Nel 2016, Joe Biden ha sostenuto Kamala Harris per coprire il seggio vacante del Senato della California, lasciato dalla senatrice Barbara Boxer. "Beau l'ha sempre sostenuta", scrisse Biden in una dichiarazione. Harris diventò così la prima persona di colore eletta a rappresentare la California al Senato. Figlia di una madre indiana, Shyamala, e di un padre giamaicano, Donald, che erano immigrati negli Stati Uniti prima che Harris nascesse, la sua storia familiare si intreccia con quella della lotta per i diritti civili. I suoi genitori si incontrarono come attivisti per i diritti civili a Berkeley: Donald economista e Shyamala scienziata.

Kamala Harris ha sempre proiettato un'immagine di forza interiore e determinazione, caratteristiche che hanno alimentato la sua carriera politica. È stata la prima donna a ricoprire il ruolo di procuratore distrettuale di San Francisco, nonché la prima persona di colore e prima donna ad essere eletta procuratore generale della California. Nonostante il suo record di voto fosse chiaramente liberale, la sua posizione all'interno del partito democratico era più centrata, soprattutto in un contesto in cui Bernie Sanders rappresentava la sinistra del partito. Harris aveva anche mantenuto stretti legami con l'ex presidente Barack Obama, sostenendo la sua candidatura nel 2008. La sua campagna presidenziale del 2020, purtroppo, non aveva avuto successo, ma Biden, che aveva abbandonato due campagne presidenziali, non considerava la sua ritirata come un difetto. Era semplicemente parte del percorso verso la presidenza.

In qualità di ex presidente della Commissione Giudiziaria del Senato, Biden apprezzava la sua abilità di influenzare il dibattito pubblico, come dimostrato dalle sue domande incisive durante le audizioni di conferma del giudice Brett Kavanaugh nel 2018, che avevano suscitato una grande attenzione mediatica. Nonostante alcune dure critiche reciproche durante le primarie del 2020, Biden si era già fatto un'opinione favorevole di Harris, riconoscendo le sue qualità politiche e umane. Durante una discussione con Chris Dodd, che presiedeva il comitato per la selezione del vicepresidente, Biden aveva detto di non serbare rancore per le divergenze avute con Harris durante le primarie, facendo capire che la sua decisione di scegliere Kamala come vice non era dovuta solo a considerazioni politiche, ma anche al rispetto reciproco che esisteva tra i due.

Nel contesto delle proteste per la giustizia razziale che seguivano l'omicidio di George Floyd, le richieste di una donna di colore come vice presidente erano diventate sempre più forti. Le rivali di Harris per la candidatura, come la senatrice Elizabeth Warren e la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, riconoscevano a loro volta che questa era una scelta giusta. La decisione di Biden di scegliere Harris non era solo una mossa politica strategica, ma anche un segnale di cambiamento per il partito Democratico, con un riconoscimento crescente del ruolo e dell'influenza delle donne nere nella politica americana. L'11 agosto, Biden ha ufficialmente annunciato Kamala Harris come sua compagna di corsa. La notizia è stata accolta come un momento storico per la politica americana, un passo importante verso una rappresentanza più inclusiva.

Durante la campagna, Harris ha portato energia da procuratore e una figura decisa che si è distinta nel confronto con il vicepresidente Mike Pence durante il dibattito. I sondaggi la davano in forte ascesa, e la campagna ha raccolto una cifra record di 365 milioni di dollari solo nel mese di agosto. Il suo messaggio era chiaro: "Il carattere è in gioco", come ha detto durante il primo comizio con Biden a Delaware. La presenza di Kamala Harris nella corsa alla vicepresidenza non ha solo dato al ticket democratico una visibilità storica, ma ha anche dato al partito l'opportunità di ampliare la propria base elettorale, con milioni di donne e di persone di colore pronte a supportare la causa di un cambiamento radicale nel paese.

L'annuncio della sua nomina ha causato una reazione immediata da parte del presidente Trump, che non ha perso occasione per attaccare Harris, nonostante la sua retorica pungente non abbia intaccato la popolarità di Kamala tra i sostenitori democratici. L'atteggiamento di Trump nei confronti di Harris e Biden è stato sempre di discredito, ma la sua campagna ha rivelato anche l'inquietudine crescente all'interno dello staff di Trump. La frustrazione e le difficoltà politiche cominciavano a emergere, mentre la campagna di Biden-Harris si rafforzava giorno dopo giorno.

