I significanti sono “immagini sonore”, mentre i segni materiali esistono nel mondo esterno alla psiche dei parlanti. Analogamente, i significati di Saussure sono concetti evocati dalle immagini sonore, ma non operano in una catena come nel modello di Peirce. Ho scelto di non definire i segni materiali “oggettivi” in contrapposizione a “soggettivi” perché questo termine rischierebbe di suggerire che i significati dei segni materiali siano fissi e immutabili. In realtà, questa distinzione è puramente euristica. V. N. Vološinov, in Marxism and the Philosophy of Language, dimostra come le condizioni materiali influenzino sempre la nostra esperienza soggettiva del linguaggio, tanto che il linguaggio stesso è un fatto materiale che esiste al di fuori delle singole psiche dei parlanti.

La comunicazione è un processo dinamico in cui l’anticipazione della risposta dell’altro gioca un ruolo cruciale. Come i produttori televisivi plasmano i loro programmi prevedendo parzialmente le reazioni degli spettatori, anche noi modelliamo le nostre espressioni prevedendo come gli altri potrebbero rispondere. Questo continuo scambio di segni, parole, e significati tra due interlocutori, qui rappresentati come Eroe 1 ed Eroe 2, modifica incessantemente il valore soggettivo del segno. Ogni nuova risposta non è una mera replica, ma un’interpretazione che si inserisce in un contesto sempre in evoluzione, dando luogo a una trasformazione del segno stesso.

Questa trasformazione non altera necessariamente l’aspetto materiale del segno, che può rimanere stabile, ma ne modifica la dimensione soggettiva. Così, il segno, inteso come unità inseparabile di materiale e soggettivo, diventa diverso rispetto al momento iniziale dello scambio. Usare un segno equivale dunque a trasformarlo.

La trasformazione di un segno equivale a tradurlo. La traduzione qui intesa non è solo la sostituzione di un segno con un altro, ma un processo attraverso il quale il significato si modifica nella relazione tra gli interlocutori. Il segno trasformato sostituisce il precedente, ampliando o ridefinendo il sistema simbolico di chi lo riceve. Questo fenomeno può manifestarsi con varia intensità: da piccoli aggiustamenti di significato fino a cambiamenti radicali, come quando una rivelazione sconvolge la concezione di un segno, ad esempio la parola “padre” nel momento in cui Luke Skywalker scopre la verità su Darth Vader.

La comunicazione stessa si configura dunque come un processo di traduzione continua. Ogni atto comunicativo implica una trasformazione del segno, che a sua volta comporta una sua traduzione. Questa visione si riallaccia alle teorie di George Steiner, che sostiene come ogni modello di comunicazione sia anche un modello di traduzione, e a quelle di Paul Ricoeur, che sottolinea la necessità di chiarificazioni continue per superare le inevitabili incomprensioni che nascono dal fatto che un segno non evoca mai esattamente lo stesso significato in interlocutori diversi.

Tuttavia, mentre Steiner e Ricoeur immaginano un agente attivo che chiarifica il significato dicendo “quello che intendevo era…”, la trasformazione e la traduzione del segno avvengono indipendentemente da un tale agente consapevole. L’uso stesso di un segno modifica il suo significato, ampliando la catena di interpretazioni senza bisogno di un esplicito sforzo di spiegazione. L’atto di comunicare è dunque intrinsecamente un atto di traduzione, in cui il significato è sempre fluido e in divenire.

È fondamentale comprendere che il linguaggio non è un sistema statico di simboli con significati fissi, ma un processo vivo che coinvolge materiali, soggettività e relazioni sociali. La traduzione qui non riguarda solo la conversione tra lingue diverse, ma la negoziazione continua di senso tra soggetti, sempre inseriti in contesti storici e materiali specifici. Questa dinamica è la chiave per capire come il significato venga prodotto e trasformato nella comunicazione quotidiana, soprattutto in situazioni di polarizzazione, dove le differenze interpretative si accentuano.

La consapevolezza di questa natura dinamica del segno aiuta a vedere la comunicazione non come semplice trasmissione di messaggi, ma come un’attività complessa di costruzione condivisa del significato, un processo in cui ogni partecipante influenza e viene influenzato, e dove ogni parola pronunciata diventa parte di una storia in continua evoluzione.

Che cos'è la traduzione culturale e come può trasformare le menti?

