L’analisi del ciclo della pompa di calore di Carnot consente di comprendere a fondo i limiti e le potenzialità teoriche dell’utilizzo dell’energia termica per riscaldare un ambiente. In un ciclo completo, la pompa di calore trasferisce una quantità di calore qLq_L dal serbatoio freddo al sistema durante il tratto isoterma DA, mentre una quantità qHq_H di calore viene rilasciata dal sistema al serbatoio caldo nel tratto BC. Il bilancio energetico fondamentale si basa sulla trasformazione reversibile e adiabatica dei tratti AB e CD, che collega le pressioni e le temperature nei vari stati del ciclo. La relazione fra le pressioni nei punti A, B, C e D consente di esprimere qHq_H in funzione di qLq_L, risultando in una proporzione diretta fra il calore trasferito e il rapporto delle temperature assolute: qH=THTLqLq_H = -\frac{T_H}{T_L} q_L.

Il lavoro necessario per completare un ciclo si ricava sommando i contributi delle varie fasi. Le trasformazioni adiabatiche, essendo reversibili, non apportano lavoro netto al sistema; rimangono dunque le trasformazioni isoterme. Il lavoro per ciclo è quindi:

w=Rspecific(THTL)ln(pCpB)w = R_{\text{specific}} (T_H - T_L) \ln \left( \frac{p_C}{p_B} \right)

Dato che pC>pBp_C > p_B, il lavoro risulta positivo: è necessario fornire energia per far funzionare la pompa di calore. Questa considerazione porta a un risultato essenziale: una pompa di calore può effettivamente trasferire calore da una sorgente fredda a una calda, ma ciò richiede energia meccanica esterna.

In un esempio applicativo, si consideri una casa riscaldata da una pompa di calore Carnot che mantiene una temperatura interna di 20 °C mentre la temperatura esterna è −5 °C. Utilizzando 0.002 kg d’aria come fluido di lavoro e una differenza di pressione tra le fasi del ciclo, si ottiene che per ogni ciclo servono circa 5.46 J di lavoro, mentre il calore ceduto all’ambiente interno è di 64.1 J. La pompa di calore assorbe quindi 58.6 J dall’ambiente esterno, rispettando il principio di conservazione dell’energia.

Moltiplicando questi valori specifici per la massa del fluido di lavoro, otteniamo i valori reali di energia per singolo ciclo: un lavoro fornito di 5.46 J, calore utile QH=64.1Q_H = 64.1 J e calore assorbito QL=58.6Q_L = 58.6 J. Il rendimento in termini di energia è notevole: con un investimento energetico minimo, si ottiene una quantità di calore utile molto maggiore.

Per comprendere l’efficacia complessiva della pompa di calore, si introduce il concetto di coefficiente di prestazione (COP), definito come il rapporto tra l’energia utile prodotta e il lavoro necessario:

COPHP=QHW\text{COP}_{\text{HP}} = \frac{|Q_H|}{W}

Nel caso esaminato, si ottiene COP=64.15.4611.7\text{COP} = \frac{64.1}{5.46} \approx 11.7. Questo significa che per ogni joule di energia impiegata nel funzionamento, la pompa di calore fornisce 11.7 joule di calore all’ambiente interno.

Questo valore può essere calcolato anche in modo puramente teorico, senza alcuna conoscenza del fluido di lavoro o delle condizioni operative specifiche, utilizzando la formula:

COPHP(Carnot)=11TLTH\text{COP}_{\text{HP}}(\text{Carnot}) = \frac{1}{1 - \frac{T_L}{T_H}}

Applicandola alle temperature in Kelvin (268 K e 293 K), si ottiene nuovamente COP=11.7\text{COP} = 11.7. È importante sottolineare la generalità di questo risultato: dipende unicamente dal rapporto tra le temperature dei due serbatoi e non dai dettagli microscopici del processo. Questa caratteristica riflette una regolarità profonda della termodinamica dei cicli reversibili.

Tuttavia, sorgono limiti pratici significativi. In un esempio realistico, per riscaldare una casa unifamiliare di 170 m² con una perdita stimata di 250 W per ogni grado di differenza tra interno ed esterno, la pompa di calore dovrebbe operare a circa 6000 cicli al minuto per compensare le perdite totali di calore (pari a 375 kJ al minuto). Meccanicamente possibile, ma termodinamicamente inefficiente: le trasformazioni isoterme richiedono tempi lunghi per avvenire correttamente, incompatibili con un funzionamento così rapido.