Per comprendere appieno la portata di questa scelta, è fondamentale tenere presente che la nomina di Kamala Harris come vice presidente non è stata solo una questione di politica, ma un segno di un cambiamento nelle dinamiche di potere e rappresentanza negli Stati Uniti. Il fatto che una donna di colore abbia raggiunto una posizione così alta non è solo un trionfo per le minoranze, ma un simbolo per tutte le donne americane che cercano di fare sentire la propria voce. La sua nomina segna anche un passo importante verso una politica più inclusiva, che rispecchia le trasformazioni sociali e culturali che stanno avvenendo nel paese.

La Costituzione contro la Politica: Un Conflitto Interno tra Legge e Potere nel Caso delle Elezioni del 2020

Il tentativo di Donald Trump di influenzare Mike Pence per fermare la certificazione dei risultati elettorali del 2020 evidenziò un punto cruciale: la tensione tra politica e costituzione, tra la protezione dei principi democratici e il desiderio di un leader di restare al potere. Il dialogo tra Pence e il vicepresidente Dan Quayle offre una visione interna e realistica di come la legge ha prevalso sulla retorica politica, nonostante le pressioni.

Quayle, con una posizione di distacco dalla politica attiva, spiegò chiaramente a Pence che non c'era spazio per azioni che avrebbero violato i principi costituzionali. "Mike, non hai alcuna flessibilità. Nessuna. Zero. Dimentica questa idea", disse Quayle, segnalando senza mezzi termini che la Costituzione non permetteva manipolazioni del processo elettorale. Pence, pur riconoscendo la sua difficoltà, ammetteva che l'idea di Trump non solo fosse irrealistica, ma potesse anche scatenare una crisi costituzionale. Tuttavia, Pence continuò a sperare che ci fosse una qualche possibilità legale di fermare la certificazione, nonostante la constatazione di Quayle che fosse impossibile.

Pence sottolineava come alcuni dei sostenitori di Trump suggerissero di avere poteri che non gli erano concessi dalla legge. Quayle rispondeva con fermezza, esortando Pence a non cedere alla tentazione di ostacolare la certificazione, ricordandogli che la sua funzione era puramente quella di annunciare i risultati, come aveva fatto tanti anni prima con un semplice "Annunciate e andate avanti". La lotta interna di Pence si rifletteva anche nella sua riflessione su quanto fosse difficile mantenere la propria integrità politica in mezzo alle pressioni di un potere che chiedeva l'adozione di decisioni non costituzionali.

Lo scambio di opinioni tra Mike Lee e Mitch McConnell, con quest'ultimo che sosteneva fermamente che il Congresso non avesse alcun potere di annullare i risultati elettorali, rispecchiava una visione ancora più ampia del conflitto in corso: da una parte, la fedeltà alla Costituzione e alla democrazia, dall'altra, l'influenza di una figura politica che aveva galvanizzato un ampio seguito con la sua retorica. Lee, un conservatore legale, sentiva che il presidente stesse cercando di manipolare la Costituzione per ragioni politiche, ma riconosceva anche il potere che Trump aveva esercitato nel creare una narrativa alternativa sulla validità dell'elezione.

L'idea che la politica potesse influenzare o addirittura sostituire i principi costituzionali emerse con forza quando Lee incontrò Ted Cruz, un altro senatore con un forte orientamento costituzionalista. Entrambi sapevano che non c'era un margine legale per fermare la certificazione dei risultati. Tuttavia, Cruz, ascoltando i consigli di alcuni alleati di Trump, cercò di trovare una via alternativa per fermare il processo, alimentando così la speranza di un gruppo di conservatori che avevano scommesso su una possibile obiezione al Congresso. La discussione si basava sull'idea che un singolo senatore potesse ostacolare l'esito della certificazione, trasformando un processo di routine in un incubo politico, forzando i repubblicani a scegliere tra la Costituzione e Trump.

L'intero periodo, intorno al 6 gennaio, fu caratterizzato da una pressione senza precedenti su membri del Congresso, tra cui Lee, che si trovavano a fronteggiare una narrativa politica che sembrava sostituire la realtà giuridica. Le preoccupazioni espresse da Lee — che il Congresso non avesse il potere di risolvere la questione — non furono condivise da tutti, ma diedero un'indicazione chiara della dicotomia tra la legge e la politica.

