Nel panorama degli studi sull'arte islamica, è difficile ignorare la varietà e la vastità delle sue espressioni visive, che si estendono dal VII secolo fino ai giorni nostri. Tuttavia, uno degli aspetti più complessi quando si cerca di comprendere questa arte è la sua grande diversità geografica e culturale. Spesso, le opere di ricerca esistenti si concentrano su specifiche aree geografiche, come il Medio Oriente, l'Asia Centrale o il Maghreb, lasciando da parte altre zone altrettanto rilevanti, come l'Asia sudorientale, la Cina occidentale o l'Africa subsahariana.
In questo contesto, la difficoltà principale non risiede solo nel catalogare e analizzare la moltitudine di manifestazioni artistiche, ma anche nel definire una metodologia che abbracci la totalità di queste tradizioni senza forzare un ordine che potrebbe risultare riduttivo. La necessità di limitarsi a certe regioni o periodi storici specifici, come l’arte medievale o quella post-1800, solleva interrogativi sulla validità di queste divisioni temporali e geografiche.
Uno degli approcci più recenti all’analisi dell'arte islamica si distingue per la sua flessibilità e la volontà di adottare una visione meno convenzionale. Questo approccio si ispira, ad esempio, alla figura di al-Hariri, autore della Maqamat, che ha fornito una struttura narrativa per un’analisi che non si limita alla cronologia e alla geografia, ma esplora le intersezioni tra la storia, l'arte, la letteratura e l'antropologia. Grazie a questo metodo, ogni elemento artistico, dal tappeto persiano all’architettura marocchina, può essere esplorato non solo come un prodotto culturale, ma anche come una manifestazione di un contesto sociale, politico e religioso in continua evoluzione.
Le storie di arte e architettura islamica non si limitano a rappresentare solo gli oggetti, ma raccontano anche il percorso di una cultura che si è continuamente adattata e trasformata nel corso dei secoli. Un esempio emblematico di questo dinamismo è rappresentato dalle moschee e dalle loro decorazioni epigrafiche. Prendendo come esempio la Moschea di Djenné in Mali, si può osservare come l’arte islamica si sposti dal dominio delle tradizioni arabe e persiane verso un amalgama di stili locali e universali, adattandosi al contesto geografico e culturale.
L'uso della scrittura epigrafica è un altro aspetto distintivo dell'arte islamica. Le iscrizioni animate, come quelle presenti sulla famosa Coppa Wade (1200-1221), esprimono non solo il contenuto religioso o politico, ma anche un linguaggio estetico che coinvolge il movimento e la vitalità. La scrittura, lontana da essere una mera annotazione, diventa parte integrante dell'opera, come nel caso delle iscrizioni che si muovono o si trasformano visivamente, creando un’armonia tra il messaggio scritto e l’arte visiva.
La fotografia contemporanea, come quella di Lalla Essaydi, rappresenta un altro esempio della continua evoluzione del linguaggio artistico islamico. Le sue opere esplorano la relazione tra la donna araba e le tradizioni artistiche, usando il corpo e la fotografia come mezzi per interrogare e reinterpretare le rappresentazioni storiche e culturali delle donne nel mondo islamico. Queste immagini, pur essendo moderne, richiamano fortemente le tradizioni artistiche islamiche, come la decorazione e la forma, ma pongono anche interrogativi critici sul ruolo della donna e sull’impatto della modernità.
Importante è anche considerare l’approccio metodologico alla traslitterazione dei nomi e dei termini tecnici nelle lingue arabe e persiane. La scelta di traslitterare i nomi propri senza l'uso del macron sui vocali o dei punti sotto le consonanti, così come la conservazione di lettere come l'ʿayn (ع) o l'hamza (ء), permette una maggiore fedeltà alla lingua originale e alla sua complessità fonetica. Questa decisione metodologica ha ripercussioni dirette sulla comprensione e sull'interpretazione dei testi, ma anche sulla percezione stessa dell'arte islamica, che è in gran parte legata alla parola scritta.
