Il narcisismo patologico si presenta spesso come una facciata splendente: autocelebrazione, desiderio di possedere status e beni — auto di lusso, coppie importanti, case prestigiose — e la convinzione che tutti siano invidiosi di quell’immagine. Ma sotto questa apparenza di superiorità sussiste una fragile autostima, un nucleo ipersensibile che non sopporta la minima critica. Questa dicotomia produce comportamenti prevedibili e distruttivi: relazioni superficiali che si consumano alla comparsa di un’alternativa più scintillante, incapacità di mantenere legami duraturi, reazioni sproporzionate al rifiuto, e una proiezione costante di colpe sugli altri. L’arroganza non è affermazione di sé bensì maschera difensiva contro un sentimento di inadeguatezza che il narcisista rifiuta di riconoscere anche a sé stesso. Da qui la tendenza a dominare conversazioni, a pretendere privilegi e risorse, e quando il controllo sfugge, l’irritazione sfocia in rabbia o disprezzo.
Accanto al narcisismo, il bullismo emerge come strategia intenzionale di dominio. Il bullo cerca soggetti ritenuti deboli o devianti per restaurare il proprio equilibrio emotivo ferito. Le manifestazioni sono molteplici: violenza fisica, insulti ripetuti, esclusione sociale, attacchi basati su etnia o orientamento, manipolazioni relazionali e l’odierna forma digitale del cyberbullismo. Spesso la radice è familiare: modelli appresi, abusi subiti o stress prolungato che trasformano l’aggressività in strumento di autoaffermazione. Diversamente dal narcisista, il bullo può fraintendere intenzioni e segnali sociali, interpretando ostilità dove non ce n’è, e reagendo con vendetta.
Quando una figura pubblica legittima o normalizza l’aggressività retorica, l’effetto sociale può amplificarsi: un linguaggio autorizzato di derisione e demonizzazione rende meno costoso socialmente il comportamento intimidatorio. Questo fenomeno — percepito nei fatti come un aumento di atti discriminatori, incendi dolosi di luoghi di culto, violenze esplicite e aggressioni verbali — mostra come il contesto politico-culturale influenzi la soglia di tolleranza collettiva verso il pregiudizio e la violenza. Le parole di leader carismatici possono abbassare la soglia delle conseguenze, rendendo il bullismo non solo più visibile, ma più diffuso e gravido di effetti reali.
Le conseguenze sono sistemiche: relazioni personali erose, reti sociali spogliate della fiducia fondamentale, istituzioni chiamate a gestire crisi etiche e legali, e infine comunità frammentate che normalizzano la vendetta simbolica come reazione legittima. Il narcisista e il bullo condividono il fallimento nel riconoscere l’altro come soggetto di pari dignità; ma mentre il narcisista cerca ammirazione e status, il bullo mira al controllo e alla svalutazione dell’altro. Entrambi compromettono la possibilità di dialogo, rendendo la convivenza civile più fragile.
È importante comprendere che i fenomeni descritti non sono inevitabili né immutabili: richiedono interventi che vadano oltre la condanna episodica. Occorrono pratiche educative che sviluppino empatia, resilienza e competenze di gestione delle emozioni fin dall’infanzia; politiche pubbliche che sanzionino l’abuso e proteggano i soggetti vulnerabili; percorsi terapeutici mirati per chi presenta tratti narcisistici o comportamenti persecutori; e una cultura mediatica che non celebri l’aggressività come forma di successo. Senza questi sforzi coordinati, la società continua a pagare il prezzo di relazioni incrinate, costi economici ed erosione del capitale sociale.
La salute mentale e la politica: un'analisi del caso Trump
Il 20 aprile 2017, si è svolta una conferenza alla Yale School of Medicine, organizzata dal dottor Charles Dike, con lo scopo di esaminare la condizione psicologica di Donald Trump, presidente degli Stati Uniti. Sebbene la discussione fosse centrata sulla "pericolosità" del leader, piuttosto che su una diagnosi clinica definitiva, l'incontro ha rivelato una serie di preoccupazioni etiche e professionali per i professionisti della salute mentale. Tra i partecipanti, eminenti psichiatri e psicoanalisti, inclusi i dottori Lifton, Herman e Gilligan, hanno discusso delle implicazioni politiche e psicologiche della leadership di Trump, senza mai violare il cosiddetto "Goldwater Rule", una norma etica che vieta ai professionisti di fare diagnosi a personaggi pubblici senza una valutazione diretta.