L'incontro di Trump con Lindsey Graham, durante il quale il senatore cercò di convincerlo della necessità di accettare la sconfitta, mostra un altro lato della storia: Trump non riusciva a capire come, avendo ricevuto 74 milioni di voti, avesse potuto perdere. La sua frustrazione fu alimentata dall'idea che la sua popolarità e il supporto fossero indicatori sufficienti per una vittoria, ma il risultato delle urne non lasciava dubbi. Graham cercò di spostare la conversazione verso la "grande ripresa americana", suggerendo a Trump di concentrarsi sul futuro anziché cercare di sovvertire il risultato.

In questo scenario, il ruolo del Congresso, dei senatori e dei vice presidenti non era solo quello di adempiere ai propri compiti formali, ma anche di bilanciare le esigenze politiche con le richieste legali e costituzionali. Nonostante l'intensa pressione esterna e interna, la resistenza alla violazione dei principi democratici e costituzionali si rivelò essere il punto di forza di molti all'interno del sistema politico, che si rifiutarono di partecipare a un processo che avrebbe minato la fiducia nelle istituzioni democratiche.

In sintesi, la vicenda delle elezioni del 2020 è un esempio emblematico di come la politica possa entrare in conflitto con la legge. La Costituzione, in ultima analisi, si è rivelata la garanzia per evitare che il potere politico prevalesse sulla volontà del popolo espressa nelle urne. L'integrità del sistema democratico è stata mantenuta non solo attraverso l'azione dei singoli, ma anche grazie alla forza delle leggi che regolano le elezioni.

Cosa sarebbe successo se il vicepresidente avesse potuto annullare i voti e dichiarare un nuovo vincitore?

Nel dicembre del 2020, durante una trasmissione su Fox News, l'avvocato John Eastman dichiarò che una "lista alternativa di elettori" sarebbe stata presentata dai sostenitori di Donald Trump negli Stati contestati, per poi essere inviata al Congresso. In privato, Eastman insisteva sul fatto che i gruppi di persone nei vari stati, che si proponevano come elettori alternativi, dovessero essere riconosciuti legittimi dal Congresso. Secondo lui, questi gruppi erano ben organizzati e determinati, e vi era un precedente da cui attingere: nel 1960, Hawaii aveva inviato due liste di elettori contrapposte, in seguito a una disputa tra il governatore repubblicano e i democratici locali. Tuttavia, a differenza di quanto accadde nel 1960, non vi era alcun tentativo formale di proporre una lista alternativa di elettori che fosse stata presa seriamente a livello legislativo. Le richieste ai governatori per sessioni speciali sul voto non ebbero alcun riscontro, rimanendo solo un grido d’allarme, per lo più da parte dei sostenitori di Trump, che volevano vedere riconosciuto un altro gruppo di elettori.

Alla fine di dicembre, Lee si rese conto che nulla di significativo era accaduto. Era stato tutto solo un parlare, senza alcuna azione concreta. La Costituzione, infatti, delineava in modo rigoroso il processo di certificazione del voto. "Che cosa sta succedendo?" si chiese Lee, osservando il documento di Eastman. Sapeva bene che qualsiasi tentativo di rendere il vicepresidente l’attore principale nel processo di certificazione sarebbe stato un distorsione deliberata della Costituzione. Lee aveva ripetutamente cercato di spiegare a Mark Meadows e ad altri membri della Casa Bianca e del partito repubblicano che il vicepresidente aveva solo il compito di contare i voti, nulla di più. La sua funzione era chiara e limitata, come recitavano i sette semplici e chiari termini del 12° emendamento: "e i voti saranno quindi contati."

Il documento di Eastman, che Lee stava leggendo, capovolgeva completamente il processo tradizionale. Lee era sorpreso che un uomo come Eastman, professore di legge ed ex assistente giudiziario presso la Corte Suprema, avesse potuto proporre una simile interpretazione. Il piano delineato nel memo prevedeva una serie di sei passaggi che il vicepresidente avrebbe dovuto seguire. Il terzo punto attirò immediatamente l'attenzione di Lee. Eastman proponeva che Pence dichiarasse che, a causa delle dispute in sette stati, non vi fossero elettori legittimi in quelle giurisdizioni. Di conseguenza, i voti di soli 43 stati sarebbero stati considerati validi, lasciando 454 elettori a determinare il vincitore delle elezioni. In questa situazione ipotetica, Trump avrebbe ottenuto 232 voti e Biden 222, permettendo così a Pence di proclamare Trump come rieletto presidente. Una procedura costituzionale mai prevista, che annullava milioni di voti validamente espressi e dichiarava un nuovo vincitore, era, a detta di Lee, completamente infondata.

