Il rigetto cellulare acuto (ACR) è una complicanza comune nei trapianti di fegato, e la biopsia epatica rappresenta uno strumento fondamentale per la diagnosi e la valutazione di questa condizione. Le principali caratteristiche istologiche del rigetto acuto includono l'infiammazione portale, il danno ai dotti biliari e l'endotelite, ossia l'infiammazione delle cellule endoteliali nei vasi venosi. Questi segni possono essere facilmente osservati attraverso un esame istologico, che consente di confermare la presenza di ACR e di distinguere questa patologia da altre condizioni simili.

Il sistema Banff per la valutazione del rigetto acuto si basa su due componenti principali. La prima riguarda una valutazione globale del grado di rigetto, che può essere classificato come indeterminato, lieve, moderato o grave. La seconda componente consiste nel valutare ciascuna delle tre caratteristiche istologiche principali (infiammazione portale, danno ai dotti biliari ed endotelite) su una scala da 0 a 3, sommando i punteggi per ottenere un indice complessivo di attività del rigetto, con un punteggio massimo di 9. Questo sistema aiuta a fornire una classificazione dettagliata e precisa del rigetto acuto, che è essenziale per la gestione terapeutica del paziente trapiantato.

Nel caso di rigetto cronico, si osserva una perdita dei piccoli dotti biliari e una vasculopatia obliterante che colpisce le arterie di medie e grandi dimensioni. La ductopenia, caratterizzata dalla perdita di oltre il 50% dei dotti biliari nei tratti portali, è un altro segno distintivo di rigetto cronico. Questo tipo di danno vascolare e la perdita dei dotti biliari possono richiedere l'esame di un espianto per una diagnosi definitiva, poiché talvolta non sono sufficientemente evidenti in una biopsia epatica prelevata da un paziente in vita.

Un altro aspetto cruciale nella diagnosi istologica del rigetto riguarda la GVHD (graft-versus-host disease) acuta, che può verificarsi in pazienti che hanno ricevuto un trapianto di cellule staminali ematopoietiche. La GVHD acuta nel fegato si caratterizza principalmente per lesioni ai dotti biliari, accompagnate da un'infiammazione monoclonale. La colestasi, che è l'accumulo di bile nel fegato, può essere un altro segno osservabile in questi casi.

Oltre al rigetto, le neoplasie epatiche rappresentano un altro importante ambito di studio istologico. Tra le neoplasie più comuni, troviamo l'adenoma epatocellulare (HCA), che è una proliferazione anomala degli epatociti senza la presenza di tratti portali, e il carcinoma epatocellulare (HCC), che si manifesta con una proliferazione maligna degli epatociti, perdita di tratti portali e un'architettura epatica disorganizzata. Il carcinoma colangiocellulare, un tumore maligno dei dotti biliari, è un'altra neoplasia frequente, caratterizzata dalla formazione di ghiandole atipiche accompagnate da una reazione desmoplastica (fibrosi).

Per quanto riguarda la diagnosi dell'HCC, la biopsia epatica può essere necessaria quando gli studi di imaging non forniscono risultati chiari. Sebbene in alcuni casi l'HCC possa essere diagnosticato tramite imaging, una biopsia è essenziale quando i criteri diagnostici non sono soddisfatti, per confermare la presenza del tumore e la sua tipologia. La biopsia epatica è anche utile per la diagnosi di neoplasie metastatiche, poiché consente di confermare la presenza di metastasi da un tumore primario noto, o di individuare un tumore probabilmente metastatico, nel caso in cui il tumore primario sia sconosciuto. In quest'ultimo caso, le macchie immunoistochimiche possono guidare ulteriori indagini per identificare l'origine del tumore.

Nel contesto della biopsia epatica, un caso clinico significativo riguarda un paziente con una storia di trapianto di fegato per cirrosi alcolica, che si presenta con ittero e un aumento degli enzimi epatici. Un esame istologico mostra due processi sovrapposti: la steatoepatite (caratterizzata dalla degenerazione delle cellule epatiche, infiammazione lobulare e corpi di Mallory-Denk) e il rigetto cellulare acuto (con infiammazione portale, danno ai dotti biliari e endotelite). Sebbene sia possibile diagnosticare la steatoepatite alcolica in base alle caratteristiche istologiche, è fondamentale correlare i risultati con la storia clinica del paziente per arrivare a una diagnosi accurata. Questo esempio illustra l'importanza di un approccio clinico globale, che comprenda la storia del paziente, i segni clinici e i risultati della biopsia per una diagnosi completa e corretta.

