«Vattene», disse con calma. La sua voce era carica di una sicurezza quasi invincibile, il tono portava con sé un potere palpabile, un avvertimento vivo e pericoloso. Come spia, era stato inviato proprio per scoprire questo: il pericolo, la forza nascosta dietro la maschera di una creatura apparentemente minacciosa. Ora lo sapeva, e ne provava più rimorso che timore. La rabbia covava sotto la superficie, un fuoco che lo spingeva a reagire con violenza anziché con paura. Fece un passo indietro, entrando in una posizione di combattimento solida, pronto a difendersi.
Il suo avversario, un mue alto due metri, massiccio e coperto da una tuta da lavoro ricoperta di lubrificante sintetico, appariva minaccioso e ben addestrato. La sua pelle, ricoperta da piccole scaglie, e i grandi occhi gialli sporgenti, conferivano al suo aspetto un’aura quasi aliena. Ma sotto quell’apparenza feroce, Tal percepiva qualcosa di più complesso, un miscuglio di odio, insicurezza, razzismo, paura e fiducia nelle proprie capacità, mischiato a un certo godimento nell’infliggere dolore.
Nel mezzo di un attacco improvviso, Tal avvertì con la mente una vibrazione, un contatto sottile che trascendeva la semplice percezione fisica: era in sintonia con la "Wave", una sorta di flusso emotivo e mentale che gli permetteva di leggere le intenzioni e le emozioni del nemico, quasi di diventare una cosa sola con lui. Questa capacità gli diede un vantaggio cruciale, permettendogli di interpretare e contrastare ogni mossa dell’avversario con precisione millimetrica.
Tuttavia, nonostante la sua abilità e il suo addestramento decennale come operatore d’azione, Tal si sentiva esausto e, soprattutto, convinto che non voleva più eseguire quell’assegnazione. Era il momento di rifiutare, di dire basta a quelle missioni che lo consumavano. Ma il suo interlocutore, Sig, lo incoraggiava, sostenendo che solo lui, con la sua esperienza e competenza, poteva portare a termine quell’incarico fondamentale.
Tra i due si sviluppò uno scambio acceso, fatto di dubbi, sfide e richieste. Sig desiderava qualcosa in cambio: un libro antico, un vero e proprio tesoro nazionale contenente miti e leggende della Terra, un simbolo del passato che sembrava quasi sacro. Per ottenerlo, Tal avrebbe dovuto dimostrare le sue capacità di combattimento, adottando un sistema di arti marziali chiamato "Set", una disciplina rigorosa e segreta che si diceva rendesse i piloti di Dreadnought Arezilah pari a dieci battelli terrestri.
Tal, abituato a leggere i movimenti e a prevedere le intenzioni degli avversari, tentò una serie di attacchi con pugni, calci e finte, ma il suo maestro alieno li schivò con una facilità disarmante, come se stesse interpretando una danza complessa di difesa e contrattacco. Il sistema "Set" non era solo una tecnica di combattimento, ma una vera filosofia del movimento e della percezione, capace di trasformare la forza bruta in precisione assoluta.
Questa esperienza rivelava una verità più profonda: spesso, la vera potenza non risiede nella mera forza fisica, ma nella comprensione della natura dell’avversario, nella capacità di leggere e anticipare, di adattarsi e rispondere con equilibrio e controllo. Tal dovette imparare a dominare non solo il corpo, ma anche la mente e le emozioni, per poter realmente diventare efficace.
Oltre al semplice confronto fisico, il racconto mette in luce la complessità delle relazioni tra individui di mondi e culture diverse, l’eterna lotta tra dovere e desiderio personale, e il prezzo che si paga per conoscere verità scomode. Il lettore deve comprendere che la forza autentica si manifesta non solo nella capacità di combattere, ma nella saggezza di scegliere quando combattere, nel discernimento che distingue un semplice guerriero da un vero maestro.
In definitiva, questo episodio insegna che la conoscenza, l’adattabilità e la profondità di percezione sono armi altrettanto potenti quanto i colpi più feroci. La preparazione mentale, l’empatia e la capacità di leggere il contesto sono la chiave per affrontare non solo gli avversari esterni, ma anche le sfide interiori che ogni combattente, e in generale ogni individuo, deve affrontare nel proprio cammino.
