La figura di Thomas Jefferson, uno degli autori fondamentali della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, è celebrata da secoli come simbolo di democrazia e di libertà. Tuttavia, la sua vita e le sue azioni mettono in luce una realtà complessa che sfida l'idea di un eroe immacolato e ci costringe a confrontarci con le contraddizioni del passato. Nonostante la sua lotta per i diritti e le libertà individuali, Jefferson possedeva schiavi e praticava una politica violenta e colonizzatrice nei confronti delle popolazioni native americane. La sua figura, dunque, non può essere ridotta a un semplice simbolo di progresso. La sua eredità, intrisa di crimini contro l'umanità come la schiavitù e le sue politiche assimilazioniste, non può essere ignorata.

Le atrocità della schiavitù non riguardano soltanto la sua esistenza come istituzione, ma anche la brutalità con cui veniva esercitata. Jefferson, come molti altri dei padri fondatori, ha scelto di possedere esseri umani, legando il proprio potere alla sofferenza di coloro che aveva ridotto in schiavitù. Le sue azioni verso gli schiavi non possono essere considerate separate dalla sua retorica sulla libertà e l'uguaglianza, creando un dissonante contrasto tra ciò che predicava e ciò che praticava.

La questione della responsabilità personale e storica dei leader è fondamentale per comprendere il significato delle loro azioni. È facile lasciare che il potere, le realizzazioni o le parole di una figura pubblica oscurino gli aspetti più oscuri della sua biografia, ma non possiamo permettere che la grandezza sia una giustificazione per l'assenza di accountability. Le atrocità commesse da figure come Jefferson non possono essere facilmente cancellate o minimizzate. È essenziale che il processo di valutazione storica tenga conto di questi fattori, poiché solo una riflessione lucida e informata ci permette di discernere chi davvero merita di essere celebrato come esempio di leadership.

Non si tratta di ignorare le realizzazioni dei leader, ma di analizzarle in un contesto completo, riconoscendo anche le contraddizioni che li definiscono. Solo un approccio critico e revisionista della storia ci consente di correggere la nostra comprensione e di fare scelte più consapevoli in merito a chi vogliamo celebrare e come lo facciamo. Il revisionismo storico non è una negazione del passato, ma una sua reinterpretazione che cerca di chiarire le sfumature e le complessità. Quando si parla di grandi figure storiche, come Robert E. Lee o Jefferson, è essenziale non cadere nella trappola di una visione monolitica che dipinge il passato in toni unici di bene e male. Le storie di queste figure sono piene di ambiguità, e solo un'analisi che abbraccia queste ambiguità può permetterci di comprendere appieno l'impatto delle loro azioni.

Il perdono storico e la revisione dei giudizi passati hanno avuto conseguenze concrete nella politica degli Stati Uniti. Le azioni di Presidenti come Gerald Ford e Jimmy Carter, che hanno riabilitato figure come Robert E. Lee e Jefferson Davis, rispecchiano una visione della storia che cerca di cancellare la memoria delle atrocità commesse durante la guerra civile americana. Questi atti, seppur motivati da un desiderio di unità e riconciliazione, sollevano interrogativi sulla giustizia e sulla responsabilità storica. La riabilitazione di figure che hanno partecipato attivamente alla difesa della schiavitù e della segregazione non può essere vista come una mera correzione di un errore, ma come un tentativo di riscrivere la storia per legittimare il presente.

Il caso di Nixon e la sua condotta durante le elezioni del 1968 mostra come la politica del "candidato più forte" possa sfociare in atti di corruzione e tradimento. Le sue azioni per sabotare i colloqui di pace con il Vietnam sono un esempio lampante di come l'opportunismo politico possa mettere a rischio vite umane in nome della vittoria elettorale. La sua amministrazione, segnata da crimini gravi come l'imbroglio elettorale e il Watergate, ha sollevato domande sulla responsabilità politica e sulla cultura del perdono che continua a permeare la politica americana. Il perdono concesso a Nixon, e successivamente a molti altri, come parte di un processo di "guarigione" nazionale, ha però avuto conseguenze durature, minando la fiducia nelle istituzioni e nel rispetto della legge.