L'interpretazione corretta dei dati istologici non è solo una questione di osservare i segni evidenti nelle immagini al microscopio. È essenziale che il medico patologo abbia una buona comprensione della storia clinica del paziente, in modo da poter fare una diagnosi che non si limiti alla lettura dei risultati di laboratorio, ma che li integri con il contesto complessivo della salute del paziente. Ogni biopsia è un pezzo di un puzzle diagnostico che, una volta messo insieme con attenzione, fornisce il quadro completo necessario per una gestione terapeutica adeguata.

Quali sono le cause più comuni della pancreatite acuta?

La pancreatite acuta (PA) rappresenta una delle principali emergenze gastrointestinali, con una prevalenza crescente nel corso degli ultimi decenni. La sua incidenza annuale è aumentata di circa il 3,1% negli ultimi 40 anni, e la durata media dell'ospedalizzazione è di circa cinque giorni. Sebbene la maggior parte dei casi di PA siano lievi e classificati come pancreatite interstiziale (80%), la complicazione di necrosi o insufficienza d'organo può rendere il decorso clinico molto più grave, con una mortalità che può arrivare fino al 30%-40%.

Le cause più comuni di PA sono rappresentate dalle calcolosi biliari e dall’abuso di alcol. Le calcolosi biliari hanno registrato un aumento della loro incidenza negli ultimi dieci anni, incidendo principalmente sugli uomini (con un incremento del rischio tra il 14% e il 35%) e sulle donne (tra il 12% e il 25%). Tale aumento riflette probabilmente la crescente prevalenza di diabete e obesità. La pancreatite indotta da alcol è più frequentemente osservata negli uomini, probabilmente a causa di un maggiore tasso di abuso di alcol e fumo. Storicamente, la PA idiopatica era la causa principale dopo quelle legate a calcoli biliari e alcol. Tuttavia, l'uso crescente di test genetici e di tecniche di imaging avanzato, come la colangiopancreatografia a risonanza magnetica (MRCP) e l’ecografia endoscopica (EUS), ha portato alla riconsiderazione di questi casi idiopatici, che sono ora ritenuti principalmente di origine genetica o biliari secondari a microlitiasi.

La pancreatite indotta da farmaci rappresenta una causa in meno del 5% dei casi di PA. Sebbene rara, questa causa deve sempre essere presa in considerazione quando si valutano i pazienti con PA. I farmaci potenzialmente implicati includono il valproato, la mesalazina, i diuretici come il furosemide, gli estrogeni e gli steroidi anabolizzanti. È importante notare che, a volte, l'insorgenza della PA può essere immediata o può manifestarsi anche a distanza di mesi dall'inizio della somministrazione del farmaco.

Un utile mnemonico per ricordare le molteplici cause della PA è “TIGAR-O”. La sigla rappresenta:

  • Tossico-metaboliche: alcol, tabacco, ipertrigliceridemia, ipercalcemia, organofosfati, e alcuni farmaci.

  • Idiopatiche: molte volte le cause rimangono sconosciute.

  • Genetiche: mutazioni in geni come PRSS1, SPINK1, CFTR e CTRC.

  • Autoimmuni: pancreatite autoimmune, malattia correlata agli immunoglobuline G4, celiachia e vasculiti.

  • Recurrenti: pancreatite ricorrente, escludendo altre cause come il trauma, l'ERCP, l'ischemia, e le infezioni virali (HIV, coxsackievirus, citomegalovirus, epatite B).

  • Obstruttive: calcoli biliari, calcoli nei dotti pancreatici, tumori che ostruiscono il dotto pancreatico e stenosi ampollari.

L'associazione tra la pancreatite acuta e le infezioni virali è stata oggetto di discussione. Sebbene le evidenze non siano ancora sufficienti, diversi casi riportano una possibile correlazione tra virus come HIV, mumps, coxsackievirus e citomegalovirus, tra gli altri, e la PA. È noto, ad esempio, che il virus SARS-CoV-2, responsabile della pandemia di COVID-19, può causare danni al pancreas nei pazienti infetti, con un aumento del rischio di pancreatite acuta grave, sebbene la relazione causale non sia del tutto chiara.

