La gestione della colite ulcerosa (UC) di grado moderato-severo richiede un approccio multidimensionale che comprende sia terapie locali che sistemiche. A seconda della gravità della malattia, le opzioni terapeutiche possono variare, ma la tendenza generale è quella di utilizzare trattamenti mirati per il controllo dell'infiammazione e il mantenimento della remissione.

Per le forme lievi e moderate di UC limitate al retto o al sigma (proctite e proctosigmoidite), i trattamenti rettali, come le supposte o gli clisteri, sono spesso sufficienti per ottenere sia l'induzione che il mantenimento della remissione, senza la necessità di terapie orali. In particolare, le supposte di mesalazina, somministrate una o due volte al giorno, o le supposte di idrocortisone, possono rappresentare la soluzione terapeutica primaria. Inoltre, nelle forme più diffuse, è possibile ricorrere agli enemi di mesalazina, che sono efficaci per l'estensione della malattia fino a 40 cm. L'uso combinato di terapia orale e rettale ha mostrato tassi di remissione superiori rispetto al trattamento monoterapico, sia orale che rettale.

Quando la malattia si estende in modo più ampio, coinvolgendo l'ileo e il colon destro, diventa necessario aggiungere trattamenti orali. Per il trattamento iniziale e l'induzione della remissione, la mesalazina orale rappresenta una scelta primaria, ma in casi più gravi, può essere necessario ricorrere a corticosteroidi orali come il prednisone, che vanno somministrati a dosaggi fino a 60 mg al giorno, per poi ridurre progressivamente la dose in base al miglioramento clinico. È fondamentale, tuttavia, limitare l'uso dei corticosteroidi come trattamento di mantenimento a causa dei loro effetti collaterali a lungo termine.

Oltre ai farmaci a base di mesalazina, esistono terapie avanzate per il trattamento delle UC moderate-severe. Tra queste, i farmaci immunosoppressori come il 6-mercaptopurina (6-MP) e l'azatioprina (Imuran), che riducono la risposta immunitaria, possono essere utilizzati in combinazione con altre terapie. Gli inibitori della Janus chinasi (JAK) come tofacitinib e upadacitinib sono anch'essi opzioni terapeutiche valide, sebbene richiedano esperienza pregressa con altri trattamenti. Questi farmaci, sebbene promettenti, sono associati a rischi significativi, come un aumento del rischio di eventi cardiovascolari, infarto, ictus, e complicazioni tromboemboliche, particolarmente nei pazienti di età superiore ai 50 anni.

Un'altra opzione terapeutica è rappresentata dagli anticorpi monoclonali, che agiscono in vari meccanismi. Gli anti-TNF come infliximab, adalimumab e golimumab sono utilizzati per bloccare il TNF-alfa, una citochina coinvolta nell'infiammazione intestinale. Il trattamento con infliximab avviene per via endovenosa, mentre gli altri due farmaci sono somministrati per iniezione sottocutanea. Vedolizumab, un anticorpo monoclonale che inibisce l'integrina α4β7, è utilizzato in caso di resistenza ad altre terapie, somministrato inizialmente per via endovenosa e poi ogni 8 settimane. Inoltre, ustekinumab, un inibitore della subunità p40 di IL-12 e IL-23, ha dimostrato di essere efficace nel trattamento della UC e viene somministrato inizialmente per via endovenosa, seguito da iniezioni sottocutanee ogni 8 settimane.

Un altro aspetto cruciale nella gestione della colite ulcerosa è il monitoraggio delle complicazioni extraintestinali che possono accompagnare la malattia. Tra queste, le artriti infiammatorie, sia di grandi che di piccole articolazioni, e condizioni come la spondilite anchilosante e l'erisipela nodosa sono comuni. Questi sintomi devono essere presi in considerazione nella pianificazione terapeutica, in quanto possono influire sulla qualità della vita del paziente.