La mancanza di responsabilità e di un'adeguata punizione per crimini commessi da leader politici contribuisce a una cultura di impunità che, purtroppo, continua a ripetersi nel corso della storia. Solo quando la società è pronta a confrontarsi con la verità e a riconoscere i propri errori storici, è possibile costruire una visione più giusta e coerente del passato, che non nasconda le ingiustizie commesse.

La storia non deve essere un campo di battaglia per le interpretazioni ideologiche, ma uno strumento per comprendere appieno le scelte fatte e le loro conseguenze. Se vogliamo davvero onorare il sacrificio delle generazioni precedenti, dobbiamo essere disposti a riconoscere anche le sue ombre e le sue contraddizioni. La grandezza di un leader non risiede nell'essere esente da difetti, ma nell'affrontare la propria eredità con onestà, senza cercare di nascondere o minimizzare i crimini che hanno segnato il corso della storia.

Perché l'amministrazione Trump ha indebolito la giustizia e la diplomazia: le responsabilità dei suoi principali protagonisti

Donald Trump ha esercitato una pressione costante sulla sua amministrazione, cercando di ostacolare, se non di annullare, le indagini in corso che lo coinvolgevano. Una delle sue prime mosse in questa direzione è stata quella di tormentare il procuratore generale Jeff Sessions, accusandolo di non perseguire le sue politiche con la dovuta determinazione. Le sue critiche pubbliche, spesso espresse tramite i social media, portarono alle dimissioni di Sessions nel novembre del 2018, in seguito a un fallito tentativo di rientrare nel Senato.

Dopo una serie di tentativi infruttuosi, Trump finalmente trovò un alleato che avrebbe rispecchiato completamente la sua visione: William Barr, che assunse la carica di Procuratore Generale. Fin dal suo insediamento, Barr mostrò chiaramente la sua fedeltà a Trump, inviando un memo non richiesto al vice procuratore generale Rod Rosenstein, in cui esponeva la sua interpretazione dell'ostruzione della giustizia in relazione all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller. Questo documento sembrava più un provino che una riflessione legale, tanto che Barr ottenne il ruolo desiderato.

Una volta in carica, Barr non fece alcun tentativo di celare la sua parzialità. Tra le sue azioni più controverse si annoverano la soppressione delle denunce dei whistleblower, il tentativo di perseguitare i nemici politici di Trump, e la difesa dello stesso presidente nel caso di diffamazione intentato da E. Jean Carroll. Barr cercò anche di minare l'indagine del Mueller sui presunti legami tra la campagna di Trump e il governo russo, emettendo dichiarazioni ingannevoli riguardo alle conclusioni dell'inchiesta, prima ancora che il rapporto redatto da Mueller fosse reso pubblico. L'azione di Barr suscitò una durissima reazione da parte dello stesso Mueller, ma ormai il danno era fatto.

Barr e Sessions sono anche ricordati per il loro ruolo nel ridimensionamento della Divisione dei Diritti Civili del Dipartimento di Giustizia. Mentre la Divisione aveva tradizionalmente giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro il razzismo, la segregazione e altre forme di discriminazione, sotto la loro guida l'attenzione si spostò altrove. L'amministrazione Trump non solo disinteressò alla protezione dei diritti civili, ma con l'azione di Barr si tentò di ridurre l'efficacia delle indagini sui crimini d'odio e sulla soppressione del voto, ignorando le crescenti minacce del terrorismo interno di matrice suprematista bianca.

L'indagine sull'omicidio di George Floyd e le proteste che seguirono furono trattate con un approccio simile. Mentre Barr prometteva di indagare su possibili violazioni dei diritti civili in relazione all'omicidio di Floyd, le sue azioni indicarono chiaramente che la priorità era piuttosto quella di reprimere le proteste stesse, in particolare quelle che non condividevano le sue vedute. L'uso della forza contro i manifestanti di Black Lives Matter, l'uso di spray al peperoncino e proiettili di gomma, e l'impiego di forze di polizia non identificate in città come Portland, furono azioni che segnarono negativamente il suo operato.