In gravidanza, la PA è un evento raro, con un’incidenza che varia da 1 caso ogni 1000 a 1 caso ogni 10.000 gravidanze. La causa più comune è la presenza di calcoli biliari o microlitiasi, che si verificano nel 50%-90% dei casi. Altre cause includono l'iperlipidemia e l’abuso di alcol. La maggior parte degli episodi si verifica durante il terzo trimestre di gravidanza o nel periodo immediatamente postpartum. Sebbene in passato i tassi di mortalità materna fossero piuttosto elevati, gli avanzamenti nelle cure neonatali hanno ridotto drasticamente il rischio per le donne in gravidanza, rendendo i tassi di mortalità simili a quelli della popolazione generale con PA. Per quanto riguarda il trattamento, la gestione della PA in gravidanza è simile a quella della popolazione generale, con fluidi, alimentazione precoce, controllo del dolore e trattamento della causa sottostante. È importante ricordare che la colecistectomia, che precedentemente era sconsigliata durante la gravidanza, è ora considerata sicura in ogni fase della gravidanza, specialmente dopo il primo trimestre.

Per quanto riguarda le infezioni parassitarie, alcuni parassiti come Clonorchis sinensis e Ascaris lumbricoides possono causare pancreatite acuta attraverso l'ostruzione del dotto pancreatico, causando un blocco del flusso delle secrezioni pancreatiche. Inoltre, infezioni batteriche e fungine possono essere implicate, sebbene l'evidenza sia meno chiara e variegata.

È fondamentale comprendere che la pancreatite acuta è una condizione complessa e multifattoriale, e che il suo trattamento deve essere mirato non solo al controllo dei sintomi e alla stabilizzazione del paziente, ma anche alla gestione delle cause sottostanti, che possono variare notevolmente.

Quali sono i principi fondamentali nella gestione del sanguinamento gastrointestinale superiore non varicoso?

La gestione iniziale del sanguinamento gastrointestinale superiore (UGI) si basa su una valutazione rapida e precisa dello stato clinico del paziente, con particolare attenzione agli ABC (via aerea, respirazione, circolazione). Nei casi di ematemesi abbondante o alterazione dello stato mentale, l’intubazione per proteggere le vie aeree diventa essenziale. Il reperimento di un accesso vascolare adeguato, preferibilmente due accessi venosi periferici di grosso calibro (≥18 gauge) o un accesso centrale, rappresenta un passaggio cruciale per la somministrazione di liquidi e trasfusioni. La reidratazione con cristalloidi costituisce il pilastro della stabilizzazione emodinamica, specie in presenza di sanguinamento attivo o parametri vitali alterati. È necessario inoltre un set ematico completo, che includa emocromo, creatinina, azoto ureico, tempi di coagulazione e gruppo sanguigno con cross-match per preparare eventuali trasfusioni urgenti.

La strategia trasfusionale deve essere mirata e personalizzata: evidenze recenti indicano che mantenere l’emoglobina intorno a 7 g/dL in pazienti senza patologie cardiovascolari pregresse garantisce una migliore sopravvivenza rispetto a obiettivi più alti. Tuttavia, in pazienti con malattie cardiovascolari o emorragie massive, è prudente adottare soglie più elevate, come un target di 8 g/dL, per evitare rischi ischemici. La correzione dei parametri emocoagulativi, pur necessaria, è un tema controverso; è generalmente raccomandato un valore di piastrine superiore a 50.000 prima di eseguire l’endoscopia, mentre il controllo dell’INR appare meno rilevante in era DOAC. Nei pazienti con cirrosi epatica, la coagulopatia non è rappresentata adeguatamente dall’INR, e l’uso di plasma fresco congelato o fattori ricombinanti non migliora gli esiti.