Chi è il vero padrone dell’Onda e quale prezzo comporta il suo dominio?
Tal sentiva la pressione insostenibile delle dita sulla sua testa, come se il mondo intero stesse franando dentro di lui. Non era soltanto dolore, ma un’invasione: l’Onda lo travolgeva, lo avvolgeva, lo permeava fino al cuore delle cellule, rivelandosi come la totalità dell’universo, vasta oltre ogni immaginazione. Colore e invisibilità, suono e silenzio, tatto e assenza di confine: l’Onda era tutto. Non c’era distinzione tra sé e lei. Era lui, ed egli era l’Onda.
Sull, osservandolo, parlava con calma di un potere che non poteva essere usato per l’aggressione. L’Onda, diceva, era perfetta difesa, non arma. Nessun vero maestro dell’Onda avrebbe mai pensato di attaccare, perché ciò avrebbe generato disarmonia, rovesciando la sua stessa essenza. Era un principio che Tal non aveva compreso fino ad allora. La rivelazione era insieme vertigine e condanna. Se avesse portato questo sapere sulla Terra, tutti sarebbero cambiati, incapaci di sopportare l’imperfezione senza intervenire. Un potere così non trasformava solo la forza esteriore, ma anche l’etica interiore.
Tal ricordò Epimeteo, il fratello dimenticato di Prometeo, colui che aveva creato l’uomo ma senza completarne l’opera, privo della lungimiranza necessaria. Solo a posteriori Epimeteo vedeva gli errori, l’insufficienza dei suoi atti. Ora Tal sentiva su di sé lo stesso fardello: un dono che non era soltanto capacità ma vincolo, destino, impossibilità di restare neutrale. L’Onda non permetteva la complicità con il difetto; obbligava a correggerlo. Era difesa assoluta, ma anche responsabilità assoluta.
Davanti a lui, nell’oscurità della tempesta, apparvero le creature Kreeliane, piccole e rapide, armate di lame rotanti che fendevano la pioggia come scintille. L’errore nella trama dell’Onda era stato causato da loro, e correggerlo significava confrontarsi con loro, forse eliminarli, forse salvarli. Tal comprese che non poteva più scegliere il silenzio: il dono che aveva ricevuto esigeva azione, ma un’azione che non fosse distruzione. Il potere di difendere era anche il potere di trasformare, ma trasformare significava assumere il rischio di fallire, di ripetere l’errore di Epimeteo.
Era questa la domanda che lo assillava: l’umanità era pronta per una pace autoimposta, permanente, sostenuta non dalla paura ma da una mutazione interiore? O questo sarebbe stato soltanto un altro fuoco rubato agli dèi, destinato a consumare chi lo portava? Tal si scoprì a pensare non tanto al trionfo quanto al prezzo, e al peso delle decisioni. L’Onda proteggeva, ma non liberava dal dovere. Come i mitici fratelli, il dono e la cecità potevano coesistere nello stesso essere.
Ciò che il lettore deve comprendere è che il potere dell’Onda non è mera metafora di forza o invulnerabilità. È una lente sulla natura umana, sul paradosso del dono e del vincolo. Acquisire un potere perfetto significa anche perdere la libertà dell’indifferenza, significa accettare che ogni difesa comporta un impegno etico, che ogni armonia ottenuta non è mai neutrale ma scelta consapevole. È l’avvertimento antico di Prometeo e di Epimeteo insieme: ogni fuoco acceso illumina, ma brucia chi lo porta.
Chi sono davvero i nostri nemici?
Il sospetto, quando serpeggia nelle vene di una società, può rivelarsi un’arma più devastante delle stesse armi di distruzione. Nella sala del Consiglio di Guerra, il silenzio iniziale era denso come un fumo tossico. Tutti guardavano me, segretario di fiducia, colui che fino a un istante prima era parte dell’ingranaggio. Con un gesto calcolato, ho sollevato le zampe per chiedere silenzio, mentre i miei artigli, affilati come rasoi, già intuivano la verità prima che le parole potessero formularla. E in quell’istante, ogni occhio – grande, piccolo, verde, rosso – si è fissato su di me, in attesa.
