Il conflitto israelo-palestinese è da decenni al centro della politica internazionale. La sua complessità non risiede solamente nella contesa territoriale, ma anche negli intrecci geopolitici che coinvolgono attori regionali e globali. Jared Kushner, consigliere senior e genero dell'ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha cercato di intervenire su questo scenario con una visione ampia che andava oltre la semplice risoluzione della disputa sul territorio. La sua proposta, tuttavia, ha messo in luce i limiti di un approccio che ignorava le profonde radici storiche e politiche del conflitto, con esiti che non sono stati solo fallimentari ma anche pericolosamente destabilizzanti.
Kushner, in particolare, aveva una visione grandiosa per il futuro del Medio Oriente, che andava ben oltre la risoluzione della questione palestinese. La sua ambizione non si limitava a cercare un accordo di pace tra Israele e Palestina, ma mirava a creare un'alleanza strategica tra gli Stati sunniti del Golfo e gli Stati Uniti, un'alleanza simile alla NATO, ma focalizzata sul contrasto al regime sciita dell'Iran. Questo piano, chiamato "Middle East Strategic Alliance" (MESA), avrebbe dovuto unire sotto un unico ombrello di sicurezza paesi come Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Bahrein, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, e avrebbe incluso non solo la difesa reciproca, ma anche la cooperazione economica e la risoluzione dei conflitti.
Tuttavia, la proposta non ha avuto il successo sperato. Il piano MESA, purtroppo, ha incontrato numerosi ostacoli. La resistenza della burocrazia statunitense, l'indifferenza della politica interna e l'instabilità della regione hanno ridotto progressivamente le ambizioni iniziali, fino a farne un'iniziativa limitata alla cooperazione energetica, senza alcun reale impatto strategico. Gli esperti di politica estera, sia al Pentagono che al Dipartimento di Stato, hanno visto l'idea come poco realistica e mal concepita, un "piano a metà cottura". Eppure, nonostante le obiezioni, la Casa Bianca continuava a promuovere l'idea, persino con merchandising come adesivi e monete commemorative.
Il fallimento del piano MESA non è stato l'unico errore di Kushner. La sua proposta per la pace israelo-palestinese, annunciata nel gennaio 2020, cercava di risolvere la questione con un approccio economico, promettendo 50 miliardi di dollari di investimenti internazionali nella regione. Secondo Kushner, la vera causa del conflitto non era tanto la lotta per la terra, quanto la mancanza di prosperità. Israele avrebbe mantenuto tutti i suoi insediamenti in Cisgiordania, con una moratoria sulla costruzione di nuovi insediamenti, mentre i palestinesi avrebbero ottenuto uno Stato con sovranità limitata e una capitale a Gerusalemme est, ma solo nelle periferie della città.
Questa proposta, purtroppo, non ha avuto il sostegno dei palestinesi, che l'hanno rifiutata categoricamente, come aveva fatto il presidente Mahmoud Abbas, che l'ha definita "una proposta che non merita neanche di essere discussa". Più interessante, però, è stato il modo in cui il piano ha esacerbato le tensioni politiche interne israeliane. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, già in difficoltà a causa di una crisi politica senza precedenti in Israele, ha usato l'annuncio del piano come strumento di campagna elettorale, stravolgendo gli accordi stabiliti con Washington. Durante la cerimonia alla Casa Bianca, Netanyahu ha annunciato che Israele avrebbe applicato le proprie leggi nei territori contesi della Cisgiordania, un passo che equivaleva a una vera e propria annessione.
La reazione di Trump è stata di rabbia: Netanyahu aveva rubato la scena e minacciato di compromettere un piano che stava cercando di portare avanti con grande impegno. Non solo, ma Netanyahu ha anche cercato di ottenere l'annessione della Valle del Giordano e dei blocchi di insediamenti in Cisgiordania, mettendo a rischio l'intero processo di pace e, soprattutto, la stabilità della regione. Le tensioni tra Trump e Netanyahu sono cresciute, arrivando a un punto in cui non si sono più parlati per mesi.
Oltre alla fallimentare diplomazia di Kushner, emerge una realtà ben più profonda riguardo le dinamiche politiche in Medio Oriente. Nonostante le tensioni con i palestinesi, molti Stati arabi, inclusi gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e persino l'Arabia Saudita, stavano ormai guardando a Israele non solo come un alleato nella lotta contro l'Iran, ma anche come un partner economico e tecnologico. Questa cooperazione dietro le quinte aveva già portato a un'intensa collaborazione in campo militare e di intelligence, sebbene ufficialmente la normalizzazione dei rapporti fosse ancora lontana.
Questa situazione ha reso il conflitto israelo-palestinese ancora più difficile da risolvere, poiché ha introdotto nuovi attori e nuovi interessi, distogliendo l'attenzione dalle radici storiche del conflitto. La crescita delle relazioni israelo-arabe ha complicato la posizione palestinese, mentre la continua resistenza della leadership palestinese a qualsiasi compromesso ha reso ancor più lontana la possibilità di un accordo. La geopolitica del Medio Oriente è divenuta così un gioco di alleanze e contrapposizioni che non si limita alla disputa territoriale tra israeliani e palestinesi, ma che coinvolge potenze regionali e internazionali con obiettivi spesso contrastanti.
