Il dolore toracico non cardiaco (NCCP, Non-Cardiac Chest Pain) rappresenta un quadro clinico complesso, in cui, dopo aver escluso una causa cardiaca, è necessario esaminare una serie di possibili origini. Queste cause possono essere gastrointestinali, polmonari, muscoloscheletriche, dermatologiche, reumatologiche, psichiatriche o dovute a dolore irradiato. Una storia clinica accurata e un esame fisico approfondito sono fondamentali per ridurre il numero di diagnosi differenziali. Il dolore che viene riprodotto da un movimento o dalla pressione sulla parete toracica dovrebbe sollevare il sospetto di cause muscoloscheletriche. Tra le cause gastrointestinali di NCCP, la malattia da reflusso gastroesofageo (GERD) è la più comune, con una prevalenza che varia dal 30% al 60%, ma anche danni indotti da farmaci o esofagite infettive devono essere considerati, soprattutto se i sintomi sono acuti e accompagnati da odinofagia (dolore alla deglutizione).

È importante notare che solo una piccola percentuale di pazienti con disfagia e/o dolore toracico presenta disordini spasmodici dell'esofago, come mostrato dai test di motilità esofagea (1%-4%). La GERD, quindi, rimane la causa principale di dolore toracico esofageo, ma una valutazione accurata è fondamentale per differenziare le altre possibili origini.

La trasmissione del dolore esofageo è il risultato di un'interazione tra sensibilizzazione periferica e centrale. Sebbene l'acido e/o la bile refluiti siano le cause più comuni di dolore toracico esofageo, non tutti i pazienti reagiscono in modo simile, suggerendo la presenza di percorsi alternativi di dolore. I meccanorecettori, sensibili alla distensione esofagea e alle contrazioni anomale, possono essere una possibile fonte di dolore.

Il trattamento iniziale per diagnosticare la GERD è rappresentato dal test con gli inibitori della pompa protonica (PPI). Studi recenti mostrano che la sensibilità e la specificità di questo approccio per il NCCP correlato alla GERD variano dal 69% al 95% e dal 67% all'86%, rispettivamente, rendendolo una strategia diagnostica semplice e poco costosa. In generale, il trattamento iniziale prevede una prova empirica con PPI a dosaggio standard per un periodo di 8 settimane, ma test ad alta dose di PPI per 1-2 settimane hanno dimostrato una risposta efficace. Un approccio più lungo (2-3 mesi) può essere utilizzato, ma può risultare più costoso e dilazionare la diagnosi senza aumentare significativamente la sensibilità o la specificità.

La scelta di un dosaggio adeguato è essenziale. Non è consigliabile mantenere un regime ad alta dose di PPI indefinitamente, ma è importante titolare il dosaggio verso la dose minima efficace o interromperlo se non ci sono miglioramenti sintomatici.

L'endoscopia esofagea, ovvero l'esofagogastroduodenoscopia (EGD), dovrebbe essere riservata ai pazienti ad alto rischio o con sintomi allarmanti, come disfagia, odinofagia, emorragie gastrointestinali, anemia da carenza di ferro o perdita di peso involontaria. In assenza di tali segnali, il 70% dei pazienti con bruciore di stomaco e senza sintomi allarmanti avrà una EGD normale, per cui questa procedura non deve essere utilizzata come strumento diagnostico iniziale.

I disturbi della motilità esofagea possono causare dolore toracico atipico. Tra i disordini motori spastici dell'esofago, come lo spasmo esofageo distale o l’acalasia, solo una minoranza di pazienti (1%-4%) presenta alterazioni significative nelle prove manometriche. Il gold standard per la valutazione della motilità esofagea è la manometria ad alta risoluzione (HRM), che consente di misurare parametri come la pressione di rilassamento integrata (IRP), l'integrale contrattile distale (DCI) e la latenza distale (DL). Un altro strumento emergente è la sonda FLIP, che permette di valutare la distensibilità del lume esofageo.