Le implicazioni di questi eventi non si limitano ai singoli atti di abuso o ostacolo alla giustizia. Questi episodi rappresentano, infatti, una visione distorta della giustizia e della legge. L'amministrazione Trump ha promosso una cultura di disprezzo per le istituzioni democratiche, dove le decisioni erano spesso motivate da interessi politici piuttosto che da un impegno per la verità e la giustizia. Le parole di Donald Ayer, ex vice procuratore generale sotto la presidenza di George H.W. Bush, risuonano con forza: Barr ha rappresentato la più grande minaccia alla legge e alla fiducia pubblica in essa che Ayer abbia visto nella sua vita.

Ma le problematiche legate alla giustizia non si fermano qui. La gestione della diplomazia sotto Trump è stata altrettanto controversa, con figure come Rex Tillerson e Mike Pompeo che hanno ricoperto ruoli chiave al dipartimento di Stato. Tillerson, ex CEO di ExxonMobil, non riuscì mai a stabilire un'alleanza stabile con il presidente e si distinse per un fallimento totale nel suo ruolo, con la massiccia perdita di diplomati di carriera e il crollo del morale all'interno del Dipartimento di Stato. Pompeo, al contrario, non fece nulla per nascondere la sua fedeltà totale a Trump, applicando un approccio aggressivo e belligerante nei confronti sia degli alleati che degli avversari. Questo approccio portò a un esito disastroso nelle relazioni internazionali, con l'Iran che si avvicinava sempre di più a ottenere un'arma nucleare e la Corea del Nord che accumulava ulteriori armi nucleari, nonostante le promesse di un "grande amore" con il leader Kim Jong-Un.

La gestione della diplomazia e della giustizia da parte dell'amministrazione Trump ha quindi avuto un impatto devastante, non solo sul piano nazionale ma anche internazionale. La debolezza delle istituzioni legali e diplomatiche, il disprezzo per i diritti civili e l'approccio conflittuale nei confronti degli alleati hanno contribuito a minare la fiducia nelle istituzioni fondamentali degli Stati Uniti. Questi temi, legati a decisioni politiche e personali, offrono una visione di un'amministrazione che ha messo in discussione i principi di giustizia, diplomazia e rispetto delle leggi.

Il Ruolo dell'Identità Razziale nella Costruzione della Società Americana

Nel corso della storia coloniale americana, il concetto di "razza" è stato un potente strumento di controllo sociale. Le popolazioni indigene e gli africani ridotti in schiavitù erano etichettati come appartenenti a categorie razziali definite in modo impreciso e monolitico, come "Indiani" e "Neri", senza tener conto delle enormi diversità culturali e tribali che esistevano tra di loro. Questo processo di "razializzazione" era essenziale per raggiungere due obiettivi principali: liberare la terra dalle popolazioni indigene e mantenere una numerosa popolazione di schiavi africani per soddisfare le esigenze economiche della nuova società. Per compiere questo, un altro elemento cruciale fu l'unità tra i bianchi, che divennero sempre più coesi nella lotta per consolidare il proprio dominio sociale ed economico.

Inizialmente, i proprietari terrieri bianchi si trovarono di fronte a una minaccia di alleanza tra i bianchi poveri, i servi a contratto e gli schiavi neri. I poveri bianchi avevano più da guadagnare alleandosi con gli schiavi, dato che la loro condizione economica non era dissimile da quella degli africani ridotti in schiavitù. Per evitare che questa alleanza mettesse in pericolo il sistema di disuguaglianza razziale e la loro ricchezza, i proprietari terrieri bianchi utilizzarono vari stratagemmi per guadagnare la lealtà della classe lavoratrice bianca, come l'offerta di terreni gratuiti o la riduzione delle imposte sui voti. Questo allettamento fu fondamentale per creare una solida identità razziale bianca, che sarebbe stata rafforzata nel corso dei secoli.

Una volta consolidato il potere dei bianchi, l'identità razziale bianca continuò a permeare la società americana, sancendo la divisione tra bianchi e neri. La Naturalization Act del 1790, ad esempio, restringeva l'accesso alla cittadinanza americana ai "liberi bianchi", rafforzando ulteriormente questa divisione. La legge sull'immigrazione e la nazionalità del 1965, che eliminava la razza come criterio di ammissione, non fu che una delle tappe di una lunga evoluzione. Eppure, anche se nel ventesimo secolo le definizioni di "bianco" divennero più fluide, l'essere nero continuò a rappresentare un ostacolo all'integrazione nella società bianca e a limitare l'accesso degli afroamericani alle opportunità economiche.