Quali sono le ragioni che hanno portato al fallimento dell'azione militare e della risposta del governo il 6 gennaio 2021?
Il 6 gennaio 2021, il Congresso degli Stati Uniti è stato invaso da un gruppo di manifestanti pro-Trump che avevano preso d'assalto il Campidoglio, interrompendo una delle principali funzioni costituzionali del paese: la certificazione dei voti elettorali. Mentre le forze dell'ordine cercavano di contenere la situazione, una serie di eventi e decisioni presero una piega drammatica, evidenziando una grave incapacità di risposta sia a livello politico che militare.
In quel giorno, le riunioni dei vertici del Pentagono e delle forze armate avrebbero dovuto essere incentrate su questioni strategiche di sicurezza internazionale e salute pubblica, come la gestione delle truppe in Afghanistan e l'organizzazione di centri di vaccinazione. Ma nel momento in cui la situazione a Washington divenne insostenibile, il generale Milley, insieme al segretario della Difesa Miller, si trovò a dover affrontare una realtà ben più grave: l'invasione del Campidoglio da parte di una folla sempre più incontrollabile. Milley, uomo con una lunga esperienza militare, comprese immediatamente la portata della crisi. Nonostante avesse chiesto di mobilitare la Guardia Nazionale di Washington e di inviare truppe da altri stati vicini, i primi interventi arrivarono con un ritardo fatale.
La decisione di non aver preso misure preventive si rivelò fatale. Le preoccupazioni legate a precedenti episodi di violenza, come l'incidente a Lafayette Square, avevano spinto i vertici militari a essere riluttanti nell’impiegare la forza, per non dare l'impressione di una militarizzazione eccessiva. Questi timori, insieme alla decisione di non intervenire in modo preventivo, permisero che l'assalto al Campidoglio avesse luogo, con il Congresso sopraffatto in modo del tutto imprevedibile.
Il giorno stesso, le autorità politiche si trovarono a dover affrontare una frattura profonda nelle proprie fila. Il presidente Donald Trump, che fino a quel momento aveva alimentato la retorica della "elezione rubata", non prese alcuna azione immediata. Sebbene i suoi consiglieri cercassero di fargli capire la gravità della situazione, Trump rimase isolato, passando ore a osservare gli eventi in televisione, mentre i suoi sostenitori irrompevano nei palazzi governativi. Solo quando Ivanka Trump e Jared Kushner tentarono di intervenire, cercando di convincerlo a prendere una posizione fermamente responsabile, la sua risposta fu tardiva, con un video che sembrava più una giustificazione che un messaggio di condanna per la violenza in corso. Le parole di Trump: "Vi vogliamo bene, siete molto speciali", furono percepite da molti come un sostegno ai ribelli, non come un invito alla calma.
Nel frattempo, i leader del Congresso, come la Speaker Nancy Pelosi e il leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer, erano nel bunker del Pentagono, tentando di ottenere il supporto militare necessario per garantire la sicurezza e continuare la procedura costituzionale di certificazione del voto. Le loro preoccupazioni erano tangibili: la resistenza a intervenire in modo decisivo aveva ritardato l'arrivo delle truppe, e l’incapacità di rispondere prontamente aveva minato la credibilità dell’intero sistema di sicurezza nazionale. Quando finalmente furono inviate le forze, il danno era già fatto: il Campidoglio era stato invaso, e il simbolo della democrazia americana era stato macchiato dalla violenza.
Importante, al di là dei fatti, è riflettere sulle implicazioni politiche e sociali di quanto accaduto. La risposta timida e disorganizzata delle forze militari e delle autorità politiche ha rivelato non solo una crisi nella gestione delle emergenze, ma anche una profonda divisione interna tra i vari attori del governo. L'incapacità di prendere decisioni ferme e rapide non solo ha permesso ai manifestanti di avere il sopravvento, ma ha anche mostrato una crisi della leadership, con molti a chiedersi come si potesse arrivare a un simile collasso istituzionale.
In definitiva, il 6 gennaio è stato un giorno che ha posto in evidenza non solo la vulnerabilità del sistema democratico americano, ma anche la difficoltà delle istituzioni a reagire tempestivamente a una minaccia che, purtroppo, era stata ampiamente preannunciata dai segnali precedenti. La gestione del potere militare e la prontezza di intervento sono aspetti fondamentali di ogni governo, e l'esperienza di quel giorno solleva domande cruciali su come migliorare la preparazione e la cooperazione tra le forze politiche e militari in situazioni di crisi.