Il ciclo Carnot, dunque, rimane uno strumento teorico per comprendere i limiti massimi di efficienza raggiungibili da una pompa di calore. I risultati ottenuti non dipendono dal tipo di gas, dalle pressioni, né dalla massa del fluido: l’unico parametro determinante è il rapporto tra le temperature assolute. Questa universalità anticipa concetti fondamentali della seconda legge della termodinamica.

Tuttavia, nel mondo reale, le pompe di calore impiegano cicli termodinamici diversi (come Rankine, Lorenz o cicli a compressione di vapore) e fluidi di lavoro con proprietà ottimizzate per condizi

La Seconda Legge della Termodinamica: Paradossi e Fluttuazioni

La seconda legge della termodinamica stabilisce che l'entropia di un sistema isolato tende ad aumentare nel tempo. Questo principio, che descrive l'irreversibilità dei processi naturali, può sembrare in apparenza implacabile. Tuttavia, nel corso della storia della fisica, sono emersi esperimenti mentali e riflessioni che hanno messo in discussione la sua applicazione universale. È il caso di alcune idee che si sono rivelate cruciali per una comprensione più approfondita di come funzionano davvero i processi termodinamici.

Un esempio di questo è il "paradosso di Loschmidt", che parte dal presupposto che la meccanica newtoniana sia simmetrica nel tempo. Se per ogni soluzione delle equazioni di moto di N molecole di gas esiste una soluzione "specchiata nel tempo", nella quale la velocità di ogni molecola viene invertita, il processo intero dovrebbe essere in grado di percorrere la stessa evoluzione, ma all'indietro. La simmetria temporale suggerisce quindi che, in teoria, se fosse possibile invertire istantaneamente tutte le velocità molecolari, il sistema dovrebbe tornare a uno stato di entropia inferiore, diminuendo l'entropia anziché aumentandola, come invece accade nella realtà. Questo paradosso mette in luce una delle contraddizioni più affascinanti: l'irreversibilità osservata nei fenomeni macroscopici potrebbe essere solo un artefatto delle condizioni iniziali e non una legge intrinseca della fisica.

Il cuore della questione risiede, infatti, nelle condizioni iniziali del sistema. Se consideriamo un contenitore di gas, dove inizialmente tutte le molecole si trovano in una sola metà, il sistema è in uno stato di bassa entropia. Sebbene con il tempo queste molecole si distribuiscano uniformemente, l'evoluzione del sistema è estremamente improbabile che torni allo stato iniziale, in cui tutta l'energia è concentrata in un solo lato. L'entropia è dunque una misura della probabilità di accesso a differenti configurazioni di un sistema: più alta è l'entropia, più alta è la probabilità di osservare un determinato stato.

A questo punto, si inserisce il concetto di fluttuazioni. La "ricorrenza di Poincaré" è un esempio di tale fluttuazione: sebbene l'evoluzione di un sistema termodinamico sia generalmente irreversibile, a volte può verificarsi una reversibilità temporanea, ma i tempi in cui ciò accade sono così lunghi da superare la vita dell'universo stesso. In altre parole, le fluttuazioni che potrebbero riportare un sistema al suo stato iniziale sono così rare che non sono praticamente osservabili. Questo aspetto statistico dell'entropia dimostra quanto siano vitali le condizioni iniziali per determinare l'evoluzione di un sistema.

Nel 1871, James Clerk Maxwell propose un esperimento mentale per cercare di invalidare la seconda legge della termodinamica. Immaginò un "demone" capace di selezionare molecole di gas in base alla loro velocità, separando quelle veloci da quelle lente, creando così una differenza di temperatura e violando il principio di aumento dell'entropia. Tuttavia, nel 1951, Brillouin risolse il paradosso di Maxwell sottolineando che il demone stesso avrebbe dovuto illuminare le molecole per poterle osservare, producendo quindi entropia nell'intervento stesso. Questo esempio illustra come l'apparente violazione della seconda legge dipenda da una comprensione incompleta dei processi coinvolti, e da un'approfondita analisi dei costi energetici e delle fluttuazioni.