Nel corso del Novecento, eventi come la Grande Depressione, che portarono all'approvazione delle leggi sui sindacati, non comportarono l'inclusione di emendamenti anti-discriminatori. Le organizzazioni sindacali come l'AFL e il CIO si opposero fermamente a qualsiasi proposta che avrebbe potuto portare all'integrazione degli afroamericani nel mondo del lavoro. Inoltre, il famoso G.I. Bill, che offriva prestiti a basso interesse e opportunità educative per i veterani di guerra, esclusi gli afroamericani, contribuì ad aumentare la disparità di ricchezza tra bianchi e neri, consolidando ulteriormente il divario sociale ed economico tra le due razze.

La creazione di una società bianca dominante non si limitava solo agli aspetti economici, ma si estendeva anche alla cultura e alla politica. La profonda influenza del protestantesimo, che si intrecciò indissolubilmente con il concetto di supremazia bianca, diede vita a una visione messianica dell'America come "terra promessa". Questo concetto si rifletteva nelle guerre mondiali e nella Guerra Fredda, dove la lotta tra il bene e il male si traduceva nel conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con gli Stati Uniti rappresentanti la forza del "bene" sotto la protezione divina.

Nel contesto di questa visione religiosa, le teorie scientifiche sul razzismo acquisirono una legittimità particolare. Il determinismo biologico, che sosteneva che le differenze razziali fossero ereditarie, fu utilizzato per giustificare il razzismo e la disuguaglianza sociale. Tra queste teorie, il darwinismo sociale, che applicava i principi dell'evoluzione alla giustificazione delle gerarchie razziali e sociali, divenne particolarmente popolare. In questo quadro, le disuguaglianze economiche e sociali venivano viste come una prova che le persone meno fortunate meritarono la loro condizione, mentre i ricchi e potenti venivano considerati intrinsecamente superiori.

Con il passare del tempo, questi principi si radicarono ancora di più nelle istituzioni americane, incluso il sistema educativo. L'introduzione dei test di QI negli Stati Uniti nel ventesimo secolo, benché inizialmente creati per scopi educativi, divennero strumenti di legittimazione della supremazia bianca. Gli esperimenti pseudoscientifici, come la craniometria, furono utilizzati per misurare la superiorità dei bianchi rispetto agli altri gruppi etnici. Un caso emblematico fu quello di Carl Brigham, sviluppatore del SAT, che considerava razzialmente inferiore il popolo afroamericano, così come gli italiani e gli ebrei, sostenendo che fossero "geneticamente ineducabili". Tali teorie, che non solo erano prive di base scientifica ma erano anche altamente discriminatorie, continuarono a influenzare il sistema educativo e la struttura sociale per decenni.

Per molto tempo, queste nozioni di razza e supremazia hanno modellato le istituzioni politiche, economiche e sociali americane, rafforzando un sistema che ha escluso intere popolazioni dalle opportunità di progresso e prosperità. La lotta per abbattere queste barriere razziali è stata lunga e ardua, e, nonostante i progressi, le cicatrici di un passato fondato sulla segregazione e sull'integrazione esclusiva sono ancora visibili.

La continua disuguaglianza in America: una riflessione sulla razza, la politica e il cambiamento necessario

Il pendolo della politica americana ha oscillato costantemente verso destra piuttosto che verso sinistra. Solitamente, quando un presidente democratico arriva al potere dopo un’amministrazione repubblicana disastrosa, che ha ulteriormente eroso i diritti della popolazione e distrutto l'economia, ciò che otteniamo è un ritorno al centro, ma mai una vera e propria trasformazione radicale. Oggi, ancora una volta, ci troviamo in un momento in cui chiedere pari diritti per tutti i cittadini è visto come una posizione liberale. Se questa è la situazione, allora spero che il pendolo resti permanentemente bloccato su questa posizione.