L’uso di inibitori della pompa protonica (PPI) prima dell’endoscopia, sebbene largamente diffuso, ha dimostrato benefici clinici modesti; il loro effetto principale risiede nell’aumento del pH gastrico, che favorisce l’aggregazione piastrinica e la stabilità del coagulo. L’infusione di omeprazolo riduce la comparsa di segni endoscopici ad alto rischio e la necessità di interventi endoscopici, senza tuttavia impattare significativamente su mortalità o recidiva emorragica. Analogamente, i prokinetici, in particolare l’eritromicina somministrata 20–90 minuti prima dell’endoscopia, facilitano la visione endoscopica rimuovendo sangue e coaguli dallo stomaco, riducendo la durata della degenza e la necessità di procedure ripetute.

La tempistica dell’endoscopia richiede un bilanciamento tra urgenza e stabilizzazione: in condizioni di instabilità emodinamica o gravi comorbilità, un’endoscopia troppo precoce può risultare dannosa. Le linee guida raccomandano di eseguire l’esofagogastroduodenoscopia (EGD) entro 24 ore dalla presentazione, con un’indicazione a procedere entro 12 ore nei pazienti ad alto rischio, quali quelli con ematemesi persistente o compromissione emodinamica non risolta dopo il trattamento iniziale.

La stratificazione del rischio mediante endoscopia si avvale di classificazioni consolidate come quella di Forrest per le ulcere peptiche, che consente di prevedere il rischio di recidiva emorragica e guidare la terapia endoscopica. I segni di alto rischio includono, oltre ai segni di Forrest IA, IB, IIA e IIB, caratteristiche morfologiche come dimensioni superiori a 1–2 cm o localizzazione in sedi critiche (ad esempio, parete posteriore del duodeno). L’uso di tecniche endoscopiche, come l’applicazione di emoclips o trattamenti termici, rappresenta il cardine della terapia attiva nei casi di ulcere ad alto rischio.

È fondamentale investigare le cause sottostanti del sanguinamento, con particolare attenzione alla ricerca di Helicobacter pylori e alla valutazione dell’uso di farmaci gastrolesivi quali FANS e aspirina. La rivalutazione endoscopica a 8–12 settimane è indicata soprattutto per escludere neoplasie occulte in ulcere gastriche.

La gestione complessiva del sanguinamento UGI non varicoso è dunque un processo multidisciplinare che combina tempestività, appropriatezza diagnostica e trattamento personalizzato. L’attenzione all’equilibrio tra rischio emorragico e rischio trombotico, la scelta accurata dei tempi e dei metodi terapeutici, nonché il monitoraggio continuo rappresentano gli elementi cardine per ridurre mortalità e complicanze.

Un aspetto cruciale da tenere presente è che il sanguinamento gastrointestinale superiore può derivare da una molteplicità di cause non sempre evidenti al primo esame; pertanto, un approccio olistico che includa la valutazione dei fattori di rischio, l’analisi dettagliata dei segni clinici e laboratoristici, nonché una sorveglianza endoscopica mirata, è indispensabile per una gestione efficace e sicura. Inoltre, è importante comprendere che la terapia endoscopica non elimina la necessità di un follow-up medico per identificare e trattare le cause di base e prevenire recidive.

Qual è il ruolo dei trattamenti farmacologici nel trattamento della sindrome dell’intestino irritabile (IBS)?

La gestione farmacologica della sindrome dell’intestino irritabile (IBS) si basa sull’indirizzamento dei sintomi predominanti, tenendo conto delle diverse sottotipi della patologia, quali IBS-D (diarrea predominante), IBS-C (stitichezza predominante) o IBS-M (sintomi misti). Tra le opzioni terapeutiche più utilizzate vi sono gli antispastici, i probiotici, gli antidiarroici, gli antibiotici, e i farmaci specifici per modulare la motilità intestinale e la percezione del dolore.

Gli antispastici come l’iosciamina e la dicyclomina agiscono prevalentemente rallentando il transito intestinale tramite effetti anticolinergici, risultando particolarmente efficaci nei pazienti con IBS-D. Tuttavia, l’evidenza clinica sul loro impatto globale sui sintomi IBS è variabile e spesso non conclusiva.