Il paradosso di Loschmidt, che afferma che se un sistema evolvesse all'indietro nel tempo dovrebbe diminuire l'entropia, ci porta a una riflessione ancora più profonda sulla natura delle leggi fisiche e sull'importanza delle condizioni iniziali. Non è l'equazione del moto che impone una direzione temporale ai processi naturali, ma piuttosto la configurazione iniziale del sistema che, in un universo come il nostro, è tipicamente lontana dall'equilibrio termico.

In natura, questa direzionalità dei processi fisici è evidente. Gli oggetti non ritornano mai spontaneamente al loro stato iniziale, ma tendono a disperdersi verso configurazioni più probabili. La Terra, per esempio, è un sistema molto lontano dall'equilibrio termico, con un continuo flusso di energia dal sole, che mantiene la sua bassa entropia rispetto all'universo circostante. La radiazione termica che la Terra emette nello spazio contribuisce a questa dissipazione di energia, consentendo ai processi naturali di evolversi in modo irreversibile. Questo è il motivo per cui i processi che osserviamo quotidianamente, dalla caduta di un oggetto alla fusione di un ghiaccio, seguono una direzione ben definita: l'aumento dell'entropia è una manifestazione della probabilità statistica.

È interessante notare come la comprensione di questi concetti non si limiti solo alla fisica teorica, ma abbia anche implicazioni pratiche nel campo dell'energia. I processi di produzione energetica, come quelli che utilizzano la potenza solare, sono intrinsecamente legati alla gestione dell'entropia. In questi sistemi, si cerca di concentrare l'energia da una fonte dispersa, come la luce solare, per generare lavoro utile, riducendo così l'entropia. Le tecnologie moderne, come le centrali solari a concentrazione, si fondano proprio sull'idea di raccogliere l'energia solare in modo efficiente, riducendo il disordine e producendo energia utilizzabile.

In conclusione, ciò che è essenziale comprendere è che l'entropia e la direzionalità dei processi naturali non sono concetti assoluti, ma sono intimamente legati alle condizioni iniziali e alle probabilità statistiche. Anche se teoricamente alcuni processi potrebbero evolversi all'indietro, le condizioni pratiche e le fluttuazioni impongono una direzione che, purtroppo per la nostra intuizione, non può essere invertita senza un intervento energetico significativo. L'entropia non è solo una caratteristica dei sistemi fisici, ma anche una misura del nostro modo di interagire con l'ambiente circostante.

Quali sono i fattori che determinano l'efficienza di un ciclo termico come il processo Clausius-Rankine?

Il diagramma T-s (Temperatura-Entropia) fornisce un metodo visivo e intuitivo per analizzare i processi ciclici di motori termici, dove l'area sottesa dalla curva rappresenta il calore trasferito durante il ciclo. In un motore termico ideale, il calore viene aggiunto tra i punti C e D, e rimosso tra A e B. L'area racchiusa dalla curva verde nel diagramma (Figura 12.10) indica la differenza tra il calore fornito e quello rimosso dal sistema. Secondo la prima legge della termodinamica, questa differenza corrisponde al lavoro eseguito nel processo ciclico. La grandezza di quest'area determina la quantità di lavoro che il motore può fare per ciclo. È quindi chiaro che più grande è l'area, maggiore sarà il lavoro svolto dal motore termico, rendendo il diagramma T-s uno strumento utile per visualizzare e misurare le prestazioni di un motore termico.

Tuttavia, questa rappresentazione si applica esclusivamente ai processi reversibili. In presenza di irreversibilità, l'entropia del sistema aumenta a causa della contribuzione di ∆iS, il che rende l'interpretazione del diagramma T-s più complessa. Le irreversibilità nei processi, come la frizione, la resistenza termica e le perdite meccaniche, impediscono il raggiungimento di performance ottimali e riducono l'efficienza del sistema. Quindi, la teoria del diagramma T-s fornisce una visione ottimale, ma non sempre corrisponde alla realtà operativa.