Ciò che serve è un cambiamento fondamentale. Non una semplice ristrutturazione, ma una rielaborazione completa del potenziale americano. Negli ultimi diciotto mesi abbiamo vissuto esperienze che avrebbero dovuto offrirci almeno un insight quotidiano e concreto sull'importanza di restare connessi. Allo stesso tempo, abbiamo vissuto ciò che milioni di americani sperimentano quotidianamente: la paura – paura di un governo che tradisce, paura dei vicini che non si preoccupano di te, paura di vivere nel mondo. La pandemia ha svelato l’impatto di decenni di disuguaglianza e razzismo, mostrando il peso enorme che queste disparità hanno avuto sulle comunità di colore. La risposta del governo al COVID ha rivelato qualcosa di ancora più oscuro: era disposto a sfruttare tali disuguaglianze per guadagnare punti politici con la base repubblicana.

La schiavitù non è stata colpa nostra, diciamo. Ma, consapevolmente o meno, tutti noi ne abbiamo tratto vantaggio in mille modi, grandi e largamente invisibili. Il peccato originale non è colpa nostra, ma resta il nostro fardello. Gli americani bianchi devono interrogarsi sulle loro ipotesi riguardo alla razza, ma anche esaminare i propri fallimenti nell'eradicare la supremazia bianca. Più tempo passa senza riconoscere questo fatto, più diventa nostra responsabilità. Dopo la Guerra Civile, una delle principali preoccupazioni era che i neri liberati diventassero dipendenti dall'assistenza del governo. Quando durante la Ricostruzione i neri dimostrarono di poter prosperare senza di essa, ogni tipo di ostacolo immaginabile – dalla negazione di prestiti, crediti e opportunità lavorative, fino a minacce di violenza e terrorismo – fu messo tra loro e la prosperità. Eppure la conclusione tirata da molti politici e giornali del Nord fu che dopo dodici anni l’esperimento aveva fallito e che i neri avevano dimostrato di non essere degni della libertà.

Questo paese è stato costruito su terre rubate ai legittimi proprietari, le popolazioni native. È stato costruito sulle spalle e con il sangue di milioni di uomini e donne nere da cui sono stati sottratti prosperità, salute e opportunità. Eppure, come un paziente con disturbo post-traumatico che non può – o non vuole – affrontare la verità del trauma originale che continua a debilitare la sua vita, questo paese ha fallito nel confrontarsi con il dolore della sua storia. Siamo, come nazione, perpetuamente divisi e arrabbiati, ridotti a un’ombra di ciò che avremmo potuto essere, di ciò che potremmo ancora essere, perché la maggior parte di noi non riesce ad affrontare la verità sull'origine del nostro privilegio e sull'eredità della crudeltà che continua a giovare a noi – o perché non ci è mai chiesto di farlo.

I lavoratori bianchi sono anche vittime del sistema. Sono stati ingannati a votare contro i propri interessi da una classe dirigente che li ha convinti che l'alleganza alla propria bianchezza valesse più di programmi sociali che li avrebbero elevati. La superiorità sui neri, così come veniva insegnato ai lavoratori bianchi nelle colonie, è stata considerata più importante del guadagno finanziario. Unirsi ai ricchi e potenti sarebbe stato simbolicamente più vantaggioso, se non materialmente, che unirsi alla classe operaia nera. Ovviamente nulla di tutto ciò è vero, ma è una narrazione affascinante, molto più facile che affrontare la verità di essere stati usati e ingannati. Se sei bianco in America e senti di essere stato abbandonato e escluso dalla prosperità offerta ad altri, non è per colpa dei neri e degli immigrati. È perché i politici che continui a votare alimentano il tuo bigottismo e il tuo senso di ingiustizia mentre sfruttano la tua ignoranza per mantenerti esattamente dove sei: impotente, arrabbiato e pauroso.