È essenziale che la terapia venga personalizzata in base alla gravità della malattia, alle caratteristiche cliniche del paziente e alla risposta al trattamento precedente. Gli specialisti in malattie infiammatorie intestinali (IBD) dovrebbero essere consultati per casi complessi, soprattutto se il paziente ha avuto ripetuti episodi di esposizione ai corticosteroidi o se la malattia non risponde alle terapie convenzionali. Il trattamento combinato, che unisce farmaci sistemici a terapie locali, ha dimostrato di portare a tassi di remissione superiori rispetto all'uso singolo di una classe di farmaci.

In sintesi, la gestione della colite ulcerosa di grado moderato-severo richiede una valutazione attenta e individualizzata, con un ampio ventaglio di opzioni terapeutiche che vanno dai trattamenti rettali locali ai farmaci sistemici, comprese le terapie biologiche avanzate. La scelta del trattamento dipende dalla gravità della malattia, dalle comorbidità, dalle preferenze del paziente e dalla risposta ai trattamenti precedenti. L'approccio combinato e il monitoraggio costante sono essenziali per garantire il miglior controllo possibile della malattia.

È possibile trattare le cisti nei pazienti con malattia epatica policistica mediante sclerochirurgia?

La sclerochirurgia è una tecnica che può essere utilizzata per trattare le cisti epatiche, ma la sua efficacia varia a seconda della condizione del paziente. Nella malattia epatica policistica, i risultati tendono a essere meno favorevoli rispetto alle cisti epatiche solitarie. Le cisti nei pazienti con questa condizione raramente si collassano dopo il trattamento, probabilmente a causa della maggiore rigidità del fegato circostante. Questo impedisce un efficace appoggio della parete della cisti e, di conseguenza, la formazione di cicatrici all'interno della cavità. Quando il trattamento percutaneo non ha successo, si può rendere necessario un intervento chirurgico o laparoscopico, come l'asportazione della capsula della cisti, la fenestrazione o la resezione della stessa.

Per i trattamenti percutanei, la tecnica più comune è l'aspirazione del contenuto della cisti seguita dall'iniezione di una sostanza sclerosante, come l'etanolo, per cercare di ottenere il collasso della cisti. Tuttavia, nei pazienti con malattia epatica policistica, la risposta è meno prevedibile, e in alcuni casi può essere necessario ripetere le sedute per ottenere un effetto terapeutico soddisfacente. In alcuni casi, anche dopo diverse sessioni di sclerochirurgia, le cisti possono persistere o riformarsi, richiedendo soluzioni alternative, come l'intervento chirurgico.

Anche nei casi di cisti più grandi, il trattamento può essere particolarmente sfidante. L’aspirazione completa del contenuto cistico attraverso il catetere è fondamentale, ma la difficoltà aumenta quando la cisti ha dimensioni significative. In questi casi, è spesso necessario ripetere il trattamento fino a ottenere risultati soddisfacenti. Nonostante queste difficoltà, la tecnica rimane una delle opzioni per cercare di ridurre i sintomi nei pazienti con cisti epatiche di dimensioni considerevoli, ma la sua efficacia nei pazienti con malattia epatica policistica è comunque limitata.

Le cisti epatiche sono comuni in diverse condizioni, ma la difficoltà maggiore risiede proprio nel trattamento di quelle che si trovano all’interno di un fegato che non è elastico e morbido come in altre patologie. La gestione di queste cisti nei pazienti con malattia epatica policistica rappresenta quindi una sfida terapeutica che non ha una soluzione universale e che può richiedere diverse strategie terapeutiche.

Oltre alla sclerochirurgia, altre tecniche minimamente invasive sono state proposte per il trattamento delle cisti epatiche, ma anche queste presentano limitazioni, in particolare nei pazienti con malattia epatica diffusa o alterata. In questi casi, è fondamentale che i trattamenti vengano personalizzati in base alle caratteristiche specifiche della cisti e alla condizione epatica del paziente. Tecniche come l’ablazione percutanea, che include l'ablazione con radiofrequenza o microonde, sono spesso utilizzate per i tumori epatici, ma la loro applicabilità nelle cisti epatiche non è altrettanto consolidata.