Oltre a questi aspetti tecnici e storici, c'è un aspetto che spesso sfugge nella lettura tradizionale dell’arte islamica: la sua continua evoluzione in risposta a cambiamenti politici, sociali e tecnologici. L’arte islamica non è un’entità statica, ma un campo dinamico che continua a mutare, come dimostrano le opere di artisti contemporanei e le reinterpretazioni dei classici dell’arte islamica. In questo contesto, è essenziale riconoscere che la modernità e l’arte islamica non sono in opposizione, ma si alimentano a vicenda, creando nuove forme di espressione che uniscono il passato e il presente.
Cos'è la bellezza che si nasconde oltre l’apparenza?
Era un luogo che sembrava, a prima vista, privo di particolare fascino, ma che celava in realtà una simmetria perfetta e una bellezza nascosta. L'architettura, spesso, non è solo una questione di estetica visibile, ma di una proporzione silenziosa che comunica all'anima più di quanto una superficie abbellita possa fare. Il nostro ospite Olearius, pur trovando bellezza in ciò che è più apparente, sembrava incapace di cogliere la forza che risiede nell’armonia delle strutture nascoste, nell’architettura che, seppur ornamentale, aveva un'essenza che sfuggiva ai più.
Mentre camminavamo attraverso i corridoi della moschea, il nostro passo si faceva più lento, quasi come se il luogo stesso richiedesse una forma di reverenza. Le pareti erano ricoperte di piastrelle turchesi che riflettevano la luce in modo unico, ma non era solo la superficie a catturare l'occhio. Piuttosto, era la sensazione di essere immersi in una geometria vivente, dove ogni linea, ogni curva, ogni decorazione non era solo un ornamento, ma una chiara manifestazione di un principio universale di equilibrio e proporzione. Eppure, come mi aveva suggerito Olearius, questa bellezza era per lui un impedimento, una distrazione dalle leggi più profonde che regolano la materia e la forma. Il suo sguardo era critico, cercava di vedere oltre, di distaccarsi da ciò che era percepito a livello sensoriale. Per lui, ciò che appariva come una decorazione fiorita, un frutto dell’arte ornamentale, era solo un ostacolo al puro studio della struttura e della matematica che sottendeva l’edificio.
Ciò che sembrava una costruzione di pura bellezza estetica, alla ricerca di uno splendore visivo, per Olearius era un oggetto da scoprire oltre la superficie. Egli cercava la struttura architettonica pura, le proporzioni, le linee che collegavano ogni parte del palazzo con una razionalità scientifica. La sua mente razionale lo portava a ridurre, a eliminare il superfluo, per scoprire l’essenza nascosta. Eppure, la bellezza che lui tanto cercava, spesso ignorava la sottile connessione tra forma e funzione che solo l’occhio attento può cogliere. Non è solo la geometria che crea l’armonia, ma la sua manifestazione concreta nell’ornamento, nella decorazione che non è fine a se stessa, ma diventa una parte integrante del tutto.
Ogni città, ogni cultura, ha il suo modo di vedere e di sentire la bellezza. Isfahan, come molte altre città storiche, è una testimonianza di questo incontro tra l'arte e la razionalità. Ogni edificio, ogni monumento racconta una storia non solo attraverso la sua forma visibile, ma anche attraverso i dettagli che sfuggono a un primo sguardo. Cosa ci insegna questa osservazione? Che non possiamo mai fermarci alla superficie. La bellezza è sempre in relazione, in connessione con la sua struttura interna, che solo una lettura più profonda può rivelare.
Oltre a ciò, bisogna comprendere che ogni stile architettonico, ogni epoca, porta con sé un cambiamento nella concezione della bellezza. Le città non sono solo luoghi fisici, ma anche espressioni della mentalità del tempo. La distinzione tra le architetture del passato e quelle moderne non riguarda solo l’uso di nuovi materiali, ma anche una trasformazione nel modo di pensare e di percepire l’estetica. Oggi, ad esempio, l'ornamento sembra spesso superfluo, in contrasto con l’essenzialità delle linee moderne. Tuttavia, come Olearius stesso suggerisce, anche in una costruzione moderna si potrebbe nascondere una simmetria, una logica che sfida la nostra visione immediata.