Come Trump ha conquistato il potere: tra rancore e classe dirigente
Donald Trump, quando ha intrapreso la sua campagna presidenziale, ha rappresentato una rottura netta con le tradizioni politiche americane. Non solo ha battuto i principali candidati repubblicani, spesso descritti come i migliori che il partito avesse da offrire, ma ha anche abbattuto la dinastia Clinton che aveva dominato la politica americana per decenni. Fin da subito, Trump sapeva che i membri della classe dirigente non lo rispettavano. Sentiva il loro disprezzo. Come raccontato da Newt Gingrich, ex presidente della Camera, Trump era un uomo che preferiva gli hamburger alle prelibatezze come il foie gras, e in ogni modo possibile, l’ala Rockefeller-Bush del partito repubblicano era scioccata dalla sua ascesa. La sua figura era percepita come quella di qualcuno che non apparteneva alla politica tradizionale, un uomo che non si inseriva nei canoni stabiliti da quelli che venivano considerati i "veri" repubblicani.
Questo risentimento verso le élite, che non solo lo rifiutavano, ma che lo vedevano come una parodia della politica, è diventato uno degli elementi chiave per il suo appeal. Nonostante fosse probabilmente l’uomo più ricco a diventare presidente degli Stati Uniti, Trump si presentò come il campione dei milioni di americani che lavoravano duramente e che, secondo lui, erano stati abbandonati dalle élite costiere. Il suo stile di vita, tra cui un appartamento di lusso a Manhattan e un aereo privato ricoperto d’oro, contrastava fortemente con le difficoltà quotidiane dei suoi elettori, ma questo stesso contrasto alimentava il suo messaggio di lotta di classe e di cultura. Come aveva osservato Hillary Clinton, molti dei suoi sostenitori erano stati etichettati come "deplorabili". Per Trump, questo termine era un simbolo di una discriminazione più ampia, che egli sentiva di dover combattere.
Ma la sua ascesa alla Casa Bianca non fu affatto inevitabile. Fin dal 1987, quando iniziò a promuovere il suo libro The Art of the Deal, Trump aveva fatto trapelare la sua disponibilità a candidarsi alla presidenza, ma ogni volta il suo nome veniva ridicolizzato. Nel 1988, quando si fece avanti per proporre se stesso come candidato vicepresidente, George H.W. Bush lo considerò "strano e incredibile". Trump provò anche nel 2000, con una candidatura abortita contro Pat Buchanan per la nomination del Partito Riformista, e tentò ancora nel 2004, nel 2008 e nel 2012, prima di fare il suo ingresso definitivo nella corsa alla presidenza nel 2016. Molti consideravano le sue intenzioni come una sorta di scherzo; per lui, invece, era un’opportunità di branding, un’ulteriore occasione per aumentare la propria visibilità.
Quando finalmente si impegnò seriamente nella corsa alla Casa Bianca, Trump non aveva un programma politico chiaro. Si trattava di vincere, punto. L’aspetto strategico era strettamente legato al suo stile di vita competitivo, che gli era stato trasmesso dal padre, Fred Trump, che lo aveva educato alla filosofia del "vincere a ogni costo". Fred gli aveva insegnato ad approfittare di ogni vantaggio e a non fare mai concessioni. La vita, per Donald Trump, era un gioco a somma zero: se qualcun altro vinceva, significava che lui perdeva.
Nel suo discorso inaugurale del 2017, Trump non cercò di unire il Paese o di offrire una visione di speranza, come aveva fatto Reagan e altri presidenti. Al contrario, lanciò un attacco frontale all’establishment politico, accusando i leader precedenti di aver rovinato l’America. Parlò di "carnaggio americano", una nazione segnata dalla dislocazione economica, dallo sfruttamento straniero e dalla corruzione politica, dove le madri e i bambini erano "intrappolati nella povertà" e le fabbriche abbandonate erano "disseminate come tombe" nel paesaggio. Il suo era un discorso divisivo, che separava il popolo dalle élite, i nativi dagli stranieri, e Trump dai suoi nemici.
Questa visione, che molti pensavano fosse solo una retorica da campagna, si rivelò essere il modello per il suo modo di governare. Subito dopo l’inaugurazione, Trump avviò una serie di attacchi sui social media contro senatori repubblicani, criticando duramente quelli come John McCain, accusato di essere "debole sull’immigrazione". Più tardi arrivarono le rinfacciate sull'Irlanda e sul Messico, ma anche le continue bugie sulle dimensioni della folla alla sua inaugurazione, sostenendo che fosse stata la più grande di sempre.
L’ascesa di Trump alla presidenza e il suo stile di governo mostrano chiaramente la sua visione del potere come uno scontro diretto con le élite e non come un'opportunità di costruzione di consenso. La sua figura rappresenta il trionfo di un rancore che ha saputo incanalare in una forza politica capace di riscrivere le regole del gioco.
Per comprendere meglio l’influenza di Trump, è essenziale riflettere su come la sua vittoria abbia rappresentato la crisi di una classe dirigente che non è riuscita a percepire i segnali di un malessere crescente nelle fasce popolari. Il suo successo non è solo una questione di carisma personale o di capacità di manipolare l'opinione pubblica, ma anche di come ha saputo sfruttare la frustrazione di milioni di persone che si sentivano abbandonate dalla politica tradizionale. Questo punto di vista è fondamentale per capire non solo la sua ascesa, ma anche le dinamiche di polarizzazione che hanno caratterizzato la politica americana nei suoi anni al potere.
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