In sintesi, il trattamento delle cisti epatiche nei pazienti con malattia epatica policistica richiede un approccio altamente personalizzato, spesso basato su un attento monitoraggio e su trattamenti ripetuti. L’aspirazione e la sclerochirurgia possono essere utili, ma sono spesso insufficienti da sole per garantire una risoluzione definitiva del problema. Inoltre, è importante considerare il rischio di recidiva, che può richiedere trattamenti aggiuntivi o, in alcuni casi, l'intervento chirurgico. La valutazione precoce e l’approccio multidisciplinare sono cruciali per ottimizzare i risultati terapeutici.

Qual è l'approccio terapeutico per l'epatite B e C: Quando è necessario il trattamento antivirale?

Il trattamento dell'epatite C e B è un argomento di grande rilevanza nella gestione delle infezioni virali croniche del fegato. In particolare, la decisione di iniziare una terapia antivirale dipende dalla fase dell'infezione, dal carico virale e dai segni di danno epatico. L'approccio terapeutico varia significativamente tra i due tipi di epatite e richiede un'attenta valutazione clinica.

Nel caso dell'epatite C, la diagnosi viene generalmente confermata tramite il test per l'RNA del virus dell'epatite C (HCV-RNA), e il trattamento è basato su farmaci antivirali diretti (DAA) che mirano a sopprimere il virus. Se il trattamento è efficace, il paziente può raggiungere la guarigione, che si manifesta con un risultato negativo per l'HCV-RNA tramite PCR, come nel caso di una paziente trattata con una combinazione di GLE/PIB. Tuttavia, le complicazioni possono sorgere quando il paziente è in trattamento con farmaci che interferiscono con l'efficacia dei farmaci antivirali, come nel caso della somministrazione di contraccettivi orali o statine, che sono controindicati in alcuni regimi terapeutici.

D'altra parte, nell'epatite B la terapia antivirale è meno frequentemente necessaria, soprattutto durante la fase acuta dell'infezione. In molti casi, l'epatite B acuta è una malattia autolimitante che si risolve spontaneamente in oltre il 95% degli adulti. Tuttavia, il trattamento è indicato per i pazienti con epatite B cronica, ossia quelli che risultano positivi per l'antigene di superficie del virus (HBsAg) da più di sei mesi, o per coloro che sviluppano complicazioni come l'insufficienza epatica acuta o danni epatici gravi prolungati.

Per l'epatite B cronica, la terapia antivirale viene presa in considerazione solo per quei pazienti che presentano una viremia rilevabile e segni di necrosi epatica in corso, come l'enzima epatico ALT elevato o una biopsia epatica che mostra infiammazione attiva o fibrosi. La gestione di questi pazienti implica anche una stretta sorveglianza per rilevare eventuali cambiamenti nella progressione della malattia, come la transizione verso una fase che richieda trattamento antivirale. In assenza di segni di danno epatico, il trattamento non è indicato, e i pazienti dovrebbero essere monitorati regolarmente per valutarne l'evoluzione.

Un aspetto fondamentale nella gestione dell'epatite B è l'uso dei test di carico virale (HBV DNA) tramite la reazione a catena della polimerasi (PCR). A differenza dell'epatite C, dove l'obiettivo è l'eradicazione totale del virus, nell'epatite B l'infezione raramente viene completamente eliminata, ma può essere controllata con i farmaci. La terapia è indicata principalmente quando il carico virale è elevato e ci sono segni di danno epatico continuo. Tuttavia, in alcune situazioni, come nei pazienti giovani con infezione HBeAg-positiva, caratterizzata da livelli elevati di HBV DNA ma con normale ALT e biopsia epatica senza segni di infiammazione o fibrosi, non si inizia il trattamento antivirale, nonostante l'elevato carico virale.

Infine, la biopsia epatica non è sempre necessaria per avviare il trattamento dell'epatite B, ma può essere uno strumento utile per valutare la gravità della malattia e la presenza di fibrosi o infiammazione attiva. In molti casi, il trattamento antivirale dovrebbe iniziare indipendentemente dai livelli di ALT se il paziente ha cirrosi compensata con qualsiasi livello rilevabile di HBV DNA, o nel caso di cirrosi decompensata, indipendentemente dai livelli di HBV DNA o ALT.