E in questo senso, la grande lezione che emerge dalle antiche architetture di città come Isfahan è che l’arte non è solo un fatto di decorazione, ma un modo per riflettere sull’universo, sull’ordine nascosto che regge il mondo naturale. La bellezza non è mai solo estetica, ma porta con sé una conoscenza più profonda, una saggezza che è integrata nell’arte del costruire. E quando ci lasciamo distrarre troppo dalla superficie, possiamo perdere di vista questa dimensione essenziale.
Come la stampa ha cambiato il mondo del libro nell’Impero Ottomano
Il piccolo animale si trovava lì, appollaiato sulla cima di una delle presse. “Mi scuso per il disturbo. Posso prenderlo di nuovo?” Ci avvicinammo lentamente, cercando di tranquillizzarlo con suoni pacifici. Con mio dispiacere, la scimmia saltò tra le braccia dell'uomo, che rise ancora. Poi estrasse una pera dalla tasca. “Povero piccolo, probabilmente hai fame, vero ragazzo? Questo doveva essere il mio pranzo, ma penso che tu ne abbia più bisogno.” La scimmia si lanciò avidamente sulla frutta, ritirandosi in un angolo sicuro per mangiare. L’uomo si voltò verso di me. “Dovremmo presentarci. Mi chiamo İbrahim, e questa è la mia officina. La chiamo la stampa Müteferrika; la prima del suo genere nell’impero, e forse nel mondo islamico.”
“Aisha bint al-Harith,” risposi. “Ho visto fare libri in molte città. Posso chiedere cosa rende questa tecnica diversa?”
“Bella domanda, Aisha. Immagino che tu abbia visto quanto tempo ci vuole a un copista per scrivere un libro. Mesi di lavoro, prima che il volume venga consegnato all'illuminatore e poi al rilegatore. Noi, invece, stampiamo le pagine con queste presse, proprio come in Europa. Prendiamo quelle lettere di metallo che vedi su quegli scaffali e le disponiamo in lastre. Le immagini sono intagliate su fogli di legno o metallo e stampate allo stesso modo.”
“Non richiede più tempo di quanto farebbe un copista con la penna?” chiesi.
“Effettivamente, richiede più tempo, ma pensa a cosa succede dopo. Dove un copista può scrivere una sola pagina, noi possiamo stampare ogni lastra dozzine, addirittura centinaia di volte.” Prese due volumi rilegati da una pila accanto a lui e li aprì sulla stessa pagina. “Cosa vedi?”
“Ci sono delle righe di scrittura e un’immagine sulla pagina. Ci sono montagne e il mare. Due uomini stanno in piedi, uno tiene un bastone e l’altro una corda. La corda è intrappolata attorno a delle creature marine, con code di pesce ma corpi di uomo.”
“Sì, ma cosa noti quando guardi la stessa pagina nei due libri?”
“Sono identici,” risposi.
“Esatto! Ogni singola pagina è la stessa. Questo è uno dei miei libri più popolari. È una descrizione delle Indie Occidentali, ciò che in Europa chiamano il ‘Nuovo Mondo.’” Guardò la scimmia. “Ecco da dove vieni tu, vero ragazzo?”
“Quali altri libri hai fatto?” chiesi.
“Difficilmente riesco a ricordarli tutti,” sospirò. “Ciò che mi interessa di più è quello che sto facendo ora.” Prese alcuni fogli e li stese su un banco. Facendomi cenno di avvicinarmi, continuò: “Questo sarà il mio lavoro più grande. Un libro con mappe dell'intero mondo. Anche il grande Piri Reis non potrebbe eguagliarlo! Guarda questo.” Il disegno si estendeva su tutta la pagina. Faticavo a capirlo.
“Vedo due masse di terra che quasi si uniscono. Dove si trovano nel mondo?”
Indicò una rosa dei venti. “Forse questo ti aiuterà. Guarda, è orientata con il nord in basso. Porta la tua attenzione un po' più in alto. Pensa a dove puoi trovare un mare stretto quasi racchiuso dalla terra su entrambi i lati.” Guardai più da vicino, cercando di distinguere la scrittura. “Marmara. Quindi è l’espansione d'acqua che unisce l’Egeo al Mar Nero!” All'estremità orientale vidi lo stretto che separa Asia ed Europa. Quest'ultima era delineata in giallo e intitolata Rumelia.