Quando ci interroghiamo su come comprendere un oggetto o un concetto che proviene da una cultura diversa dalla nostra, possiamo utilizzare un semplice esempio di scambio tra due persone. Una chiede: “Cos’è quello?” e l’altra risponde: “È un X, lo usiamo quando facciamo Y.” La prima replica: “Interessante, sembra qualcosa che facciamo anche noi, ma in un altro modo, Z.” Ma la seconda persona risponde: “Non proprio, è più simile a questo.” In questo scambio, la prima persona, sostituendo riferimenti familiari per l’oggetto in questione, giunge a comprendere come la seconda persona interpretai l’oggetto. In altre parole, la traduzione culturale è un processo di negoziazione di significati, una sorta di economia semiotica, dove i segni vengono scambiati con altri segni, non sulla base di un’equivalenza, ma di una continua ricerca di comprensione.

Ciò che rende questo processo una traduzione è proprio il fatto che uno segno viene sostituito da un altro. Ciò che lo rende culturale è il modo in cui gli oggetti, il cui significato cerchiamo di comprendere, sono condivisi tra membri di comunità diverse, anche se i confini tra queste comunità non sono sempre chiaramente definiti. La traduzione culturale, che può sembrare un concetto intellettuale astratto, ha in realtà implicazioni etiche molto profonde. Come afferma Sarah Maitland, deve avere come obiettivo primario “nulla di meno che la trasformazione dei cuori e delle menti umane”.

Come possiamo raggiungere questo alto traguardo? Propongo di impegnarci in atti di lettura strategica, talvolta anche di "falsificazione" voluta, una sorta di errore metodico che permette di rivedere e ristrutturare i significati in modo nuovo. Insegnanti e studenti hanno una responsabilità: recuperare il lavoro di pensiero e di riflessione profonda, anche attraverso strumenti che ci permettano di cogliere il senso culturale e semantico di un oggetto o di un concetto. La lettura strategica non è un’operazione semplice: essa implica una continua negoziazione del significato, ma anche una comprensione delle motivazioni e delle necessità che portano una comunità a definirlo in un determinato modo.

Per comprendere la traduzione culturale, dobbiamo innanzitutto affrontare una questione fondamentale: cosa significa comunicare? La comunicazione non è mai un processo neutrale. Come ho discusso, la comunicazione è sempre una forma di traduzione, poiché siamo sempre impegnati a sostituire un segno con un altro. E se la traduzione culturale è il nostro principale oggetto di studio, essa ci offre anche una modalità per esplorare come arriviamo alla comprensione di un oggetto, ovvero uno strumento per comprendere il processo stesso di traduzione culturale.

La chiave per comprendere questa pratica di traduzione risiede nel cambiamento di prospettiva, un concetto che, in questo libro, viene definito come "la vista parallattica". Quando adottiamo una nuova prospettiva, la nostra capacità di leggere la realtà cambia e ci permette di cogliere aspetti prima invisibili o sconosciuti. In un mondo polarizzato, la vista parallattica ci consente di apprezzare l'arte della comunicazione, facendo emergere significati nascosti o ambigui. È proprio in questo scarto di visione che risiede la possibilità di una vera trasformazione delle menti.

Ma chi siamo, in definitiva, noi che siamo impegnati in questo lavoro di traduzione culturale? Non parlo di un’entità astratta quando dico “noi”. Parlo di persone reali, impegnate in una ricerca che, se ben condotta, mira a cambiare la comprensione che abbiamo del mondo. In questo libro, non ci limitiamo a una discussione teorica; ci impegniamo in un'esperienza che cerca di far emergere modi di pensare nuovi, attraverso il gioco con le parole, i toni e anche le immagini. Questo libro è nato come una serie di lezioni, destinate a insegnanti e studenti, ma anche come una riflessione sulla responsabilità che noi, come educatori, abbiamo nel promuovere un pensiero critico e indipendente.

Nell'era della cultura di massa, dove l’industria culturale ci dice cosa pensare e come sentire, la nostra sfida è quella di non cedere a una visione superficiale del mondo. La cultura di massa, infatti, fa credere che le emozioni e i pensieri che ci invia siano spontanei, mentre in realtà ci manipola facendoci credere che siano le nostre idee. Al contrario, la nostra missione, come educatori e studenti, è quella di recuperare un tipo di coinvolgimento intellettuale che contrasti questa tendenza, restituendo alla cultura e all'arte una dimensione personale, irripetibile e creativa. Questo lavoro non è solo teorico, ma si concretizza nelle pratiche quotidiane che ci permettono di ripensare e reinterpretare i segni che ci circondano.

Se vogliamo davvero cambiare il mondo, dobbiamo tornare al lavoro di pensiero profondo, lontano dalle logiche del consumo e della standardizzazione culturale. È questo il nostro compito: pensare e far pensare. La traduzione culturale, dunque, non è solo un processo intellettuale, ma anche un atto di resistenza contro le forze che cercano di appiattire il nostro pensiero.

Che cos'è una lettura strategicamente scorretta e perché può rivelare di più del testo stesso?

Non possiamo accedere alla mente di chi scrive. Non possiamo sapere, con certezza, quali intenzioni abbia un autore. Le parole che leggiamo sono, al massimo, tracce stabili di qualcosa di fluido, il cui significato resta sempre eccedente. Le parole non sono mai totalmente chiuse, perché il linguaggio stesso eccede costantemente il suo impiego. Paul Ricoeur ci ricorda che, quando parliamo, realizziamo solo una parte del significato potenziale; il resto resta come un alone semantico, non cancellato ma sospeso, pronto ad essere riattivato in nuove interpretazioni.

L’unico punto d’appoggio reale è il testo, inteso non come deposito di verità intenzionali ma come costruzione interpretabile. E ciò che gli altri hanno detto su di esso—anche qui, va sottolineato, possiamo conoscere solo le loro parole, non ciò che veramente “intendevano dire”. A partire da questa consapevolezza, la via per far apparire il familiare come straniante non è la negazione del senso, ma un esercizio deliberato di disallineamento: leggere strategicamente “contro” ciò che è stato già detto. Questo tipo di lettura non è un errore, ma una scelta, un metodo. La strategia consiste in un misreading consapevole, un fraintendimento mirato che svela nuove possibilità di senso proprio nel momento in cui devia dal consenso interpretativo.

Leggere in modo scorretto, in questo senso, diventa un gesto teorico. Una traduzione culturale non consiste nel trovare un equivalente, ma nel dislocare un significato, nel sostituire un uso della lingua con un altro, in un contesto che ne altera il valore. È qui che la traduzione e l’interpretazione collassano l’una sull’altra: ogni atto comunicativo è anche un atto di traduzione, ogni traduzione è anche un posizionamento. Comunicare significa sostituire—e in questa sostituzione non c’è neutralità.

Il testo stesso che leggiamo è il risultato di una lunga catena di sostituzioni. Non esiste un’origine autentica o definitiva. L’autore descrive come la lezione che il lettore ha tra le mani sia la rielaborazione di un keynote, che a sua volta era una rielaborazione di un articolo accademico, che reinterpretava il modello encoding/decoding di Stuart Hall, il quale a sua volta era una trasposizione del pensiero marxista sul piano della comunicazione. E Marx stesso re-interpretava tradizioni economiche precedenti. Ogni testo è, dunque, un movimento nella storia dei significati, non una fonte primaria.

Questa consapevolezza apre alla possibilità di utilizzare la lettura strategicamente scorretta come strumento di intervento culturale. Non si tratta semplicemente di interpretare in modo “diverso”, ma di produrre uno spostamento tale da far emergere nuove linee di visione, nuovi modi di vedere il reale. In questo senso, la lettura non è un’attività passiva ma un atto creativo.

Ecco perché la traduzione culturale non può che essere performativa. Essa non descrive: fa. Non spiega: agisce. La sua efficacia risiede nel provocare, nel suscitare l’induttivo anziché l’esplicativo. Chi legge è chiamato a completare, a elaborare, a generare connessioni. Ogni capitolo, ogni esempio è una proposta, una dimostrazione in atto di ciò che la teoria può essere se vissuta come immersione. La conoscenza, in questo modello, non è un accumulo ma un’esperienza.

Comprendere tutto ciò richiede una postura epistemologica nuova: accettare di “saltare dentro” senza attendere di essere pienamente pronti. La teoria, come una lingua straniera, si apprende nel contatto, nell’uso, nella necessità. Solo nell’atto del fare emergono gli strumenti per comprendere ciò che si sta facendo. Non si tratta di padroneggiare un sistema prima di usarlo, ma di usarlo per arrivare a capirlo.

È fondamentale comprendere che la lettura strategicamente scorretta non è un rifiuto della fedeltà al testo, ma un rifiuto della fedeltà a letture cristallizzate. La fedeltà, qui, è verso il potenziale del linguaggio stesso, verso quelle possibilità semantiche che fluttuano attorno alle parole come presenze non dette. Il compito del lettore-teorico è di attivarle.

Questo approccio non solo sfida l’idea che i testi abbiano un significato univoco, ma rifiuta anche che il senso sia una proprietà dell’autore. Il significato non è posseduto: è negoziato, conteso, tradotto. E la teoria, come esercizio di lettura e riscrittura, non può che essere un’arte della contingenza.

L’importanza di questo approccio non risiede solo nella sua capacità di produrre nuove interpretazioni, ma nella sua forza di rendere visibili le strutture invisibili che governano la nostra percezione del mondo. La lettura strategicamente scorretta, come forma di traduzione culturale, serve a incrinare le evidenze, a disarticolare il senso comune, a generare uno slittamento. È un gesto critico che si muove non contro il testo, ma attraverso le sue pieghe, cercando lì dove il significato sfugge.

Che cos’è la traduzione e come funziona nella comunicazione?

La traduzione, intesa come scambio e trasformazione di segni, è alla base di ogni atto comunicativo. Ogni parola, frase o idea non è mai statica, ma si trasforma continuamente nel suo passaggio da un sistema semiotico a un altro. Questo processo di sostituzione tra segni — che siano parole, immagini o registri linguistici diversi — costituisce l’essenza stessa della comunicazione. Si può affermare che usare un segno significa trasformarlo, trasformarlo significa tradurlo, e comunicare significa tradurre.

Per comprendere questa dinamica, è utile considerare il modello di comunicazione sviluppato dagli ingegneri elettronici negli anni Quaranta, noto come modello mittente-messaggio-destinatario. Esso nasce da un’esigenza tecnica: migliorare la trasmissione telefonica e superare il problema del “rumore” che distorce il messaggio. La soluzione tecnica più efficiente sarebbe quella di trasmettere ogni elemento del messaggio una sola volta, ma ciò non garantisce la correttezza della comunicazione, poiché l’assenza di ridondanza impedisce di rilevare e correggere eventuali errori. Per ovviare a ciò, si introduce il feedback, ovvero la ripetizione del messaggio da parte del destinatario al mittente, con un inevitabile compromesso tra efficienza e affidabilità.

Claude Shannon, insieme a Warren Weaver, formalizzò questo modello nel 1948, descrivendo il ruolo del trasmettitore come codificatore e quello del ricevitore come decodificatore del messaggio. Tuttavia, questo modello tecnico trascura gli aspetti semantici della comunicazione, ossia il significato contenuto nei messaggi, poiché l’obiettivo originario era la trasmissione affidabile di simboli, indipendentemente dal loro contenuto o valore culturale.

È qui che entra in gioco la prospettiva di Stuart Hall, che rivoluziona il modo di intendere la comunicazione ponendo il significato al centro del processo. Hall propone un approccio materialista alla semiotica, che considera la comunicazione come un circuito complesso tra produttori e spettatori inseriti in un contesto sociale specifico. L’atto di “encoding” (codifica) e “decoding” (decodifica) non è neutro o meccanico, ma è profondamente influenzato dalle condizioni materiali e culturali di chi parla e di chi ascolta. Il significato, dunque, non è mai univoco né stabilito a priori, ma nasce dall’interazione tra il messaggio e il suo interprete, dalla trasformazione continua dei segni.

Questa visione apre lo spazio per una politica dell’invenzione, in cui la traduzione dei segni diventa un atto creativo e potenzialmente emancipatorio. Attraverso la traduzione, possiamo rinegoziare le nostre relazioni con gli “altri culturali”, integrandoli nelle comunità che consideriamo nostre. La trasformazione dei segni, quindi, non è solo un processo linguistico o tecnico, ma un gesto politico che sfida le paure e le esclusioni, creando possibilità nuove di convivenza e comprensione.

Oltre a ciò che è stato detto, è essenziale riconoscere che la traduzione non è mai perfetta né neutra. Ogni trasformazione comporta perdita, guadagno o alterazione di senso, e questo implica una responsabilità nell’atto comunicativo. La consapevolezza di questa dinamica permette di sviluppare una maggiore attenzione critica verso i processi comunicativi, evitando fraintendimenti e manipolazioni. Inoltre, la riflessione su come il contesto sociale, culturale e politico influenzi la codifica e la decodifica aiuta a capire meglio le polarizzazioni e i conflitti contemporanei, e apre la strada a pratiche comunicative più inclusive e dialogiche.