Il processo Clausius-Rankine, applicato nelle centrali a vapore, è un ciclo termico in cui il vapore saturo gioca un ruolo cruciale. Nel diagramma T-s del processo Clausius-Rankine (Figura 12.12), la presenza di vapore saturo alla uscita dello scambiatore di calore (stato D) è un aspetto centrale, ma va sottolineato che questo è un modello concettualmente semplice. In pratica, le centrali a vapore utilizzano cicli più complessi per ottimizzare le performance. Il processo Clausius-Rankine standard non viene infatti utilizzato direttamente nelle centrali reali per la produzione di energia, ma costituisce la base per modelli più sofisticati che tengono conto di variabili come la super-reattività del vapore, la pressurizzazione variabile e la gestione avanzata del calore.

Per analizzare il ciclo termico in un sistema reale, ad esempio in una centrale CSP (Concentrated Solar Power), è fondamentale definire con precisione gli stati del sistema. Nel caso del plant SEGS VI della California, la pressione del liquido di alimentazione alla pompa è di 100 bar, e la temperatura di condensazione si stabilisce a 41,5 °C, corrispondente a una pressione di vapore saturo di 0,08 bar. Questo permette di determinare con precisione gli stati nei vari passaggi del ciclo. In particolare, il processo può essere descritto come segue:

  • Stato B: L'acqua è un liquido saturo a 41,5 °C con una entalpia di 173,9 kJ/kg.

  • Stato C: Dopo che la pompa aumenta la pressione a 100 bar, l'acqua rimane a una temperatura praticamente invariata (circa 41,8 °C) e l'entalpia cambia solo lievemente.

  • Stato D: Alla fine dello scambiatore di calore, l'acqua riscaldata a 100 bar inizia a bollire e diventa vapore saturo a 311 °C, con un'entalpia di 2726 kJ/kg.

  • Stato A: Il vapore nella turbina è espanso in modo isentropico a una pressione inferiore, trasferendo lavoro al generatore. In questa fase, si verifica una miscela di vapore e acqua liquida, con un'entalpia di 1755 kJ/kg.

L'efficienza del ciclo Clausius-Rankine dipende dal bilancio energetico tra il calore fornito, il lavoro eseguito dalla turbina e il lavoro necessario per azionare la pompa di alimentazione. Con la formula del primo principio della termodinamica applicata ai singoli componenti del ciclo, possiamo esprimere l'efficienza complessiva come il rapporto tra l'output desiderato (il lavoro della turbina meno il lavoro della pompa) e l'input richiesto (il calore scambiato nello scambiatore). In pratica, l'efficienza di un sistema Clausius-Rankine è piuttosto bassa, intorno al 38%, una cifra che può sembrare sorprendente rispetto al limite teorico della macchina Carnot, che opera tra le stesse temperature minima e massima.

Nel ciclo Carnot, che rappresenta il massimo teorico di efficienza per una macchina termica, l'efficienza sarebbe del 46% utilizzando le stesse temperature di ingresso (41,5 °C) e uscita (311 °C). La differenza tra l'efficienza del ciclo Clausius-Rankine e quella di Carnot è dovuta a diverse ragioni pratiche. In particolare, il ciclo Clausius-Rankine assume che tutte le fasi del processo siano reversibili, cosa che in un sistema reale non avviene. Le perdite irreversibili legate a fenomeni come la dissipazione termica, la resistenza meccanica e la non perfetta espansione del vapore influenzano negativamente l'efficienza, portando il rendimento a essere ben al di sotto del limite teorico di Carnot.

È essenziale comprendere che, sebbene il processo Clausius-Rankine rappresenti una buona approssimazione di un ciclo termico ideale, la realizzazione pratica di una centrale termica implica la considerazione di una serie di fattori aggiuntivi che influenzano significativamente il rendimento complessivo. La gestione delle irreversibilità, l'ottimizzazione dei componenti e la scelta della tecnologia più adatta sono aspetti che definiscono in modo determinante l'efficienza di una centrale a vapore moderna.

Perché le sedie di metallo sembrano fredde e quelle di legno no?

Quando ci si siede su una sedia di metallo in una stanza a temperatura ambiente, si percepisce immediatamente una sensazione di freddo. Al contrario, una sedia di legno alla stessa temperatura sembra nettamente più calda. Questo fenomeno, pur essendo familiare a chiunque, non deriva da una differenza reale di temperatura tra i materiali, bensì dalla diversa capacità di ciascun materiale di condurre il calore e modificarne localmente la distribuzione nello spazio e nel tempo.