La proposta di Eastman, seppur chiaramente infondata, sembrava essere parte di un piano ben orchestrato per evitare la certificazione dei risultati delle elezioni. Pence, secondo Eastman, avrebbe dovuto ignorare qualsiasi richiesta di permesso e agire come se fosse lui l’“arbitro finale” dei risultati elettorali, una posizione che non trovava alcun fondamento nella Costituzione. La realtà, per Lee, era ben diversa: il vicepresidente era semplicemente un funzionario incaricato di aprire i certificati elettorali e contare i voti, senza alcun potere di modificarli o annullarli.

Nonostante le evidenti distorsioni proposte, alcuni alleati di Trump, tra cui Mark Meadows, cercavano di trovare prove per sostenere le accuse di brogli elettorali, come la presenza di morti, minorenni o carcerati tra gli elettori. Tuttavia, nonostante le voci e le teorie avanzate, la mancanza di prove concrete rendeva ogni tentativo di invalidare le elezioni sempre più fragile. Le sfide legali presentate dal team legale di Trump in tribunale erano state tutte respinte, con circa 60 cause perse. Alla fine, la verità dei fatti emerse con chiarezza: la Costituzione e il sistema legale non permettevano alcun tentativo di annullare i risultati o di sovvertire il voto popolare.

È fondamentale comprendere come in ogni democrazia solida il sistema di contabilità e certificazione dei voti sia blindato da regole costituzionali e legali, proprio per prevenire che singoli individui o gruppi possano manipolare il processo per fini politici. Questo processo non è solo una formalità, ma un fondamento della fiducia che i cittadini ripongono nelle istituzioni democratiche. La stabilità di un sistema elettorale è essenziale per garantire che il potere sia sempre legittimamente trasferito dal popolo ai suoi rappresentanti, nel rispetto delle regole del gioco.

Qual è il vero costo del ritiro dall'Afghanistan?

Il ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan, deciso dal presidente Joe Biden, è stato un atto di grande portata che ha suscitato reazioni contrastanti, non solo tra i politici e i militari, ma anche tra gli stessi cittadini statunitensi. Mentre Biden difendeva la sua decisione, dichiarando che era tempo di "porre fine alla guerra eterna", molti osservatori, tra cui figure militari di alto rango, esprimevano preoccupazioni sul fatto che l'abbandono dell'Afghanistan avrebbe avuto gravi conseguenze non solo per la stabilità della regione, ma anche per la sicurezza globale.

Il generale Mark Milley, capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi, ha sottolineato che le regole d’ingaggio per l’esercito americano non contemplano l’azione di compromettere la fiducia tra le istituzioni, soprattutto quella nei confronti del presidente. Tuttavia, è stato evidente che la gestione della guerra in Afghanistan e il successivo ritiro hanno messo a dura prova questa fiducia. L'esercito ha dovuto affrontare un equilibrio delicato tra la necessità di proteggere le truppe e quella di rispondere alle pressioni politiche di una guerra che sembrava non avere fine.

Il ritiro accelerato delle forze americane fu visto, almeno inizialmente, come una mossa pragmatica. Il segretario alla difesa, Lloyd Austin, temeva per la sicurezza delle truppe, sperando che il ritiro potesse avvenire prima dell’estate del 2021. Eppure, la decisione di abbandonare l'Afghanistan, pur promettendo una fine alle perdite umane, non è riuscita a garantire un futuro stabile per il paese. L'incertezza che ne derivò si tradusse in un vuoto di potere, con il ritorno al potere dei talebani, che lo stesso Lindsey Graham, senatore repubblicano, definì una "tragica scelta".

