Il concetto di "resistenza" evoca istantaneamente immagini di movimenti storici, in cui gruppi popolari si sono opposti a regimi autoritari: dalla Resistenza francese durante la Seconda Guerra Mondiale, ai movimenti per l'indipendenza e per i diritti civili guidati rispettivamente da Mahatma Gandhi e Martin Luther King. Ma la "Resistenza" è anche il nome del gruppo di ribelli fondato dalla principessa Leia nella terza trilogia di Star Wars. Questo legame con il movimento politico reale sfrutta il forte attaccamento emotivo che il pubblico ha per il mondo immaginario di Star Wars e la sua narrazione, in cui un piccolo gruppo di combattenti, guidati da una donna potente, trionfa contro un impero tirannico. La forza di questa allusione sta nel fatto che rende immediatamente riconoscibile e comprensibile la questione, facendo leva su un ampio pubblico che può relazionarsi con la storia di Leia. L’allineamento con un personaggio come Leia non solo evoca i valori morali della sua lotta, ma anche l'ottimismo eroico che essa rappresenta.

Tuttavia, l'aspetto significativo di questo processo è che il vocabolario culturale condiviso, preso in prestito dalle storie di finzione, può essere utilizzato da tutte le parti dello spettro politico. Non è una prerogativa di chi aderisce ai valori che rispecchiano più direttamente il contenuto della narrazione originale. Ad esempio, al giorno d'oggi è altrettanto comune vedere esponenti della destra politica invocare George Orwell, soprattutto quando si lamentano della presunta "correttezza politica" e del controllo del linguaggio. Nel 2018, quando l'allora segretario di Stato Boris Johnson suscitò indignazione paragonando le donne che indossavano il burqa a cassette postali, il Daily Mail definì le critiche ricevute come una "caccia alle streghe" di chiara ispirazione orwelliana. L’allusione non riguarda le complessità del mondo di 1984, ovviamente, ma piuttosto una versione svuotata del concetto di "Newspeak", ripresa dal sistema di valori del romanzo. Nonostante questa semplificazione, l'allusione funziona come un’efficace abbreviazione politica.

Allo stesso modo, se da un lato la sinistra può fare riferimento a Star Wars, anche la destra si appropria di questa iconografia. Ronald Reagan, nel 1983, definì il comportamento dell'Unione Sovietica come "gli impulsi aggressivi di un impero malvagio", un chiaro riferimento all’Impero Galattico di Star Wars, e quando poco dopo lanciò la proposta per un sistema di difesa missilistico spaziale, i media cominciarono a chiamarlo il programma Star Wars. Il nome divenne talmente noto che Reagan si sentì obbligato a chiarire lo scopo del programma, dichiarando che "non si trattava di guerra, ma di pace... Non si trattava di paura, ma di speranza, e in questa lotta, se mi permettete di rubare una frase del film, la forza è con noi".

Il caso di Dick Cheney, vice presidente sotto la presidenza di George W. Bush, dimostra come una figura politica possa anche trarre vantaggio dall’associazione con il cattivo della storia. Quando gli fu chiesto se gli dispiacesse essere paragonato a Darth Vader, Cheney rispose che "Darth Vader è una delle cose più gentili che mi abbiano detto ultimamente". Non solo non si oppose a questo paragone, ma ne giocò, utilizzando il tema musicale di Darth Vader come sua entrata nelle manifestazioni politiche e persino travestendo il suo cane da laboratorio in costume di Darth Vader per Halloween.

Ma perché un politico dovrebbe volersi associare a un personaggio negativo? Esistono diverse possibili spiegazioni. La prima è che il villain, pur essendo moralmente malvagio, è dotato di un grande potere. Questo potere, sebbene usato per scopi erronei, è innegabilmente efficace nel determinare il corso degli eventi, e per un politico è certamente preferibile essere associato all'efficacia piuttosto che all'incompetenza. Come ha detto Steve Bannon: "L'oscurità è buona… Dick Cheney. Darth Vader. Satana. Questo è potere". Inoltre, nella struttura drammatica classica, specialmente quella hollywoodiana, il villain è spesso un personaggio altrettanto affascinante del protagonista. Come affermato da George Lucas: "Ovviamente, tutti amano il cattivo più di quanto amino gli eroi, è una tradizione". In questo senso, il paragone con un cattivo iconico non è sempre un insulto così tagliente come potrebbe sembrare a prima vista.

Un ulteriore uso delle allusioni a storie preesistenti nella politica è l'utilizzo retrospettivo della letteratura come strumento per giustificare o spiegare determinati comportamenti. Un esempio interessante, ma leggermente confuso, arriva da Paul Dacre, ex direttore del Daily Mail, pochi mesi dopo la sua pensione. Durante i dibattiti sul Brexit, la Corte Suprema britannica stabilì che il Parlamento dovesse essere consultato riguardo l’accordo che il governo avrebbe finalizzato. Il Daily Mail, noto per la sua posizione favorevole alla Brexit, si oppose fermamente a questa decisione, considerando che la magistratura stesse interferendo con le prerogative del governo. Dacre, nel commentare la sentenza, scelse di intitolare un editoriale con l’espressione "nemici del popolo", una locuzione storicamente usata da figure come Robespierre, Lenin e Joseph Goebbels. Tuttavia, Dacre affermò che il riferimento era in realtà all’opera di Henrik Ibsen Gli ingiusti nemici del popolo, un dramma che racconta la storia di un uomo che espone una verità scomoda alla società, solo per essere punito e accusato di tradimento. Questo tipo di allusione mira a dare un'aria di elevazione intellettuale all’editoriale, cercando di allinearsi alla tradizione culturale di drammaturghi come Ibsen, pur con un utilizzo paradossale della citazione.

Il racconto politico si intreccia dunque con la narrazione storica e letteraria in vari modi. Le allusioni a storie preesistenti forniscono un vocabolario condiviso attraverso cui le persone possono discutere e comprendere le dinamiche politiche. A volte queste storie non solo chiariscono il contesto di eventi o comportamenti, ma rendono anche più facile la comprensione di situazioni complesse, sfruttando simbolismi e valori universali che risuonano con un ampio pubblico. Inoltre, l’utilizzo di questi riferimenti mostra come la politica non solo attinga a tradizioni culturali e narrative, ma le reinterpreti costantemente, utilizzandole per rafforzare, giustificare o criticare decisioni politiche e sociali.

Come il racconto politico modella la realtà e plasma il consenso: la potenza e il pericolo delle narrazioni semplificate

La narrazione politica è uno degli strumenti più potenti nel panorama attuale. Spesso, i politici, nel delineare la loro identità pubblica, adottano una struttura narrativa che segue una trama ricorrente: un mondo in decadenza, corrotto e in cui è necessario un eroe, esterno al sistema, che sfidi il potere consolidato per restituire giustizia e moralità. Questa struttura, intrisa di temi universali di lotta contro l'oppressione e la disuguaglianza, affascina l'elettorato, che ricerca in essa una promessa di cambiamento, un'alternativa all'establishment percepito come corrotto e autoreferenziale.

Non è un caso che le campagne politiche più vincenti siano quelle che meglio riescono a imporsi su questa narrativa: un outsider che combatte contro il sistema, con un chiaro e potente messaggio che promette di restaurare la "purezza" e i valori fondamentali. L'efficacia di tale approccio risiede nel suo potere di evocare una reazione emotiva nell'elettorato, suscitando indignazione morale e portando alla luce la dicotomia tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In questa dinamica, il messaggio politico non è solo il veicolo per esporre politiche, ma anche una forma di storytelling che tiene incollati gli elettori.