“Quali sono quelle isole in cima alla mappa?” chiesi.
“Guarda da te,” rispose. “Tutto sulla mappa ha un nome.”
“Rodi e Cipro,” annunciai trionfante. “Ero con mio padre a Nicosia l’anno scorso. Non mi era mai venuto in mente di pensare alla forma dell’intera isola.” Stavo per concentrarmi su un altro foglio quando lui alzò la mano. “Basta, c’è del lavoro da fare.”
Mi chinai per prendere la scimmia. Si ritirò via dalla mia presa. İbrahim ci guardò pensieroso. “Faccio un accordo con te, Aisha. È chiaro che tu e questo piccolo tesoro non sarete amici. Potresti prestarmelo e in cambio ti darò la possibilità di scegliere uno dei miei libri.” Sarebbe stato necessario molto spiegare al mio ritorno al magazzino. Passai le dita lungo i dorsi dei libri finché non trovai quello che cercavo. “Deve essere il volume sul Nuovo Mondo. Questo posto è come nessun altro che abbia mai visto.” Accarezzando la scimmia sotto il mento, İbrahim disse: “Avrai bisogno di un nome.” Rifletté per un po’. “Ricordo di aver letto tempo fa alcune storie su un uomo tanto birichino quanto te. Ora, come si chiamava?” Stavo quasi per uscire dalla porta quando lo sentii parlare di nuovo. “Abu Zayd, ecco! Che ne dici di questo nome, piccolo mio?”
L’arte della stampa, così come introdotta da İbrahim nel 1733 a Istanbul, rappresentava una vera e propria rivoluzione nel mondo dei libri. Questo metodo innovativo non solo accelerava la produzione di testi, ma ne permetteva anche la riproduzione esatta e infinita, un processo che sfidava la tradizione dei copisti, i cui manoscritti erano unici e irripetibili. Ogni stampa, pur mantenendo una certa qualità artigianale, diveniva un oggetto moltiplicabile, destinato a raggiungere un pubblico più vasto. La stampa permetteva di superare le barriere fisiche e temporali imposte dalla scrittura manuale, trasformando il libro da oggetto raro e costoso in un prodotto più accessibile, seppur non privo di sfide tecniche.
Nel contesto ottomano, la stampa non era solo una novità tecnologica, ma anche un atto di sfida culturale. Il controllo della produzione di testi era strettamente legato al potere politico e religioso, e la diffusione della stampa doveva confrontarsi con le resistenze dei tradizionalisti. Nonostante le difficoltà iniziali, il sistema di stampa di İbrahim Müteferrika avrebbe segnato l'inizio di una nuova era nella produzione e nella diffusione del sapere.
Qual è il significato dei monumenti ottomani in una Grecia che cambia?
Nel 1831, Nafplio era una città divisa tra passato e futuro, sospesa tra l'eredità ottomana e le crescenti aspirazioni di una Grecia indipendente. In un angolo nascosto della città, una fontana del 1734, apparentemente innocua, si ergeva come testimone silenzioso di un conflitto che stava travolgendo il paese. Non era una semplice fontana: dietro la sua architettura, dietro ogni incisione, c'era una storia complessa di potere, fede e sopravvivenza.
Quella fontana era il frutto dell'opera di Mahmud Pasha, un albanese che, salito in grado come ufficiale dell’esercito janissario, si era ritrovato a governare Nafplio. Un uomo di potere che, pur essendo lontano dalla sua terra d'origine, aveva scelto di lasciare un segno indelebile nel cuore di quella terra. Su uno dei pannelli di marmo della fontana, il suo nome era inciso con orgoglio.
Il vecchio uomo che mi aveva accolto nella sua bottega, rivelandomi la storia del suo nonno, mi raccontò che Mahmud Pasha, pur essendo una figura temuta, si era distinto per la sua adesione a una delle più antiche confraternite sufi, i Bektashi. Questi mistici musulmani avevano una visione sincretica della religione, in cui non c’era una chiusura dogmatica ma una ricerca incessante della verità nascosta dietro tutte le fedi. La fontana, infatti, non era solo un monumento alla sua autorità, ma anche un atto di carità, un dono della fede. La scelta di costruire una fontana era, in effetti, un esempio del "zakat", l’atto di carità che ogni musulmano è tenuto a praticare. La fontana, pur essendo un semplice elemento urbano, rappresentava il giusto equilibrio tra l'aspetto spirituale e quello pratico della vita quotidiana: un luogo dove i viandanti e anche gli animali potevano trovare ristoro.
