Il concetto di cittadinanza in una repubblica, secondo Cicerone, non si basa tanto sul luogo di nascita quanto sulla conferma legale attraverso la legge. Questo concetto implica che ogni cittadino di una repubblica, indipendentemente dalla propria origine, gode degli stessi diritti, poiché è soggetto alle stesse leggi degli altri. In questo contesto, il sistema legale romano, che si configurava come non-dominante rispetto ai cittadini liberi ed eguali, contribuiva a una visione della repubblica come un'entità che promuoveva l'assenza di dominio, ossia la libertà come non-sottomissione.

Questa visione è stata sostenuta da Jun-Hyeok Kwak, il quale interpreta la cittadinanza come una condizione che si può acquisire attraverso la legge, e non come un diritto legato al sangue o alla nascita. Nella sua analisi, Kwak sottolinea come Cicerone veda tutti gli esseri umani come portatori dei “semi” della socialità, che sono naturalmente presenti in ogni individuo, e che tutti hanno il potenziale di ottenere la cittadinanza romana. Questo, secondo Kwak, rappresenta l’essenza della libertà non solo per Cicerone, ma anche per i repubblicani contemporanei.

Nonostante l'approccio intrigante di Kwak, alcune critiche emergono in merito alla sua interpretazione. In primo luogo, la supposta assenza di dominazione da parte delle leggi romane è messa in discussione, considerando che la selezione di individui per l'ingresso nella cittadinanza, spesso arbitraria e priva di una solida base morale secondo la concezione ciceroniana della natura umana, può sembrare incompatibile con la definizione ciceroniana di giustizia. Inoltre, il trattamento differenziato tra cittadini e non cittadini in relazione ai doveri morali universali, come il divieto di commettere ingiustizie e l’obbligo di intervenire per prevenire danni quando possibile, rimane problematico.

Queste criticità hanno alimentato le accuse di chi sostiene che la filosofia di Cicerone fosse in realtà una giustificazione per l’imperialismo romano. Tuttavia, nonostante queste obiezioni, altri studiosi hanno esaminato più da vicino l'appropriazione del pensiero ciceroniano da parte dei neo-repubblicani, criticando la loro lettura distorta di elementi fondamentali della teoria politica di Cicerone, che in molti casi ne minano il significato originario.

Un aspetto fondamentale da comprendere, al di là delle interpretazioni politiche, riguarda la concezione filosofica di Cicerone. Molto spesso considerato un esponente della scuola stoica, Cicerone non si identificava esplicitamente come tale. Piuttosto, nel corso della sua maturità filosofica, Cicerone aderì alle dottrine della Nuova Accademia, una corrente che promuoveva una forma di scetticismo moderato. Questo scetticismo, che rifiutava sia il dogmatismo che il radicale soggettivismo, sosteneva che la conoscenza umana è imperfetta e che la verità può essere appresa solo attraverso una ricerca probabilistica e provvisoria.

La filosofia ciceroniana, quindi, non cercava certezze assolute ma piuttosto promuoveva l’umiltà e la riflessione continua. Questo approccio scettico si riflette anche nella sua visione politica, dove non esiste un’unica forma di relazione umana che prevalga su tutte le altre. Cicerone riconosce l’esistenza di un dovere universale nei confronti di tutti gli esseri umani, basato sulla giustizia naturale, che implica un legame tra tutti gli uomini. Allo stesso tempo, Cicerone riconosceva l'importanza dell'allegianza alla propria patria, un obbligo che i cittadini hanno nei confronti dello Stato che li ha formati e che, in determinate circostanze, può assumere una priorità assoluta.

In sintesi, la filosofia politica di Cicerone non può essere ridotta a un'etichetta rigida, come quella di “repubblicano” o “cosmopolita”. La sua visione è fluida e soggetta a revisione, una riflessione che si adatta ai cambiamenti e alle nuove evidenze che emergono. È questa apertura, questa capacità di adattarsi senza cadere nell’ostinazione dottrinaria, che rende la sua teoria ancora oggi una risorsa preziosa per comprendere la politica e la cittadinanza.

Come la partecipazione politica e il confine del demos influenzano la legittimità democratica

La discussione sui confini democratici coinvolge la comprensione di due aspetti fondamentali: la posizione degli individui come destinatari di trattamenti politici favorevoli o sfavorevoli, e la loro condizione come agenti, ovvero attori con desiderio di agire nel contesto politico. Le letture più politiche di questa dinamica si concentrano sugli individui come agenti, ma spostano l’attenzione dalle loro inclinazioni individuali verso le conseguenze normative derivanti dall’essere arruolati al servizio dell'agenzia statale. I cittadini e i residenti a lungo termine di uno stato non sono semplicemente influenzati causalmente dal fatto di essere soggetti alla sua autorità in termini di coercizione o dipendenza dalle sue decisioni. La loro situazione normativa è, infatti, alterata in due modi fondamentali e interconnessi.