I parametri fisici rilevanti in questo processo sono la conducibilità termica λ, la densità ρ e la capacità termica specifica c. Questi tre fattori determinano la diffusività termica e, in combinazione, l’intensità con cui un materiale può assorbire o cedere calore durante un contatto transitorio, come quello tra una sedia e la pelle umana.

Il ferro ha una conducibilità λ di circa 80 W/mK, una densità ρ di 7900 kg/m³ e una capacità termica specifica c di circa 450 J/kgK. Il legno, al contrario, ha una conducibilità di soli 0,13 W/mK, con una densità di 600 kg/m³ e una capacità termica di 1700 J/kgK. I tessuti umani (pelle e muscoli) si collocano in una zona intermedia, con una conducibilità di 0,46 W/mK, densità di 1030 kg/m³ e capacità termica di 2850 J/kgK.

Quando si entra in contatto con un materiale più freddo del corpo umano (circa 37 °C), il calore fluisce dalla pelle verso il materiale. Questo flusso è tanto più rapido quanto maggiore è la conducibilità del materiale. Per il ferro, il flusso è molto intenso: in pochi secondi, il calore viene trasferito rapidamente agli strati superficiali del metallo, abbassando sensibilmente la temperatura della pelle nella zona di contatto. È proprio questa rapida perdita di calore a generare la sensazione di “freddo”.

La temperatura di contatto può essere stimata usando equazioni di conduzione termica transitoria. Per un corpo umano a 37 °C che si siede su una sedia inizialmente a 15 °C, si ottiene una temperatura di contatto di circa 16,4 °C nel caso del ferro, mentre nel caso del legno la temperatura è molto più alta, circa 31,8 °C. La differenza è significativa e percepibile immediatamente grazie ai recettori termici localizzati negli strati superficiali della pelle, che reagiscono non alla temperatura assoluta del materiale, ma alla velocità con cui la temperatura locale della pelle cambia.

Questo effetto è stato confermato anche graficamente in studi di distribuzione termica, nei quali si osserva come, dopo soli 60 secondi, la temperatura nei tessuti superficiali risulta molto più bassa quando a contatto con il metallo rispetto al legno.

Nei parametri derivati dalla termofisica, il cosiddetto valore b – proporzionale alla radice quadrata del prodotto λρc – rappresenta un indicatore sintetico della capacità di un materiale di assorbire calore. Per il ferro questo valore è circa 16864 W·s½/m²·K, per il legno solo 34, e per i tessuti umani circa 1162. Queste differenze spiegano in modo quantitativo il motivo per cui il metallo sottrae calore in maniera molto più aggressiva rispetto al legno.

Questo comportamento ha implicazioni non solo sensoriali, ma anche ingegneristiche, per esempio nella progettazione di ambienti confortevoli, nella scelta dei materiali per sedute pubbliche o dispositivi medici, e in generale in tutti i casi in cui l’interazione termica tra oggetti e corpo umano è critica. Non è una questione di temperatura statica, ma di dinamica del calore.

Per comprendere fino in fondo questo fenomeno, è essenziale riconoscere che la percezione del calore o del freddo è una funzione temporale e spaziale, dominata dalle leggi della conduzione termica non stazionaria. I recettori cutanei percepiscono il flusso termico come sensazione termica. La velocità del cambiamento di temperatura sulla pelle è ciò che genera l’impressione di caldo o freddo, e non la temperatura assoluta del materiale toccato.

Per questa ragione, anche un materiale isolante come il legno – che trasmette calore lentamente – permette alla temperatura della pelle di stabilizzarsi rapidamente vicino a quella corporea, senza provocare uno shock termico. Al contrario, materiali ad alta diffusività come il metallo continuano a sottrarre calore rapidamente, mantenendo la pelle a una temperatura inferiore, con un effetto sensoriale marcato.

È importante tenere presente che questa dinamica può variare notevolmente in funzione dello spessore del materiale, del tempo di contatto, della superficie coinvolta e dello stato fisiologico della pelle stessa. In ambienti umidi o con pelle sudata, il trasferimento di calore può essere ancora più accentuato. Inoltre, l’esperienza sensoriale complessiva può essere influenzata da fattori cognitivi e associativi: il cervello tende ad associare visivamente il metallo con il freddo, rafforzando l’impressione soggettiva.