teoria cerca di spiegare il mondo che ci circonda, ma non può mai abbracciarlo completamente. Questo è il punto cruciale: nessuna teoria è completa. Quando un'interpretazione teorica non corrisponde all'esperienza che viviamo, essa fallisce. Ma questo fallimento non è definitivo, anzi è il punto di partenza per il miglioramento. Ogni errore, ogni imprecisione diventa un'opportunità per perfezionare la teoria, affinare le spiegazioni e cercare di avvicinarsi sempre più a una visione soddisfacente della realtà.

Così, la teoria non si limita a essere un insieme di risposte fisse e immutabili, ma è un processo che evolve, un "artigianato", un atto di continuo apprendimento e riflessione. È una pratica che coinvolge non solo chi scrive, ma anche chi legge e, soprattutto, chi insegna. Insegnare la teoria, infatti, è un processo di apprendimento reciproco, che si sviluppa insieme agli studenti. L'insegnante non solo guida gli studenti attraverso il contenuto, ma impara anche da loro. Le difficoltà che incontrano nell'affrontare un testo difficile sono spesso simili alle difficoltà che ogni lettore, in particolare un lettore alle prime armi, può incontrare. Da qui nasce il valore di un approccio che mira a rendere naturale la critica e la riflessione continua.

La comprensione di un testo teorico si sviluppa attraverso l'applicazione pratica della teoria stessa, con l'obiettivo di comprendere meglio l'esperienza. E questa comprensione non è mai definitiva, ma sempre in continua evoluzione, così come la pratica della teoria diventa parte integrante di un processo pedagogico che non riguarda solo gli studenti, ma anche chi li guida.

Ogni teoria, dunque, è un tentativo di comprendere e spiegare ciò che viviamo, ma nessuna teoria è mai davvero definitiva o completa. La ricerca di una spiegazione migliore è un processo continuo, che si nutre dell'interazione tra teoria ed esperienza. La sfida non sta nel cercare la teoria perfetta, ma nell'imparare a riflettere criticamente su ogni teoria che incontriamo, affinando le nostre spiegazioni attraverso il confronto con la realtà che ci circonda.