Il paradosso di tale decisione risiedeva nel fatto che, purtroppo, il ritiro non solo non aveva portato pace in Afghanistan, ma aveva anche minato gli sforzi internazionali per sconfiggere il terrorismo. Le previsioni di una guerra civile, che poi si sono realizzate, sembravano evidenti, ma sembravano inevitabili. Inoltre, le dichiarazioni di Graham riflettevano una visione che temeva che l’abbandono delle forze americane avrebbe dato nuova linfa a gruppi radicali come Al-Qaeda, già presenti nella regione prima degli attacchi dell'11 settembre 2001.

I critici del ritiro sostenevano che il costo per le donne, le minoranze religiose e le forze locali che avevano collaborato con gli Stati Uniti sarebbe stato altissimo. La paura che queste persone venissero "massacrate" dopo la ritirata è diventata una delle principali preoccupazioni etiche e morali di quel periodo. Persino ex comandanti come il generale David Petraeus, architetto della strategia di controinsurrezione, criticarono l'abbandono della regione, affermando che la decisione fosse un errore strategico che avrebbe avuto conseguenze devastanti sul lungo termine. La sua previsione che Kabul sarebbe caduta come Saigon nel 1975 rispecchiava il sentimento di chi vedeva nel ritiro un atto simbolico di sconfitta.

Dal punto di vista politico, la situazione si complica ulteriormente. Biden non solo ha dovuto affrontare le critiche internazionali, ma anche quelle interne. L’impatto psicologico delle morti dei soldati americani e il sentimento di tradimento da parte di alleati locali sono stati pesanti. Il suo intervento del 14 aprile 2021, in cui dichiarava che sarebbe stato l'ultimo presidente a gestire le truppe in Afghanistan, non ha placato le critiche, ma ha fatto emergere una divisione sempre più marcata tra coloro che sostenevano la necessità di ritirarsi e chi invece riteneva che gli Stati Uniti dovessero mantenere una presenza nel paese per garantire la sicurezza globale.

Anche se le azioni di Biden sono state legate alla promessa di porre fine a un conflitto che si trascinava da due decenni, la percezione generale è stata quella di un fallimento nella gestione delle conseguenze politiche e umane di questa scelta. L’involuzione della situazione in Afghanistan ha messo a nudo la fragilità delle democrazie che cercano di esportare il proprio modello in contesti lontani, senza tenere conto delle differenze culturali e geopolitiche fondamentali.

Un aspetto che deve essere ben compreso è che il ritiro dall'Afghanistan non è stato solo una decisione militare o diplomatica, ma un atto che ha segnato il tramonto di una visione geopolitica degli Stati Uniti, un paese che si è visto sempre come un leader globale destinato a garantire la sicurezza internazionale. Il fallimento di questa visione ha sollevato una domanda critica: può una nazione come gli Stati Uniti davvero permettersi di "ritirarsi" dalla scena mondiale e restare al sicuro? La risposta a questa domanda rimane una questione di opinioni politiche divergenti e di valutazioni sulle priorità nazionali.

Come la Politica e le Dichiarazioni Pubbliche Hanno Influito sulle Elezioni e sulla Percezione Pubblica durante la Pandemia di COVID-19

La pandemia di COVID-19 ha segnato un periodo cruciale per la politica statunitense, influenzando non solo le dinamiche sociali ed economiche, ma anche le campagne elettorali e la comunicazione pubblica dei leader politici. Nel corso del 2020, una serie di eventi, dichiarazioni e controversie hanno scandito le fasi finali della presidenza di Donald Trump, creando una sorta di "teatro politico" che ha attirato l'attenzione globale. Il presidente, più che mai, si è trovato al centro di un dibattito che ha coinvolto non solo la gestione della crisi sanitaria, ma anche il modo in cui questa crisi è stata utilizzata o, al contrario, manipolata per scopi elettorali.

Trump, da una parte, ha continuato a minimizzare la gravità del virus, utilizzando toni ottimisti durante le sue conferenze e nelle dichiarazioni pubbliche. Le sue parole in un'intervista con Maria Bartiromo, dove ha dichiarato di aver "battuto il virus della Cina", sono emblematiche del suo approccio alla pandemia: una visione del mondo in cui la realtà è continuamente rimodellata per sostenere la sua narrativa politica. Allo stesso tempo, il suo governo è stato accusato di non aver preso sufficientemente sul serio la minaccia del COVID-19, con effetti devastanti per la salute pubblica e per l'economia.