Innanzitutto, la loro obbedienza alle direttive dello stato è una condizione necessaria affinché lo stato stesso possa funzionare adeguatamente. Ogni governo dipende dal consenso e dalla cooperazione della stragrande maggioranza dei suoi sudditi. Tale conformità consente allo stato di concentrare le risorse limitate destinate all’applicazione della legge su coloro che non obbediscono. In questo modo, le persone che sono soggette all'autorità di uno stato sono, di fatto, arruolate nell’esercizio del suo potere, sia che esse abbiano voce in capitolo su come tale potere venga esercitato o meno.

In secondo luogo, la loro agenzia non è solo implicata causalmente, ma anche normativamente: lo stato esercita un diritto morale su di loro affinché obbediscano alle sue direttive, e per quanto esso possieda autorità legittima, i sudditi hanno normativamente motivi decisivi per obbedire alle sue leggi. Sia in senso causale che normativo, le persone coinvolte sono arruolate nei progetti dello stato. Questo modifica la loro situazione normativa in modo profondo. Diventano, quindi, sia destinatari che agenti del trattamento ricevuto dallo stato, sia come trattati che come trattanti. In quest'ultimo ruolo, gli individui possono essere oggetto di valutazioni morali, lode o disapprovazione, e possono anche essere ritenuti responsabili in altri modi, come per esempio con richieste di risarcimento o riparazione per eventuali abusi commessi dallo stato.

Questo comporta una grande rilevanza per la partecipazione politica, in quanto le persone hanno un forte interesse a non essere esposte a tali responsabilità. Ma, ancor più fondamentale, le persone possiedono un diritto morale di esercitare un certo controllo su ciò che viene fatto in loro nome, moralmente parlando. È altamente plausibile che abbiamo il diritto di agire sui temi che coinvolgono la nostra agenzia morale, affinché le azioni compiute a nostro nome siano almeno informate dal nostro giudizio morale. Quello che risulta particolarmente problematico nell’esclusione ingiustificata è che il nostro giudizio morale non possa influenzare gli atti nei quali la nostra agenzia viene coinvolta normativamente. Questa idea di arruolamento normativo delle persone sotto il potere dello stato può essere definita come il principio di arruolamento, che può essere ulteriormente specificato come una variante politica di teorie dell'ASP (Agenzia e Stato Politico) o dello SP (Statualismo Politico).

Di fronte a questi concetti, ci si pone la domanda: quali risposte sono più adeguate riguardo alla definizione dei confini democratici? La letteratura esistente presenta diverse obiezioni, tra cui ambiguità o vaghezza, inadeguatezza estensionale (cioè l'inclusività o l'esclusività in eccesso) e insufficienza teorica. La risposta a tali obiezioni dipende largamente dalla comprensione del problema del confine democratico e dalle distinzioni che vengono fatte al riguardo. In altre parole, quando ci chiediamo dove debbano trovarsi i confini del demos, non è chiaro cosa intendiamo per “dovrebbero”, poiché potrebbe trattarsi di una questione di convenienza morale generale o di compatibilità con certi principi. Ma, come sottolineato da Gustaf Arrhenius, il problema del confine democratico non riguarda solo una valutazione complessiva, ma la corretta identificazione di principi che dovrebbero determinare i confini.

Ciò che risulta poco plausibile, ad esempio, è l’idea che i confini democratici possano essere tracciati solo sulla base di una riflessione utilitaristica che tenga conto di tutte le circostanze possibili. Se, per caso, una situazione contingente conducesse a una condizione ideale dove sarebbe meglio che i Danesi governassero i Norvegesi, la risposta democratica non consisterebbe nel disconoscere i diritti dei Norvegesi in favore di una soluzione apparentemente più pratica. Anzi, i principi morali che governano la democrazia stabilirebbero che un simile disconoscimento dei diritti norvegesi è un errore, nonostante le richieste di un governo democratico.

La questione principale riguardo alla delimitazione del confine del demos si riduce quindi a come individuare i principi di demarcazione, esaminando le varie proposte attraverso il test dell'inclusività e dell'esclusività. Proporre che i Norvegesi vengano esclusi o che vengano inclusi in modo improprio è una fallacia teorica che non può essere giustificata. Tuttavia, il fatto che una teoria proponga revisioni rispetto a ciò che consideriamo intuitivamente “giusto” non implica necessariamente che essa debba essere scartata, ma che tale proposta debba essere sottoposta a una rielaborazione teorica rigorosa che prenda in considerazione i principi fondamentali della giustizia.

Infine, per valutare i principi che guidano la definizione dei confini democratici, è essenziale considerare la struttura degli argomenti proposti. Ogni argomento si fonda su una necessità normativa che i sistemi politici devono soddisfare, e i confini vengono giudicati in base al contributo che apportano o impediscono in relazione a tale necessità. Ad esempio, la teoria AAI (Azione e Inclusività) sostiene che nessuno dovrebbe essere influenzato da decisioni prese senza la propria partecipazione. Questo principio, applicato alla definizione dei confini democratici, stabilisce che i confini devono essere tracciati in modo che nessuno venga governato senza avervi partecipato. Le teorie che si riflettono su questo principio, pertanto, sono ritenute le più plausibili, poiché sono quelle che meglio soddisfano i requisiti morali della partecipazione e del coinvolgimento.