“Gli umani sono tra noi,” ho detto, e l’eco di quelle parole è rimbalzata come un colpo di cannone. Non c’era più spazio per i dubbi. Non potevo permettermi di esitare: in un solo movimento ho squarciato la gola del segretario, dilaniando il corpo che avevo servito fino a quel momento. Un istante di silenzio, poi un sussulto generale: dentro quella testa c’era un’altra testa, umana, pallida e scura, che mi fissava con rancore.
Il tempo non si è fermato. L’uomo, o ciò che era, ha estratto un’arma da una fessura laterale del corpo alieno che indossava come travestimento. Mi aspettavo quel gesto, ma non il microfono che ha afferrato subito dopo, gridando in una lingua sconosciuta. Volevo che lo facesse, gli ho lasciato il tempo di inviare il suo messaggio, prima di strappargli via il microfono. Poi è svanito attraverso una botola nel pavimento, lasciandomi a terra, ansimante, mentre la sala esplodeva nel caos.
Ho ordinato di dare l’allarme, di catturare tutti i “ploppies neri” infiltrati, di non lasciarne scappare nessuno. Solo dopo mi sono accasciato, fingendomi morto, mentre il Consiglio mi oltrepassava nella fuga. Con un occhio semiaperto ho osservato la sala svuotarsi, poi ho aperto la botola e mi sono gettato all’inseguimento.
Non era un inseguimento cieco. Durante la lotta avevo applicato al corpo artificiale dell’infiltrato un piccolo generatore di neutrini. Le particelle avrebbero attraversato qualsiasi barriera, e io avevo nel muso un rilevatore direzionale, parte delle mie “semplici” precauzioni di missione. La scia mi ha condotto sotto terra, giù per scale e cunicoli, fino al cuore della loro attività segreta.
Il tunnel si apriva su una camera enorme, cupolata, con al centro una nave grigia, pronta a decollare. Ovunque, gli uomini-grigi correvano, alcuni ancora travestiti, altri già privi delle loro maschere aliene. Come ratti che abbandonano una nave in affondamento, lasciavano trapelare la disperazione di un piano fallito. Io, nascosto nell’ombra, osservavo: il loro caos era il mio trionfo.
Eppure, anche in quel momento, ero prigioniero del mio stesso corpo, della fatica e del dolore accumulati. La cattura che avevo rischiato era stata reale. Le loro tecniche di contenimento, le celle di metallo senza cibo né acqua, l’indifferenza con cui mi guardavano mentre soffrivo: tutto era stato un banco di prova, un preludio allo scontro finale. Mi era rimasta la lucidità di provocare, di parlare, di guadagnare il tempo necessario. Ma la consapevolezza di ciò che affrontavo – un nemico in grado di infiltrarsi, mimetizzarsi, e vivere tra noi senza destare sospetto – era ancora più tagliente di qualsiasi artiglio.
È necessario che il lettore comprenda che la vera minaccia non risiede soltanto negli atti visibili, ma nella capacità dell’avversario di adattarsi, di nascondersi nella familiarità, di sfruttare i nostri stessi meccanismi contro di noi. Non si tratta di scoprire un nemico, ma di scoprire la fragilità del sistema che lo accoglie. Per affrontarlo non bastano forza o violenza: servono preparazione, intuizione, e la volontà di sospettare quando tutto invita a fidarsi.
È possibile salvare un popolo da se stesso senza distruggerlo?
Avanzavo a fatica nella neve, mentre gli uomini grigi, creature dall’immaginazione limitata, rallentavano il mio passo. Eppure continuavo a muovermi, a rettangoli rispetto al nostro percorso precedente, come un prigioniero evaso che segue un istinto tanto antico quanto inevitabile. Finii con il cadere a capofitto nella neve; le mani e il viso erano ormai insensibili al gelo. Voci mi chiamavano da ogni lato, ma nessuna si avvicinava abbastanza. Attesi che una bufera coprisse le tracce e corsi verso l’edificio più vicino che emergeva dalla nebbia bianca. Lì, dietro l’angolo, un uomo mi stava aspettando.