Le sue dichiarazioni, spesso oggetto di polemiche, hanno avuto un impatto notevole sulla percezione pubblica del virus e delle sue conseguenze. Quando Trump, ad esempio, ha affermato che il virus non fosse un pericolo grave, o che fosse sotto controllo, la risposta della comunità scientifica è stata rapida e chiara, ma la sua retorica ha trovato un vasto pubblico tra i suoi sostenitori. La politica del "rifiuto della realtà" era, in effetti, uno degli strumenti più potenti del suo approccio comunicativo: negare, minimizzare, cambiare i fatti a seconda delle necessità politiche.

Questa gestione della crisi sanitaria si è fusa con le sue politiche elettorali. Durante i mesi precedenti alle elezioni presidenziali, il presidente Trump ha enfatizzato costantemente la necessità di "difendere la democrazia" e di contrastare qualsiasi forma di "frode elettorale", una narrativa che ha preso piede dopo i risultati del voto del 2020. Nonostante la chiamata alle urne in favore di Joe Biden, Trump e i suoi alleati hanno continuato a mettere in discussione la legittimità del risultato, lanciando accuse infondate di brogli elettorali.

La situazione si è ulteriormente complicata con la nomina di Chris Miller come Segretario alla Difesa, un altro tassello che ha alimentato il sospetto di manovre politiche dietro le quinte. Il caos e la confusione che hanno caratterizzato questo periodo di transizione sono stati amplificati dalla continua narrazione di Trump sui presunti brogli, alimentando divisioni profonde all'interno della società americana.

In un contesto del genere, la comunicazione politica si è dimostrata più potente che mai. Le immagini, i tweet, e le dichiarazioni in diretta hanno sostituito, in molti casi, i fatti concreti e le prove, creando una realtà parallela in cui il confine tra verità e manipolazione è divenuto sempre più sfumato. La scelta di ritirarsi dalla realtà, da parte di alcuni leader politici, non ha solo distorto il discorso pubblico, ma ha anche contribuito a minare la fiducia nelle istituzioni democratiche.

Oltre alla gestione del COVID-19, la questione della sicurezza delle elezioni ha dominato l'agenda politica. La difesa dell'integrità del voto è diventata una battaglia ideologica, mentre Trump ha cercato di galvanizzare i suoi sostenitori con l'idea di un "tradimento" da parte del sistema. Ciò ha avuto l'effetto di polarizzare ulteriormente l'opinione pubblica, dividendo la nazione tra chi si sentiva rappresentato da una visione di rinnovamento populista e chi, invece, vedeva in queste accuse di frode una minaccia alla democrazia stessa.

Durante queste fasi turbolente, Biden ha cercato di adottare un tono più conciliatorio. Il suo messaggio, improntato sulla guarigione e sull'unità nazionale, contrastava nettamente con quello del suo avversario, ma il fatto che la sua elezione sia stata accolta con un misto di gioia e sospetto evidenziava quanto il clima politico fosse diventato teso e fragile. Nonostante ciò, la sua retorica del "tempo per guarire" ha trovato una risonanza particolare, poiché il paese si trovava ad affrontare non solo una pandemia, ma anche una crisi politica ed emotiva.

Per comprendere appieno l'impatto che questi eventi hanno avuto, è necessario considerare anche le dinamiche di comunicazione e propaganda che si sono sviluppate in questo periodo. Il modo in cui i leader politici hanno utilizzato i media, i social network, e le conferenze stampa non è stato solo un riflesso delle circostanze, ma una strategia consapevole per manipolare l'opinione pubblica e influenzare i risultati elettorali. Questo tipo di comunicazione, fatta di dichiarazioni decise e di un linguaggio diretto, ha trasformato la politica in un esercizio di retorica visiva e verbale, dove la percezione ha avuto lo stesso peso della realtà.

Infine, un aspetto che non può essere sottovalutato è l’effetto che questa continua incertezza e polarizzazione ha avuto sulla società americana. L'incapacità di trovare una verità comune, la sfiducia nelle istituzioni e la manipolazione dell'informazione sono stati fattori che hanno contribuito a rendere il clima politico degli Stati Uniti sempre più instabile. Le differenze ideologiche si sono trasformate in divisioni profonde, che non riguardavano solo le politiche, ma anche la visione di ciò che fosse giusto o sbagliato, vero o falso. In un mondo in cui le parole hanno un peso enorme, ciò che si è detto e come si è detto ha avuto implicazioni molto più grandi rispetto al semplice dibattito politico.