Il trattamento dei disturbi della motilità esofagea dipende dal tipo di disfunzione e dai sintomi predominanti. Per l'acalasia, ad esempio, le opzioni principali sono la dilatazione pneumatica, la miotomia endoscopica perorale e la miotomia laparoscopica di Heller. Per altre anomalie motilità, si possono considerare dilatazioni endoscopiche, iniezioni di tossina botulinica A o farmaci miorilassanti, in base alla diagnosi specifica.

Quando il trattamento con PPI non porta a una risposta adeguata, il passo successivo è rappresentato dall'endoscopia con test ambulatori pH (senza PPI) per escludere ulteriori alterazioni della mucosa esofagea, come esofagite da reflusso, esofago di Barrett o esofagite eosinofila (EoE). Questo approccio consente di ottenere una diagnosi più precisa e una gestione mirata del dolore toracico esofageo.

Il bario esofagogramma, purtroppo, non è uno strumento diagnostico di prima linea per la GERD, in quanto manca di sensibilità e specificità. Tuttavia, può essere utile per l'analisi di alterazioni strutturali dell'esofago, come stenosi, neoplasie o ernia iatale.

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Qual è la relazione tra la colite ulcerosa e le complicazioni articolari, epatiche e oculari?

La colite ulcerosa (CU) è una malattia infiammatoria cronica dell'intestino che può manifestarsi con una varietà di complicazioni extraintestinali. Sebbene la CU sia tradizionalmente associata a disturbi dell'apparato digerente, essa coinvolge anche numerosi altri sistemi, come le articolazioni, il fegato e gli occhi, aumentando la complessità della gestione clinica. La comprensione di queste complicazioni è fondamentale per una diagnosi tempestiva e un trattamento efficace, evitando l'insorgenza di complicazioni gravi.

Tra le complicazioni articolari più comuni nella CU, le artriti migranti sono frequentemente osservate. Questi disturbi colpiscono solitamente le piccole articolazioni, come quelle delle ginocchia, caviglie, polsi e gomiti. L’infiammazione articolare tende ad essere asimmetrica e risponde bene al trattamento ottimizzato per la CU, come l'uso di corticosteroidi o altre terapie mirate. Tuttavia, l’associazione tra CU e spondilite anchilosante (SA), pur essendo più comune con la malattia di Crohn, è rilevante. I pazienti con CU presentano un rischio 30 volte maggiore di sviluppare la SA rispetto alla popolazione generale, anche se tale rischio non sembra correlato direttamente con l’attività della colite. La SA è un’atrofia infiammatoria progressiva che colpisce prevalentemente le articolazioni sacroiliache e la colonna vertebrale, e i pazienti iniziali, spesso asintomatici, possono manifestare solo dolori lombari o un dolore centrale lungo la colonna vertebrale. In questi casi, l’intervento precoce e la gestione con corticosteroidi, sulfasalazina o immunomodulatori è cruciale. Il riferimento a un reumatologo è spesso la miglior soluzione per una gestione adeguata.

Le complicazioni epatiche sono un’altra area di preoccupazione nei pazienti con CU. Tra queste, la malattia epatica grassa, la pericolangite, l’epatite cronica attiva, la cirrosi e la colangite sclerosante primaria (PSC) sono le più frequenti. Sebbene la PSC sia spesso associata a CU, solo un numero limitato di pazienti con CU sviluppa questa condizione, e i sintomi della colite in questi pazienti sono generalmente lievi. La diagnosi di PSC si sospetta frequentemente in presenza di un aumento anomalo delle fosfatasi alcaline o della γ-glutamiltransferasi. Sebbene il trattamento con acido ursodesossicolico (Actigall) possa essere indicato, la sua efficacia è controversa. I pazienti con PSC e CU presentano un rischio significativamente più alto di sviluppare neoplasie colorectaliche e colangiocarcinoma. Nei casi di malattia epatica in stadio terminale, l'unico trattamento disponibile potrebbe essere il trapianto di fegato.