Come dimostrato dai quattro anni dell’amministrazione Trump e dai primi cento giorni dell’amministrazione Biden, la leadership conta. Anche quando le cose vanno bene, però, ci saranno degli errori. Alla fine di aprile 2021, due politici repubblicani si sono espressi sulla razza in America. Tate Reeves, il governatore del Mississippi, ha affermato che non esiste razzismo sistemico nel suo stato. Poco prima aveva dichiarato aprile mese dell'eredita confederata, come i governatori di quello stato fanno da decenni. Il Mississippi, tuttavia, potrebbe avere avuto un governatore democratico e forse anche un senatore democratico se non fosse stato per il rifiuto dello stato di ripristinare i diritti di voto per gli ex detenuti e i suoi problemi radicati con la soppressione del voto. In fondo, il Mississippi ha eletto i primi due senatori neri negli Stati Uniti già alla fine del XIX secolo. Il potere è lì, ma è stato sistematicamente ostacolato per due secoli. Poi, Tim Scott, un senatore repubblicano della Carolina del Sud – e l'unico senatore repubblicano di colore – ha affermato nella sua risposta al primo discorso del presidente Joe Biden al Congresso che l’America non è un paese razzista. In risposta a Scott, la vicepresidente Kamala Harris ha anche affermato che l’America non è un paese razzista, aggiungendo che dobbiamo "dire la verità" sulla sua storia con il razzismo. Lo stesso punto è stato fatto dal presidente Biden.

Se possiamo riconoscere che esiste il razzismo sistemico, con quale logica possiamo affermare che il paese governato da quel sistema è in qualche modo privo di razzismo? E se l'America non è un paese razzista, che cosa significa davvero quella parola? I nostri leader non dovrebbero evitare di affrontare questa questione; al contrario, dovrebbero impegnarsi in un dialogo aperto su questo tema per permettere al paese di fare davvero i conti con il proprio passato. Non farlo equivale a permettere che le ingiustizie continuino a perpetuarsi, e questo è esattamente ciò che accade quando ci si aggrappa all'idea che l'America non sia un paese razzista.

Qual è stato il vero impatto della ricostruzione sugli afroamericani nel Sud degli Stati Uniti?

La fine della Guerra Civile segnò la fine della schiavitù, ma anche l'inizio di un lungo e tortuoso processo di ricostruzione per le popolazioni afroamericane del Sud. Robert E. Lee, comandante dell'esercito confederato, si arrese all'esercito dell'Unione, ma questa capitolazione non risolse automaticamente la questione del futuro dei neri liberati. La Ricostruzione iniziò sotto il segno di una profonda incertezza, poiché i Repubblicani radicali, favorevoli all'abolizione della schiavitù e al suffragio universale, si trovavano in conflitto con il presidente Andrew Johnson, un ex schiavista le cui simpatie erano chiaramente rivolte verso il Sud sconfitto. Questo scenario complesso gettò ombre sulla possibilità che la Ricostruzione potesse davvero realizzare il sogno di un'uguaglianza duratura per gli afroamericani.

Nonostante le difficoltà estreme, tra miseria, dislocazioni e ostilità, i neri del Sud intrapresero l'arduo compito di costruire nuove comunità e fare progressi in tre ambiti fondamentali: educazione, religione e politica. Al termine della guerra, circa l'80% della popolazione nera era analfabeta, un dato tragico che rispecchiava la politica delle piantagioni, dove l'alfabetizzazione era considerata una minaccia all'egemonia dei bianchi. L'insegnamento della lettura e della scrittura agli schiavi era severamente proibito, e chi tentava di imparare veniva punito con violenze o umiliazioni. Come affermò John W. Fields, ex schiavo, "La nostra ignoranza era il più grande potere che il Sud aveva su di noi".

Nel contesto di questa condizione, l'educazione divenne una delle priorità per i neri liberati. La missione della Buona Scuola divenne cruciale, anche se il Congresso non sostenne adeguatamente l'Ufficio dei Rifugiati, Esclusi e Liberati, il cui compito era garantire l'accesso all'istruzione. La scarsità di fondi e il rifiuto di un sistema scolastico pubblico in molte regioni del Sud rendevano la situazione ancor più complessa. Prima della guerra, le scuole pubbliche non esistevano praticamente nel Sud, e i bambini bianchi ricchi avevano accesso a istituzioni private, mentre la maggior parte degli altri bambini doveva arrangiarsi. Nonostante tutto, la spinta dei neri liberati per un'educazione statale e pubblica portò risultati significativi, con più di seicentomila bambini n