Il vecchio uomo, un discendente diretto di Mahmud Pasha, mi raccontò anche di come suo nonno avesse commissionato un acquedotto che collegava Nafplio con una fonte a circa sei chilometri di distanza. Prima di questo, la città era costretta a fare affidamento su acque salmastre, ben lontane dalla freschezza di quella che ora scorreva nei canali della città. A un certo punto della conversazione, mi chiesi se, proprio come quell’acquedotto, anche le tradizioni ottomane potessero, in qualche modo, sopravvivere nell’ombra di una Grecia indipendente. Quella fontana, insieme a tanti altri monumenti ottomani che stava cercando di cancellare il nuovo Stato greco, era ancora lì, come una testimonianza di una storia che non poteva essere dimenticata.
Il vecchio, che si faceva chiamare Nikos dopo aver cambiato religione e nome durante la guerra d’indipendenza, mi parlò anche della guerra stessa. Nonostante avesse lasciato la fede musulmana, il suo legame con il passato era forte. La sua storia era simile a quella di tanti altri che, trovandosi davanti alla difficile scelta tra restare fedeli a un impero ormai in declino o aderire al nuovo corso di una Grecia che cercava di rimettere insieme le proprie forze, avevano preso strade diverse. Nikos, però, aveva scelto la strada della fede individuale, e non senza difficoltà: «Forse c’è un solo Dio», disse, «ma nessuno sa se sia quello che trovi nel Corano, nella Bibbia o in altri libri». Il suo discorso mi colpì. In un’epoca segnata dalla divisione, dove le alleanze e le scelte politiche venivano scandite da conflitti violenti, lui sembrava volerci ricordare che la fede, più delle ideologie, poteva essere una via per l’unità.
Poco dopo, il vecchio mi avvertì di una minaccia imminente. La morte di Kapodistrias aveva alimentato voci di cospirazioni più grandi, e la città era ormai una polveriera pronta ad esplodere. "Non restare qui", mi consigliò con tono severo. "Prendi questa nave, lascia questa terra. Il futuro non è più quello di una volta." La sua voce aveva un tono profetico, come se stesse raccontando la fine di un’epoca, non solo per lui, ma per tutta Nafplio, per la Grecia intera.
La scena di quella fontana, che avevo visto per la prima volta da una prospettiva così ingenua e distante, ora mi sembrava diversa. Non era solo un'opera d'arte, ma un simbolo di resistenza. In un paese che cercava di distaccarsi dalla sua eredità ottomana, quei monumenti come la fontana, che rappresentavano la generosità e la fede di un altro tempo, sembravano quasi prefigurare un futuro dove le divisioni tra le religioni e le culture non sarebbero più state così acute. In quel momento, pensai che forse la speranza risiedeva proprio in quei segni del passato che la guerra cercava di distruggere. Forse, alla fine, sarebbe stata l'acqua che scorreva attraverso quei vecchi acquedotti a unire le genti di Nafplio, più di quanto le ideologie politiche potessero fare.
Come il commercio e le rotte culturali hanno modellato le civiltà
Il commercio, nelle sue varie forme, ha sempre avuto un impatto significativo sulle civiltà, non solo per il semplice scambio di beni materiali, ma anche per il trasferimento di conoscenze, ideologie e culture. Le rotte commerciali hanno rappresentato non solo una via per l’approvvigionamento di beni preziosi, ma anche un canale attraverso il quale si sono diffusi concetti filosofici, religiosi e scientifici che hanno forgiato la storia di numerosi popoli.