Le complicazioni oculari, sebbene meno comuni, possono avere un impatto significativo sulla qualità della vita dei pazienti con CU. Le manifestazioni oculari più gravi comprendono la sclerite e l'uveite, che si presentano con dolore acuto agli occhi, sensibilità alla luce e iniezione scleralica, e possono essere complicate da alterazioni della vista o addirittura perdita della vista. Questi disturbi richiedono una valutazione tempestiva e un trattamento mirato. La episclerite, una forma meno grave di infiammazione, si manifesta con un arrossamento profondo della episclera e di solito è associata all’infiammazione intestinale attiva. In generale, il trattamento della CU in fase attiva porta alla risoluzione della manifestazione extra-intestinale, ma alcuni pazienti potrebbero necessitare di trattamenti oculari topici o, in rari casi, di trattamenti sistemici.

Inoltre, i pazienti con IBD, e in particolare con CU, sono a rischio aumentato di eventi tromboembolici venosi e arteriosi. I più comuni sono la trombosi venosa profonda degli arti inferiori. I pazienti con IBD ospedalizzati per malattia grave o in seguito a intervento chirurgico sono quelli più a rischio, e pertanto la profilassi tromboembolica deve essere considerata in tutti i pazienti ricoverati. Le nuove linee guida internazionali suggeriscono anche l’uso di una profilassi post-ospedaliera estesa per i pazienti con fattori di rischio per tromboembolia.

Quando un paziente con CU si presenta per una valutazione clinica, è fondamentale ottenere una storia clinica dettagliata, con particolare attenzione alla durata e alla gravità dei sintomi. L’esame fisico, seguito da valutazioni laboratoristiche ed endoscopiche, è cruciale per determinare l’estensione e la gravità del coinvolgimento mucosale. Un'accurata storia medica deve includere viaggi recenti, uso di antibiotici e FANS, mentre le indagini di laboratorio dovrebbero includere un emocromo completo, un pannello metabolico, CRP, calprotectina fecale e studi per la ricerca di infezioni come C. difficile. Un test sierologico per gli anticorpi antineutrofili perinucleari può essere utile nella diagnosi di CU, sebbene abbia una bassa sensibilità.

Il trattamento della CU dipende dalla gravità e dalla localizzazione dell’attività della malattia. Nei casi di malattia lieve, le terapie a base di mesalamina, somministrata oralmente o rettalmente, sono generalmente il trattamento di prima linea. Tuttavia, nei pazienti con malattia moderata-severa, o che non rispondono al trattamento con mesalamina, possono essere necessari farmaci alternativi come il budesonide-MMX (Uceris), o altre terapie come ozanimod (Zeposia). La terapia con corticosteroidi può essere indicata per il trattamento delle fasi acute della malattia.

Le Sindromi Poliposiche e le Malattie Maligne del Colon: Una Visione Completa

Le sindromi poliposiche intestinali e le neoplasie maligne del colon rappresentano un insieme complesso di condizioni che coinvolgono sia aspetti genetici che clinici, con implicazioni dirette sulla salute del paziente e le scelte terapeutiche. Tra le principali patologie neoplastiche intestinali, le poliposi sono di particolare interesse per la loro tendenza a evolvere in tumori maligni, se non diagnosticate e trattate tempestivamente. Queste sindromi si suddividono in diverse categorie, ognuna con peculiarità distintive e necessità specifiche di gestione.

Innanzitutto, è fondamentale distinguere tra i diversi tipi di polipi intestinali, che includono i neoplastici (come quelli adenomatosi, tubolari, villosi, tubulovillosi e serrati), i polipi hamartomatosi, infiammatori e linfatici, nonché quelli iperplastici. Tra questi, i polipi neoplastici sono quelli maggiormente associati a un rischio elevato di evolvere in tumori maligni, mentre i polipi hamartomatosi, pur essendo benigni, sono rilevanti per il loro legame con varie sindromi genetiche.

Tra le sindromi più rilevanti vi sono il Peutz-Jeghers e la Poliposi Adenomatosa Familiare (FAP). La sindrome di Peutz-Jeghers, caratterizzata dalla presenza di macchie pigmentate sulle labbra e mucosa buccale, è un disturbo autosomico dominante che porta alla formazione di hamartomi prevalentemente nell'intestino tenue, ma anche nello stomaco e nel colon. Sebbene inizialmente ritenuta una condizione benigna, la PJS comporta un rischio significativamente maggiore di sviluppare tumori maligni extra-intestinali, tra cui il cancro al seno, al pancreas e al colon, con una prevalenza che raggiunge il 50% in diversi organi.

La Poliposi Adenomatosa Familiare (FAP), invece, è una patologia genetica che colpisce il colon e il retto, portando alla formazione di più di 100 polipi adenomatosi. La mutazione del gene APC è la causa principale della malattia, la quale si manifesta tipicamente nelle decadi giovanili. Se non trattata, la FAP porta a un rischio quasi certo di sviluppare cancro del colon entro i 50 anni. In aggiunta, i pazienti con FAP possono presentare una serie di manifestazioni extracoloniche, tra cui tumori desmoidi, osteomi e anomalie dentarie.

Un’altra variante della FAP è la FAP attenuata, che si distingue per la presenza di meno di 100 polipi e una manifestazione più tardiva. Nonostante la ridotta quantità di polipi, anche i pazienti con FAP attenuata devono essere monitorati attentamente per prevenire lo sviluppo del cancro. Allo stesso modo, la MUTYH-associated polyposis (MAP), che condivide molte caratteristiche con la FAP attenuata, è una condizione autosomica recessiva causata dalla mutazione di entrambi gli alleli del gene MUTYH.

La sindrome di Gardner rappresenta un’altra espressione fenotipica della FAP, caratterizzata non solo dalla poliposi colica ma anche dalla presenza di fibromi cutanei, osteomi e cisti epidermiche. Questo spettro di manifestazioni rende la diagnosi clinica complessa, richiedendo una valutazione completa del paziente.

In termini di screening, è cruciale una diagnosi precoce per tutte le sindromi poliposiche. Nei casi di FAP, ad esempio, i bambini con storia familiare positiva dovrebbero sottoporsi a test genetici e sigmoidoscopie a partire dai 10-12 anni. Una volta individuati i polipi, è necessario procedere con una colonscopia completa e, quando i polipi raggiungono una certa entità, la colectomia è la scelta terapeutica indicata. L’analisi genetica del gene APC rimane il metodo più accurato per la diagnosi.

La gestione chirurgica dei pazienti con FAP dipende dalla gravità della poliposi e dalla presenza di neoplasie maligne. Le opzioni includono la proctocolectomia totale con ileostomia, l’ileoanastomosi o la resezione parziale del retto, a seconda della distribuzione dei polipi e dell’entità del danno.

Per quanto riguarda le neoplasie maligne del colon, i principi fondamentali per una resezione chirurgica mirano a garantire un ampio margine di resezione, un’adeguata asportazione del flusso vascolare e una corretta stadiazione dei linfonodi. La resezione laparoscopica, pur offrendo vantaggi come incisioni più piccole e minore dolore post-operatorio, richiede una competenza tecnica elevata e può essere meno adatta in casi di infiammazione acuta o recidive.

Infine, le neoplasie maligne del colon in stadio IV resezionabili richiedono un approccio multidisciplinare per ottimizzare le possibilità di sopravvivenza. La resezione dei tumori primari e delle metastasi, specialmente nel fegato e nei polmoni, ha mostrato benefici significativi in termini di durata della vita, mentre nelle metastasi peritoneali, la chirurgia citoriduttiva seguita da chemioterapia intraperitoneale ipertermica rappresenta un'opzione terapeutica avanzata.

Le poliposi intestinali, quindi, sono patologie complesse che richiedono una gestione integrata tra genetisti, chirurghi e oncologi per garantire una diagnosi precoce e un trattamento tempestivo, riducendo il rischio di progressione in tumori maligni e migliorando la qualità della vita dei pazienti.