«Non tentare di fuggire» disse premendo la canna della pistola contro il mio stomaco. Gli chiesi spiegazioni; me le diede con voce lenta, carica di anni e di amarezza. «Il Comitato dei Dieci governa questo pianeta. Io ero uno di loro. Organizzavo, guidavo, decidevo. Ho cercato di cambiare le regole, di deviare il programma immutabile che forma i nostri giovani. Ma su Kekkonshiki non c’è posto per idee nuove. Ho perso il mio potere e sono stato esiliato qui, alla Scuola Yurisareta, dove ogni parola del programma è fissata per sempre. Non posso uscire, né posso modificare una sola linea. Questa è la prigione più sicura di tutte: un’educazione che non ammette deviazioni».
Era vecchio, la pelle gialla pendente in pieghe molli, ma gli occhi — vividi e lucenti — lo tradivano: c’era ancora vita in lui, e soprattutto un’intelligenza dolorosa. Mi consegnò la pistola, quasi per riflesso la presi. «Tu puoi fare ciò che io ho tentato invano per tutta la vita» disse. «Salvare questo popolo da se stesso».
Mi raccontò come il suo pianeta aveva selezionato, generazione dopo generazione, l’assenza di immaginazione. Qui l’intelligenza non era un vantaggio ma un difetto. Lui era nato mutante, troppo brillante, troppo consapevole. Per anni aveva obbedito senza domande, credendo a tutto ciò che gli veniva insegnato. Ma l’obbedienza cieca è il vero veleno: aveva iniziato a dubitare, a porre domande, e per questo era stato punito. «Noi non siamo superiori al resto dell’umanità» disse con voce spenta. «Siamo soltanto diversi. I nostri tentativi di distruggere o dominare gli altri popoli sono stati un errore. E il più grande crimine è stato usare gli alieni per fare guerra alla nostra stessa specie».
Mi porse un foglio con coordinate spaziali: Kekkonshiki, il cuore del suo esilio e della sua condanna. «Con un solo messaggio il tuo mondo conoscerà la nostra posizione» disse. «E ci distruggerà». La sua voce era calma, ma conteneva un filo di sfida. Io scossi la testa: «Non avete idea di come reagiscono le popolazioni civili. Non vi stermineranno. Vi terranno d’occhio, vi offriranno aiuto. Solo questo». Per la prima volta vidi incrinarsi la sua maschera: un sorriso sottile apparve sulle sue labbra rigide. «Ecco perché ti ho contattato. Tu puoi fare ciò che io non sono riuscito a fare: cambiare tutto».
Nei grandi casse che ci circondavano erano nascoste valute, merci, strumenti acquistati da mondi lontani per sostenere la vita su questo pianeta sterile. In una di esse aveva preparato il mio nascondiglio: un compartimento segreto, coperte sottili, fiasche d’acqua, spazio sufficiente per sopravvivere fino alla prossima tappa. «Hai la pistola e il tuo ingegno» disse. «Quando arriverai a destinazione, potrai fuggire». Guardai il buio di quella cassa come se fosse un portale. Non era solo un rifugio: era una scelta, forse l’ultima.
È importante che il lettore comprenda che questa scena non riguarda soltanto una fuga individuale, ma il conflitto eterno tra libertà e controllo, tra immaginazione e conformismo. Le società che eliminano il dubbio e l’invenzione per garantirsi la sopravvivenza diventano prigioni che soffocano le stesse qualità necessarie per evolvere. L’intelligenza e la creatività, se viste come minacce, trasformano gli individui più brillanti in nemici interni e li condannano all’esilio o al silenzio. Ma sono proprio queste qualità che, paradossalmente, offrono la possibilità di salvezza collettiva.
Come può la morale piegarsi alla sopravvivenza senza perdersi?
Nessun altro cambiava come i Kekkonshiki. La loro dottrina morale era essenzialmente una filosofia della sopravvivenza: tutto ciò che assicurava la continuità del gruppo veniva sacralizzato, ogni altra cosa poteva essere sacrificata. Eppure sembrava possibile impiegare il loro psicocontrollo come mezzo, chiedere il loro aiuto, persino manovrare i loro princìpi a vantaggio altrui. C’era una sola persona sul pianeta — forse ancora viva — capace di insegnare le tecniche necessarie a tutte le razze. Era una possibilità scomoda e rara, e intorno a quella possibilità si tessé un ordine improvvisato: armar battaglia, inviare una crociera, imbarcare marines ed esperti. “Ordina la crociera” fu detto con voce che non ammetteva repliche; e quando la mappa fu stesa, il dito fu puntato sulla Yurisareta School come su un bersaglio da raggiungere.