In questa discussione, si è posto l'accento sul fatto che, per un professionista della salute mentale, la valutazione del comportamento umano non può essere ridotta a una semplice diagnosi di malattia mentale. Al contrario, i psichiatri sono chiamati a esaminare il comportamento in termini di funzionalità e pericolosità, in particolare quando tale comportamento può minacciare la sicurezza pubblica o compromettere il benessere collettivo. Non si tratta quindi di applicare un'etichetta diagnostica, ma di individuare potenziali segnali di pericolo che derivano da un comportamento psicologicamente deviante o patologico.
Questa problematica diventa ancora più complessa quando si considera la natura della politica moderna, che spesso divide la società lungo linee ideologiche fortemente polarizzate. Le critiche al presidente Trump, ad esempio, possono facilmente essere interpretate come attacchi politici da una parte o come legittime preoccupazioni per la salute mentale da un'altra. Tuttavia, la professione psichiatrica cerca di mantenere una posizione neutrale e scientifica, lontana dalle contese politiche, basandosi su dati e ricerche cliniche per valutare i rischi di un determinato comportamento.
Nella conferenza, si è sottolineato che un leader con tratti patologici, come il narcisismo e la sociopatia, può rappresentare una minaccia significativa per la stabilità e la sicurezza di una nazione. Secondo alcuni contributi, come quello di Malkin, il narcisismo patologico può degenerare in psicosi, portando il leader a compiere scelte pericolose basate su paranoia e giudizio distorto. Altri, come Dodes, hanno evidenziato i tratti sociopatici di Trump, descrivendo un comportamento manipolativo, ingannevole e insensibile al danno che può provocare agli altri.
Inoltre, alcuni dei contributi evidenziano un aspetto che spesso viene ignorato nel dibattito pubblico: la mancanza di fiducia in se stesso di Trump. Secondo Sheehy, la fragilità del suo ego potrebbe spingerlo a prendere decisioni drastiche per provare il suo valore, anche a costo di mettere in pericolo la sicurezza nazionale. La psicologia del leader, quindi, non è solo una questione di diagnosi, ma anche di comprendere le motivazioni che lo spingono a compiere determinate azioni.
L'analisi non si ferma alla salute mentale del presidente, ma si espande alle implicazioni per i professionisti della salute mentale quando sono chiamati a esprimere un parere su personaggi pubblici. Il dilemma etico che molti psichiatri si trovano ad affrontare è quello di dover bilanciare il loro obbligo di proteggere il pubblico con la necessità di non violare le normative deontologiche. In particolare, molti psichiatri sono riluttanti a esprimere un giudizio pubblico su una figura politica, temendo ripercussioni professionali o legali. Tuttavia, è emerso che quando il comportamento di un individuo pubblico rappresenta un pericolo tangibile per la collettività, i professionisti della salute mentale potrebbero essere moralmente obbligati a intervenire, sebbene senza mai superare i limiti del loro codice etico.
Un altro aspetto critico del dibattito riguarda la responsabilità delle istituzioni politiche nel stabilire criteri di idoneità per la carica presidenziale. Come osservato da Reiss, non esistono attualmente standard cognitivi o psicologici precisi per i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, nonostante la natura complessa e gravosa del ruolo. L'assenza di tali criteri può avere gravi conseguenze, soprattutto se il presidente manifesta segni di deterioramento cognitivo o disturbi psichiatrici che compromettono la sua capacità di prendere decisioni critiche per la nazione.
Infine, l'analisi sottolinea che l'approccio alla salute mentale di un leader non può essere ridotto a una diagnosi clinica, ma deve tener conto del contesto sociale, politico ed etico. I professionisti della salute mentale devono operare secondo principi di neutralità e imparzialità, cercando di proteggere la collettività senza cedere alla tentazione di un'analisi politica o ideologica.
Come la Difesa Archetipo del Sé di Gruppo Influenza la Politica Moderna: L'Anatomia del Supporto a Donald Trump
L'analisi del comportamento psicologico collettivo che ha spinto molti a sostenere Donald Trump alle elezioni del 2016 ci offre uno spunto profondo per riflettere sulle dinamiche della difesa del Sé di gruppo e le sue manifestazioni politiche. In questo contesto, possiamo osservare come la negazione della realtà—come la negazione del cambiamento climatico da parte di alcuni esponenti conservatori—possa essere vista come una forma di difesa contro la paura esistenziale. Il rifiuto di affrontare la possibilità della distruzione del pianeta diventa, in questo caso, una strategia per eludere il terrore dell'estinzione. Trump, adottando un atteggiamento simile, ha reagito al timore di un futuro incerto, minimizzando le minacce e cercando di rassicurare i suoi seguaci con dichiarazioni che negano l'esistenza del problema, come nel caso delle sue politiche climatiche.
La negazione, che rappresenta una delle difese più primitive della psiche umana, si manifesta sia a livello individuale che collettivo. Joseph Epstein (2016) ha descritto questo fenomeno come una "lesione" al Sé di gruppo, in cui molti degli elettori di Trump non stavano solo scegliendo un candidato, ma cercavano di risolvere un profondo senso di frustrazione. Un'intervista a una donna durante una manifestazione di Trump ha rivelato la sua semplice ma potente dichiarazione: "Voglio il mio paese indietro". Sebbene questa donna non fosse razzista, né desiderasse opporsi ai cambiamenti sociali, ciò che veramente bramava era una visione di ritorno a una "grande America" che riteneva perduta.
Il Sé di gruppo degli Stati Uniti, costruito su secoli di progressi e successi, è stato messo alla prova da crisi storiche come la Guerra Civile, la Grande Depressione, le guerre mondiali, e la crisi economica del 2008. La resilienza della nazione è sempre stata alimentata dalla fiducia nel suo spirito, ma negli ultimi decenni è emerso un sentimento di incertezza e paura per il futuro. La nostalgia per un'America percepita come più stabile e solida si è tradotta in un’idea di eccezionalismo, che ha alimentato l’orgoglio nazionale ma anche una cieca indifferenza verso i danni causati, sia internamente che all’estero.
In un contesto di crescente ansia collettiva, Trump ha saputo intuire il dolore del Sé di gruppo e ha saputo capitalizzare su questa vulnerabilità, proponendosi come il difensore di un ritorno a una "grandezza" passata. In molti, infatti, vedevano in lui la persona in grado di sconfiggere i nemici percepiti della nazione: i politici di Washington, gli immigrati, i musulmani e chiunque mettesse in discussione il loro stile di vita tradizionale. Trump non ha solo manipolato la paura, ma ha giocato abilmente con essa, utilizzando una retorica che faceva leva sulla rabbia e sull'invidia.
Un altro aspetto fondamentale di questa dinamica è la sua abilità nel cavalcare l'onda dell'opposizione alla "political correctness". Con il suo attacco frontale alla correttezza politica, Trump ha scatenato una risposta emotiva in quegli elettori che si sentivano emarginati dal discorso dominante sulla diversità e l'inclusione. Questa risposta non era solo politica, ma radicata in un profondo complesso culturale collettivo che rifiutava un cambiamento percepito come forzato e alienante.
La strategia di Trump si è rivelata particolarmente efficace perché ha riconosciuto e sfruttato quella parte "oscura" della psiche collettiva: la rabbia accumulata, la paura della perdita e il rifiuto dell'altro. Il suo appello ha risuonato profondamente in un settore della società americana che, sentendosi emarginato e in declino, ha visto negli immigrati e nelle minoranze una minaccia diretta al loro sogno americano. La sua retorica ha dunque alimentato una sorta di ritorno alla "realtà" percepita, una realtà in cui i problemi sociali ed economici venivano attribuiti a fattori esterni piuttosto che alle dinamiche interne del paese stesso.
Questa dinamica non è nuova nella storia. Orwell, nel suo "1984", ha descritto come un leader autoritario possa manipolare la realtà e le percezioni di un popolo incapace di riconoscere la manipolazione. Nel contesto di Trump, ciò si è tradotto in un'enorme distorsione delle verità storiche e sociali, in cui i fatti erano continuamente rielaborati per adattarsi alla narrativa voluta. La forza di questo processo sta nella sua capacità di isolare e amplificare emozioni, facendo leva su un sentimento di alienazione e disperazione che ha preso piede tra i ceti sociali più svantaggiati, quelli che sentivano di essere stati dimenticati e abbandonati.