Nel contesto contemporaneo, i politici devono comprendere come la narrazione si articola attorno a personaggi ben definiti, in cui il conflitto, generato dalle azioni dell'antagonista, diventa un elemento imprescindibile. Il conflitto deve suscitare indignazione, stimolare una risposta emotiva che leghi l'elettorato a un insieme di valori morali specifici. La chiara definizione di un obiettivo, che il politico si impegna a perseguire, diventa quindi cruciale. L’autenticità di un politico non risiede tanto nelle parole, ma nell’azione che costruisce e definisce il suo personaggio pubblico. La coerenza delle sue azioni, infatti, è ciò che garantisce la sua credibilità agli occhi dell’elettorato.

Tuttavia, questa narrazione semplice e facilmente digeribile, che riesce a incanalare la realtà in un racconto lineare e comprensibile, porta con sé anche dei rischi. Nel mondo politico odierno, la tentazione di semplificare i messaggi a dismisura è forte, ma questa semplificazione porta spesso a una distorsione della realtà. Le complessità dei problemi, le sfumature e le implicazioni delle politiche vengono schiacciate da una retorica che ha bisogno di risposte rapide e rassicuranti. E questo crea un terreno fertile per la disinformazione, dove i confini tra la realtà e la fiction si confondono, a discapito di una comprensione profonda delle problematiche sociali ed economiche.

Il caso del Brexit è emblematico in questo senso. La narrativa di una Gran Bretagna sovrana e indipendente, lontana dall’influenza dell’Unione Europea, ha dominato la campagna referendaria, dipingendo il processo come una battaglia epica per la libertà. Ma la realtà politica, legata alle trattative complesse e ai compromessi richiesti dalla Brexit, ha rivelato tutta la sua difficoltà e la sua lontananza dalla narrazione ideologica semplificata. L'incapacità di coniugare le due dimensioni – quella della narrazione popolare e quella della gestione pratica delle politiche – ha alimentato un caos gestionale che ha messo in difficoltà il governo e i negoziatori.

A livello globale, possiamo osservare lo stesso schema in molte altre situazioni politiche, dove il racconto semplificato della politica ha portato ad una frattura tra le aspettative degli elettori e le reali possibilità di realizzare i cambiamenti promessi. Questo tipo di narrazione non è solo un mezzo per persuadere, ma anche una forma di disinformazione che altera la percezione pubblica, creando una distanza tra le promesse elettorali e le capacità effettive di attuare i cambiamenti.

Questa narrativa della politica come un dramma epico e semplicistico ha trovato terreno fertile soprattutto nell'era della post-verità e del populismo. In un contesto di sfiducia crescente verso le istituzioni politiche tradizionali, i leader politici che si presentano come "anti-politici" riescono a catturare l'immaginario collettivo, offrendo un'alternativa a un sistema che viene dipinto come irrecuperabile e corrotto. La retorica dell'anti-politica, che si nutre della critica alle istituzioni, si intreccia con la semplificazione narrativa, creando una politica che sembra diretta e "autentica", ma che spesso non fa altro che svuotare le soluzioni di qualsiasi contenuto concreto.

La crisi della politica moderna è dunque legata alla crescente affermazione di una narrazione che privilegia la semplificazione rispetto alla complessità. Le politiche pubbliche diventano narrate come battaglie morali, distillate in slogan e metafore che appaiono più come storie da raccontare che come proposte di azioni concrete. Quando la politica si riduce a una sceneggiatura, si perde di vista il suo vero scopo: risolvere i problemi concreti delle persone, non raccontare storie emozionanti o rassicuranti.

Oltre a ciò, è importante considerare che in un mondo iperconnesso, la comunicazione politica non è mai stata così dipendente dall’apparenza. La gestione delle informazioni, la manipolazione delle emozioni attraverso immagini, parole e simboli, è diventata la chiave per ottenere consenso. Il confine tra realtà e finzione si è fatto sempre più sottile, e l’efficacia della narrazione non sta più tanto nella veridicità dei fatti, ma nella loro capacità di suscitare una risposta immediata e emotiva. In questo scenario, il rischio che le politiche reali siano deformate da narrazioni che non ne rispettano la complessità è più concreto che mai.