È importante ricordare che la decisione di iniziare un trattamento antivirale non dipende solo dai risultati dei test di laboratorio, ma anche da una valutazione clinica completa del danno epatico e della fase della malattia. La gestione delle infezioni da epatite richiede un approccio personalizzato che tenga conto delle caratteristiche individuali del paziente, delle comorbidità e delle possibili interazioni farmacologiche.

Quali manifestazioni reumatologiche possono essere associate alle epatiti virali?

Le epatiti virali, oltre alle ben note implicazioni epatiche, presentano una sorprendente varietà di manifestazioni extraepatiche, tra cui quelle reumatologiche occupano un posto di rilievo. In particolare, si osserva che fino al 25% dei pazienti affetti da epatite B e addirittura il 50% di quelli con epatite C sviluppano sindromi reumatologiche, talvolta di difficile distinzione da patologie autoimmuni primitive. Anche l’infezione da epatite A, seppur transitoria, può determinare artralgie in circa il 10% dei pazienti durante la fase acuta.

Nel contesto dell’epatite B acuta, durante il periodo prodromico pre-itterico, fino a un quarto dei pazienti può sviluppare una poliartrite acuta, simmetrica e dolorosa, con interessamento sia delle articolazioni piccole che grandi, spesso accompagnata da un’eruzione cutanea orticarioide nel 40% dei casi. Questa sindrome artrite-dermatite, causata dalla deposizione di immunocomplessi HBsAg-AntiHBs, può precedere di giorni la comparsa dell’ittero o dell’aumento delle transaminasi, e tende a risolversi con l’insorgenza della fase itterica. L’uso di farmaci antinfiammatori non steroidei si rivela generalmente efficace. In alcuni soggetti con cronicizzazione dell’infezione, possono verificarsi recidive artralgiche.

La poliarterite nodosa (PAN), una vasculite necrotizzante dei vasi di medio calibro, rappresenta un’importante complicanza dell’infezione da virus B. Il 10% dei pazienti con PAN presenta segni sierologici di replicazione virale attiva (presenza di HBeAg e DNA virale). Il quadro clinico include febbre, artrite, mononeurite multipla, dolore addominale, nefropatia e coinvolgimento cardiaco, con enzimi epatici lievemente alterati ma senza epatite sintomatica. Il gold standard diagnostico rimane la biopsia tissutale con evidenza di vasculite, anche se l’angiografia può rivelare aneurismi e tortuosità vascolari tipici ("perle su un filo"). Il trattamento richiede un approccio aggressivo e precoce: antivirali, plasmaferesi per rimuovere gli immunocomplessi, corticosteroidi ad alte dosi, con successivo rapido tapering per evitare stimolazione della replicazione virale. L’uso di ciclofosfamide è controindicato. L’età avanzata e il coinvolgimento multiorgano peggiorano la prognosi, con una sopravvivenza a 5 anni compresa tra il 50% e il 70%.

Il virus dell’epatite C è ancora più strettamente associato a disordini autoimmuni. Circa il 40–60% dei pazienti HCV-positivi presenta crioglobuline circolanti, anche se solo il 10% sviluppa una vera vasculite da crioglobulinemia mista. Tale vasculite è favorita dall’interazione del virus con i linfociti B attraverso CD81, inducendo una produzione abnorme di autoanticorpi, inibizione dell’apoptosi (mediante la sovraespressione di bcl-2) e una proliferazione clonale che può evolvere in linfoma B non-Hodgkin. La sintomatologia comprende febbre, artrite simile alla forma reumatoide, neuropatia periferica con parestesie, porpora petecchiale degli arti inferiori, positività per il fattore reumatoide e ipocomplementemia (soprattutto riduzione di C4). Nonostante la positività del fattore reumatoide, mancano gli anticorpi anti-CCP. In tali pazienti, l’epatite è spesso clinicamente silente.

Le forme lievi rispondono alla terapia antivirale combinata (peginterferone alfa-2b, ribavirina, inibitori delle proteasi) associata a corticosteroidi e plasmaferesi; i casi refrattari o gravi richiedono l’impiego di rituximab per la deplezione selettiva dei linfociti B produttori di crioglobuline.

Le manifestazioni autoimmuni associate all’HCV comp