È quindi evidente che dietro il sostegno a Trump non ci sia solo una questione di politica, ma una risposta complessa a un malessere psicologico collettivo. La manipolazione delle emozioni e delle percezioni da parte di un leader politico come Trump non è solo una strategia elettorale, ma un fenomeno che rispecchia una crisi profonda del Sé di gruppo. In tale contesto, è fondamentale comprendere che il sostegno a Trump non è soltanto una reazione alla politica, ma una risposta psicologica a un'angoscia collettiva, una difesa di fronte a un futuro incerto che minaccia di distruggere una visione idealizzata di sé e del proprio paese.
Il Presidente può essere giudicato mentalmente inadatto?
Nel sistema costituzionale statunitense, la possibilità di valutare l'idoneità mentale del Presidente rappresenta un terreno incerto, politicamente carico e giuridicamente fragile. L’emendamento XXV della Costituzione, adottato nel 1967, fu concepito per garantire la continuità del potere esecutivo nel caso in cui un presidente diventasse fisicamente o mentalmente incapace di svolgere le sue funzioni. Tuttavia, le sue ambiguità, in particolare nella sezione 4, lo rendono uno strumento inadeguato di fronte a una crisi di instabilità psichica manifesta ma non riconosciuta dal soggetto stesso.
Le vicende del mandato di Donald J. Trump hanno reso questo dibattito nuovamente attuale. Numerosi articoli, editoriali e studi hanno sollevato preoccupazioni sul suo comportamento, labilità emotiva e impulsività, tracciando un profilo di instabilità che, secondo alcuni psichiatri, richiederebbe una valutazione clinica ufficiale. Ma proprio qui si scontra la realtà giuridico-politica: l'impossibilità pratica di avviare una perizia psichiatrica su un Presidente in carica senza la sua collaborazione o senza l’iniziativa del Vicepresidente e della maggioranza del Gabinetto.
I contributi accademici e giornalistici raccolti in questi anni dipingono un quadro costellato di segnali d'allarme: alterazioni cognitive, perdita di complessità linguistica in discorsi pubblici (come osservato nei confronti tra Reagan e Bush Sr. prima della diagnosi di Alzheimer), comportamenti paranoidi, reazioni sproporzionate, incapacità di distinguere tra realtà e percezione, e uso impulsivo di mezzi di comunicazione globali come Twitter per condurre politica estera o attaccare istituzioni democratiche.
Questi segnali, se isolati, potrebbero rientrare nel normale spettro delle idiosincrasie caratteriali. Ma se ricorrenti e progressivi, pongono una questione più profonda: può una democrazia liberale permettersi di ignorare i sintomi di una possibile compromissione mentale del suo leader per timore di crisi costituzionali? E più ancora: chi è legittimato a formulare una tale diagnosi?
Il codice etico dell’American Psychiatric Association, con la cosiddetta regola Goldwater, vieta ai professionisti di esprimere valutazioni pubbliche sulla salute mentale di figure pubbliche senza una valutazione diretta e autorizzata. Questo limite, concepito per tutelare sia i pazienti sia la dignità della disciplina, si scontra però con le esigenze della sicurezza collettiva in presenza di un potere tanto concentrato in un solo individuo. Alcuni studiosi e clinici hanno iniziato a contestare questa regola, ritenendola anacronistica e potenzialmente dannosa quando applicata rigidamente nel contesto presidenziale.
Il caso Trump ha reso visibile un vuoto strutturale: l’assenza di un protocollo istituzionale che consenta la valutazione obiettiva della capacità cognitiva di un Presidente senza dover passare attraverso il filtro della lealtà politica dei suoi collaboratori più stretti. Né il Congresso, né le Corti, né tantomeno un organo medico indipendente possiedono oggi strumenti chiari per attivare un tale controllo.
È altresì significativo come la retorica pubblica abbia normalizzato comportamenti che, in un altro contesto, sarebbero stati definiti come segnali evidenti di squilibrio. L’elogio aperto a dittatori, la minimizzazione di alleanze storiche, la paranoia verso i media, le risposte incoerenti durante crisi internazionali, fino alla gestione impulsiva di informazioni riservate: tutto ciò è stato assorbito in una cornice di spettacolarizzazione politica che ha reso difficile distinguere il teatrale dal patologico.
Occorre allora una riflessione più profonda sull’architettura del potere esecutivo negli Stati Uniti e sul rapporto tra salute mentale e leadership democratica. L’ideale del leader carismatico e visionario, capace di sfidare le convenzioni, non può giustificare l’assenza di limiti clinici alla sua idoneità. La tutela della salute mentale del capo dello Stato
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