Il piano non era limpido. “I dettagli verranno sistemati dopo,” fu la risposta che celava un buco di conoscenza. Ma la macchina burocratica si avviò lo stesso: ordini, equipaggiamenti, un osservatore della Morality Corps per non far saltare la finzione. Nel frattempo, una donna crollò al suolo per lo stress; poco dopo l’autore indossava una tuta spaziale, planava nella neve e approfittava dell’oscurità locale per muoversi. I tempi erano maturi: finta resa, dimostrazione, controllo dell’opinione pubblica. Si adottarono blackout radio e manipolazioni psichiche sulle popolazioni invase; la propaganda aveva già dimostrato la sua efficacia, ma l’indottrinamento richiese tempo.
Il confronto con i locali degenerò nella forma più prosaica della violenza rituale: istruzioni da rispettare, ordini da impartire e obbedienza istantanea. Kome Rome, predicatore della guerra, trovò seguaci pronti a battersi fino alla morte perché quella stessa morte, nel loro sistema, era una forma di diritto morale. Hanasu, il preside, pronunciò comandi che i ragazzi eseguirono senza esitare: la disciplina era un riflesso della cultura che aveva forgiato quelle regole. Una dimostrazione mirata di forza mantenne l’ordine mentre si cercava di evitare che la violenza degenerasse in caos totale.
L’argomento centrale emerse quando si parlò di riutilizzare le macchine di confusione mentale sugli “alieni”. La logica adottata era fredda e tecnica: le popolazioni primitive sono plasmabili; la propaganda e la paura avevano già dimostrato la loro efficacia; rovesciare quell’indottrinamento era concepibile. Proporre di infiltrarsi, di adottare travestimenti alieni per poi sfruttare le stesse tecniche di persuasione che avevano creato il nemico, suonava come una soluzione pratica e spietata. “Non per incoraggiare la guerra, ma per fermarla,” fu la contraddizione che serpeggiava tra le righe: usare l’arte della menzogna psicologica per restaurare la pace sotto una nuova verità imposta.
La scena si chiuse con atti che non mostrano eroismi: ordini impartiti, resistenze piegate, un insegnante steso a terra per essere stato messo fuori combattimento con un ago soporifero. L’impressione che resta è di un mondo dove la morale è un apparato modellabile, dove gli uomini adottano ruoli prescritti da una cultura che ha scelto la sopravvivenza come legge suprema. La domanda rimane: in che misura la pratica di quei princìpi trasforma chi la esercita, e quale costo antropologico e politico la “salvezza” impone?
È importante aggiungere al testo elementi che chiariscano il contesto culturale e tecnico: una descrizione più dettagliata del codice morale Kekkonshiki e del suo insegnamento, estratti della loro legge scritta e orale, e un profilo etnografico che spieghi come la paura e la memoria collettiva hanno formato i loro istituti educativi. Occorre inserire spiegazioni sul funzionamento delle apparecchiature di psicocontrollo: principi operativi, limiti, effetti collaterali su target di culture diverse e protocolli per l’uso etico o militare. Andrebbero ajoutati dossier cartografici e piani logistici per mostrare la portata delle operazioni: rotte di discesa, punti di atterraggio, reti di comunicazione e vulnerabilità. Va illustrato il processo di indottrinamento e i metodi possibili di deprogrammazione, con studi di casi comparativi su società reali che hanno subito manipolazioni di massa. Necessario è anche un’analisi delle conseguenze psicologiche sui singoli agenti che utilizzano la coercizione: rapporti post-operatori, sindromi da colpa, alterazioni dell’empatia. Infine, includere scenari alternativi non militari per la risoluzione del conflitto, valutazioni etiche e un breve repertorio di dilemmi morali che consentano al lettore di misurare la tensione tra efficacia pragmatica e perdita di umanità, offrendo così una cornice critica oltre l’azione narrata.

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский