Karl Marx non ha mai trattato la questione della nazione in modo sistematico, eppure, nei suoi scritti, le sue idee riguardanti la nazione e le relazioni internazionali si intrecciano in maniera significativa con la sua teoria del capitalismo e del comunismo. Il pensiero marxiano sul cosmopolitismo, purtroppo, è spesso frainteso o ridotto ad una semplice opposizione al nazionalismo. Tuttavia, una lettura attenta delle sue opere mostra che Marx non era contrario alla nazione come tale, ma piuttosto alle forme di globalizzazione che subordinano gli individui e le culture locali agli interessi economici globali.

Per Marx, la nazione non è un’entità legata all'unità etnico-linguistica, come molti nazionalisti sostengono, ma è una forma di organizzazione sociale che permette una scala adeguata per la produzione sociale e la sovranità popolare. Marx riconosce che la nazione è il luogo in cui si possono unire, senza sacrificio della propria identità, gruppi etnici anche molto differenti tra loro. In questo senso, la nazione è vista come una struttura che offre spazio per la pluralità, una condizione necessaria per garantire la libertà di sviluppo per tutti i suoi membri.

Marx non era un cosmopolita nel senso tradizionale del termine, quello che implica la dissoluzione delle differenze nazionali in un’unica entità universale. Il cosmopolitismo, per Marx, rappresenta una visione astratta di una politica universale che trascende le particolarità nazionali. Egli riteneva che questa visione globalista fosse inadeguata a risolvere i problemi concreti delle popolazioni oppresse, poiché ignorava le specificità storiche e sociali che definiscono ciascun gruppo e nazione. Piuttosto che cercare di unificare il mondo sotto un’unica bandiera cosmopolita, Marx promuoveva un internazionalismo che rispettasse la diversità delle singole nazioni, pur perseguendo una causa comune di liberazione contro il capitalismo.

L'internazionalismo marxiano non è una semplice ideologia che chiede l’abolizione degli stati-nazione in favore di un’unica comunità globale, ma è piuttosto la proposta di un'alleanza tra nazioni, dove ogni nazione mantiene la propria autonomia ma collabora con le altre per superare le ingiustizie economiche globali. L'internazionalismo marxiano cerca di evitare sia il conformismo che l’imposizione di una cultura dominante, proponendo una solidarietà tra popoli che riconoscono le proprie diversità, ma che lottano insieme per l’emancipazione sociale ed economica.

Marx pensava che il cosmopolitismo fosse incompatibile con il principio fondamentale della sovranità popolare, che egli considerava essenziale per la realizzazione della giustizia sociale. Secondo Marx, la libertà individuale non può essere realizzata in un sistema cosmopolita che riduce gli individui a semplici cittadini del mondo, privandoli della loro appartenenza a una comunità concreta. Al contrario, un internazionalismo che rispetti la sovranità delle nazioni e promuova la cooperazione tra di esse è, per Marx, il solo modo per costruire un mondo giusto, dove ciascun individuo possa svilupparsi liberamente all'interno della propria comunità.

Se Marx ha criticato la visione cosmopolita dominante, è anche perché riteneva che il cosmopolitismo capitalista tendesse a uniformare le differenze culturali e sociali, spingendo verso una globalizzazione che sfrutta le risorse umane e naturali senza considerare le necessità specifiche delle popolazioni locali. Il cosmopolitismo che Marx propone, invece, è un cosmopolitismo che, pur cercando l’unificazione politica globale, non sacrifica le peculiarità e le culture locali, ma le riconosce come parti indispensabili di un più ampio progetto di giustizia sociale.

Marx, quindi, non è contrario all'idea di una comunità mondiale, ma crede che questa debba nascere dal basso, dalla cooperazione tra stati-nazione che mantengano la loro autonomia politica, ma che operino insieme per il bene comune. Questo tipo di internazionalismo è fondato sulla solidarietà e sul riconoscimento delle differenze, piuttosto che sulla forzata omogeneizzazione dei popoli.

È importante anche sottolineare che Marx, nel criticare il cosmopolitismo, non intendeva negare il legame tra le nazioni, ma piuttosto respingeva ogni visione che riducesse le identità nazionali a mere astrazioni o interessi capitalisti globali. Il suo internazionalismo, quindi, non è contrario alla nazione, ma riconosce la necessità di una lotta collettiva che superi le disuguaglianze economiche e sociali tra i popoli. In questo senso, la sua concezione della nazione è compatibile con la lotta per un mondo più giusto e solidale, dove le differenze sono celebrate e non annullate.

Come la Filosofia Politica di James Tully Sfida il Cosmopolitismo e l’Imperialismo

La riflessione di James Tully sulla democrazia e sulla politica globale offre una prospettiva critica nei confronti delle nozioni consolidate di cosmopolitismo e imperialismo, intersecando la storia delle pratiche politiche con una visione dinamica delle realtà culturali e storiche. Per Tully, l'azione politica non è solo una questione di teorie politiche astratte, ma una pratica radicata nei dialoghi quotidiani e nelle esperienze vissute dai cittadini, che devono essere inclusi in un processo democratico continuo. Così, la democrazia, secondo Tully, non può essere semplicemente identificata con una teoria politica imposta da una classe elitaria, ma deve riflettere la molteplicità delle esperienze politiche che emergono da pratiche locali, indigene e storicamente contingenti.