I probiotici rappresentano una categoria di microrganismi vivi che, secondo le ipotesi attuali, modulano la flora batterica intestinale, migliorano la funzione della barriera epiteliale, influenzano l’espressione dei recettori del dolore e alterano l’attività immunitaria dell’ospite. Nonostante ciò, le prove meccanicistiche e cliniche specifiche per IBS sono limitate e frammentarie. La grande varietà di ceppi probiotici disponibili complica ulteriormente la definizione di un trattamento standardizzato. Una meta-analisi del 2018 ha rilevato benefici modesti sui sintomi globali e sul dolore addominale, senza evidenziare effetti collaterali significativi rispetto al placebo. Tuttavia, i dati non supportano l’uso di prebiotici o simbiotici in questa condizione e le linee guida attuali non raccomandano i probiotici come trattamento di prima linea.

Per la diarrea predominante, la loperamide rimane uno dei farmaci di riferimento. Agendo come agonista periferico degli oppioidi, rallenta la motilità intestinale e riduce la secrezione d’acqua nell’intestino senza effetti centrali a dosi standard. Pur non migliorando necessariamente i sintomi globali, è efficace nel ridurre frequenza e urgenza delle scariche, migliorando la consistenza delle feci e favorendo la partecipazione sociale del paziente. Le linee guida raccomandano il suo uso specificamente per IBS-D.

Gli antibiotici rappresentano un’opzione terapeutica in particolare per IBS-D. Il rifaximina, un antibiotico con scarsa absorzione sistemica e ampio spettro d’azione, ha dimostrato di migliorare sintomi globali, gonfiore e dolore addominale. È approvato dalla FDA per IBS-D con un ciclo standard di due settimane. L’efficacia può diminuire nel tempo, ma ulteriori cicli possono risultare utili. Altri antibiotici, come la neomicina, sono utilizzati per casi specifici come la sovracrescita di metanogeni intestinali (IMO), spesso associata a gonfiore e stitichezza, benché il loro impiego sia limitato da potenziali effetti collaterali gravi. Altri antibiotici sono usati in modo empirico, ma mancano dati robusti sul loro beneficio.

L’alosetron è un antagonista selettivo dei recettori serotoninergici, indicato per donne adulte con IBS-D grave e refrattario ad altri trattamenti. Sebbene inizialmente ritirato dal mercato per rischi di costipazione severa e colite ischemica, è stato successivamente reintrodotto con un rigoroso programma di prescrizione. L’alosetron migliora significativamente i sintomi intestinali globali riducendo complicanze, ma il rischio di colite ischemica rimane presente, seppur basso.

Eluxadoline, approvato nel 2015, è un agonista misto degli oppioidi con azione sui recettori μ e κ e antagonista su quelli δ. È indicato per IBS-D, migliorando consistenza delle feci, urgenza fecale e in misura minore il dolore addominale. È controindicato in pazienti con colecistectomia o storia di abuso di alcol a causa del rischio aumentato di pancreatite e spasmo dello sfintere di Oddi.

Per IBS-C, i lassativi osmotici sono preferiti quando la fibra alimentare non è sufficiente, poiché inducono minori effetti collaterali rispetto ad altre tipologie. Tuttavia, il loro impatto sul dolore addominale è generalmente scarso. È fondamentale valutare la presenza di dissinergia del pavimento pelvico, spesso responsabile di stitichezza refrattaria, per la quale la terapia con biofeedback può risultare risolutiva.

Gli agonisti della guanilato ciclasi-C, come linaclotide e plecanatide, rappresentano una svolta nel trattamento di IBS-C. Incrementano la secrezione di liquidi intestinali, migliorando dolore addominale, funzione intestinale e sintomi globali. Studi randomizzati hanno confermato la loro efficacia e sicurezza, ponendoli come opzioni di trattamento avanzate.

È importante comprendere che l’eterogeneità della sindrome dell’intestino irritabile richiede un approccio terapeutico personalizzato e integrato, in cui la farmacoterapia rappresenta solo uno degli strumenti. L’interazione tra microbiota, motilità intestinale, sistema nervoso enterico e risposta immunitaria è complessa e non ancora del tutto definita. Pertanto, la scelta del trattamento deve considerare la variabilità individuale dei sintomi, la tollerabilità dei farmaci e l’impatto sulla qualità della vita. Inoltre, il ruolo di terapie non farmacologiche, quali modifiche dietetiche, gestione dello stress e interventi comportamentali, rimane cruciale e spesso complementare all’approccio farmacologico. Il monitoraggio continuo e la rivalutazione periodica sono essenziali per ottimizzare i risultati nel tempo.