Le terre che si affacciano sulle vie di commercio, come quelle che collegano l’Asia, il Medio Oriente e l’Europa, sono diventate i crocevia dove le differenti tradizioni e pratiche hanno avuto modo di mescolarsi. Le città che sorsero lungo queste rotte, come Bagdad, Damasco, Costantinopoli, e Cairo, divennero centri non solo di scambi materiali, ma anche di fioriture culturali. Qui, la scienza, la medicina, la filosofia e l’arte hanno preso forme nuove, grazie al contatto con altre tradizioni. La Persia, ad esempio, che nel corso dei secoli ha assimilato influenze dalla Grecia, dall’India e dall’Arabia, ha dato vita a una civiltà che ha dato contributi cruciali alla cultura islamica e occidentale.
Nel Medioevo, il mondo arabo giocò un ruolo fondamentale nella conservazione e trasmissione del sapere greco-romano e indiano. La traduzione di testi filosofici e scientifici in arabo ha permesso la loro sopravvivenza e diffusione nel mondo islamico, e da lì, attraverso l’Europa, hanno raggiunto la civiltà occidentale, dando inizio al Rinascimento. Le rotte commerciali, come la via della seta, hanno agito come veicoli per l’innovazione culturale, e il flusso di conoscenze in entrambe le direzioni tra Oriente e Occidente ha avuto un impatto duraturo.
Il commercio di spezie, seta, e metalli preziosi lungo il Mediterraneo e l’Oceano Indiano ha stimolato la crescita di città portuali, creando hub economici e culturali che hanno giocato un ruolo cruciale nello sviluppo di regni e imperi. L’incontro tra diverse culture in questi punti nevralgici non è stato privo di conflitti, ma ha anche creato opportunità di scambio, portando alla fusione di lingue, religioni e tradizioni artistiche. In questa prospettiva, città come Venezia, Alessandria d’Egitto e Baghdad non erano solo centri commerciali, ma veri e propri centri di interazione culturale.
Le dinastie che governavano queste città e regioni cercarono spesso di prolungare il proprio dominio anche attraverso il controllo delle rotte commerciali. Non si trattava solo di una questione economica, ma di potere geopolitico. Per esempio, il controllo del Mar Rosso e del Golfo Persico da parte delle potenze islamiche garantiva l’accesso a rotte cruciali per il commercio di spezie e prodotti di lusso, che avevano un valore immenso.
Un altro aspetto fondamentale che emerge dal commercio in queste regioni è l’influenza che esso esercitava sulle religioni. Le vie di commercio non solo facevano circolare beni, ma anche idee religiose. Le carovane di pellegrini che attraversavano il deserto e le rotte marittime portavano con sé non solo mercanzie, ma anche la fede e le pratiche religiose. La diffusione dell’Islam, ad esempio, è stata facilitata dalle rotte commerciali che collegavano il Medio Oriente all’Africa sub-sahariana, all’Asia centrale e all’Europa.
Ma oltre agli aspetti commerciali e religiosi, un altro fenomeno legato alle rotte di scambio fu l’arricchimento delle tradizioni artistiche. La cultura islamica, ad esempio, non si limitò a riprodurre forme artistiche provenienti dall’antichità greca e romana, ma le adattò, dando vita a una nuova estetica che univa geometria, simmetria e l’uso di motivi floreali. L’arte della miniatura persiana, la ceramica ottomana e l’architettura delle moschee riflettono questo incontro tra tradizione e innovazione, creando una sintesi unica di stili provenienti da diverse parti del mondo.
L’importanza delle rotte commerciali, quindi, non è solo una questione di scambio economico, ma di contatti e fusioni culturali che hanno modellato la storia del mondo. L’influenza che il commercio ha avuto nel plasmare la geopolitica, la religione, la cultura e l’arte è un aspetto cruciale della storia delle civiltà umane. Non possiamo considerare queste vie commerciali solo come corridoi di transito per beni materiali: esse sono state e continuano ad essere anche corridoi di trasmissione culturale, intellettuale e spirituale.
Quando si esamina la storia del commercio attraverso le rotte terrestri e marittime, è essenziale considerare non solo gli scambi di merci, ma anche il lungo processo di diffusione delle conoscenze, la trasformazione delle società e l’incontro tra le diverse tradizioni culturali. È fondamentale riconoscere che queste rotte hanno avuto un impatto profondo non solo sul piano economico, ma anche sul piano ideologico e culturale, unendo popoli e idee lontani in modi che hanno arricchito l’intera umanità.

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