L'elemento centrale della critica di Tully si trova nel suo rifiuto dell'approccio eurocentrico alla governance, che spesso esclude modelli di autogoverno non occidentali, come quelli basati sul diritto consuetudinario delle popolazioni indigene. A differenza della visione illuminista della ragione disincarnata e universale, Tully sostiene che ogni cittadino in una democrazia è in grado di diventare filosofo, proprio in virtù della sua capacità di mettere in discussione l'élite e di rifiutare la separazione tra teoria politica e pratica quotidiana. Questo approccio implica un'analisi delle alternative alla democrazia occidentale, che spesso non vengono adeguatamente riconosciute o comprese. L’esempio del Quebec Act del 1774, una politica britannica che ha permesso ai canadesi francesi di mantenere la loro lingua, religione e costumi pur rimanendo sotto l'Impero britannico, mostra come modelli di governance non occidentali possano persistere e resistere, fornendo materiali sociali e culturali per costruire alternative alla tradizione democratica dominante.

In questo contesto, la storia diventa uno strumento di critica fondamentale. Tully impiega la storia non come una narrazione lineare e inevitabile, ma come una risorsa che ci permette di rivedere e criticare le strutture di potere attuali. Il suo scopo è rivelare le pratiche politiche che sono state marginalizzate dalla filosofia politica occidentale, mostrando come molte di queste pratiche fossero in passato più consensuali e organiche rispetto ai modelli contemporanei fondati su diritti individuali e proprietà privata. La legittimità di un regime non dipende da uno standard oggettivo di "diritto", ma dalla capacità del regime di favorire pratiche politiche che generano sentimenti pubblici positivi e un ampio consenso.

Tully critica profondamente la concezione tradizionale del potere costituente, il concetto di "momento decisivo" nella costruzione delle nazioni, e la tendenza della filosofia politica occidentale a privilegiare un modello di democrazia rappresentativa che è, nella sua essenza, elitario e non partecipativo. La democrazia moderna, infatti, è caratterizzata da un sistema rappresentativo che riduce il coinvolgimento attivo dei cittadini, limitando così le possibilità di un autentico processo democratico. Questo modello di democrazia, che si fonda sulla separazione tra il popolo e la rappresentanza politica, è visto da Tully come una forma di "bassa intensità" che favorisce le élite e ostacola l'espressione genuina della sovranità popolare.

Tuttavia, Tully non vede nella globalizzazione solo un processo di omogeneizzazione culturale ed economica, ma anche una possibilità per le democrazie locali di organizzarsi e resistere contro le strutture imperialistiche. La globalizzazione, in quanto fenomeno complesso e contraddittorio, ha il potenziale di favorire la cooperazione tra gruppi locali e globali, creando nuovi spazi di azione politica e di interconnessione tra i popoli. Le tecnologie della comunicazione e la crescente consapevolezza dei legami internazionali tra gruppi e luoghi permettono oggi una mobilitazione a livello globale che sfida le strutture di potere tradizionali.

Tuttavia, è attraverso la critica al cosmopolitismo kantiano che Tully elabora la sua visione distintiva della politica globale. Kant, con il suo progetto di pace perpetua e il suo modello di stato repubblicano, ha avuto una notevole influenza sulle teorie politiche moderne, ma questa visione, secondo Tully, è radicata in una concezione imperialista del mondo. Il cosmopolitismo kantiano, che immaginava una federazione internazionale basata su un sistema di leggi globali, era intrinsecamente legato all'espansione imperiale europea. Il progetto kantiano di un ordine mondiale regolato da leggi universali è visto come una giustificazione filosofica per l'imperialismo, che ha portato all'espansione coloniale delle potenze europee.

La connessione tra il governo repubblicano e l'imperialismo è uno degli aspetti più critici nella filosofia politica di Kant. La sua concezione di sovranità e di diritto internazionale è, per Tully, parte di una più ampia ideologia che ha sostenuto la supremazia culturale e politica dell'Europa, legittimando così la sua espansione coloniale. Tully mostra come, nonostante il tramonto del colonialismo diretto, molte delle strutture imperiali continuino a esistere attraverso relazioni economiche globali e istituzioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale.

In definitiva, la riflessione di Tully invita a riconsiderare le fondamenta della nostra comprensione della democrazia, del cosmopolitismo e dell’imperialismo. Solo riconoscendo le radici storiche e le dinamiche di potere che continuano a modellare la politica globale, possiamo immaginare forme di governance che siano veramente inclusive, rispettose della pluralità culturale e in grado di affrontare le sfide del mondo contemporaneo.