Dal punto di vista delle politiche economiche internazionali, le reazioni appropriate possono variare notevolmente a seconda del contesto. Se il "Trumpismo" è visto come un fenomeno transitorio, la risposta a politiche populiste in altre regioni dell'economia mondiale appare diversificata. Una definizione utile di populismo è stata proposta da Dornbusch ed Edwards (1991) nel loro lavoro "The Macroeconomics of Populism in Latin America": il populismo si caratterizza per un forte orientamento alla redistribuzione del reddito, senza considerare appieno i rischi per la stabilità economica derivanti da aumenti significativi della spesa pubblica, dal finanziamento inflazionistico dei programmi governativi e dalle politiche che ignorano gli aggiustamenti del mercato.

A partire dagli anni '60, sempre più paesi hanno aperto le loro economie al commercio internazionale, abbattendo le barriere tariffarie grazie alle negoziazioni nei vari cicli del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) e successivamente nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). L'OMC gioca un ruolo cruciale nel risolvere pacificamente i conflitti commerciali internazionali e nel ridurre le barriere tariffarie a livello globale. L'OMC, insieme al Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alla Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI), costituisce una delle principali organizzazioni internazionali che promuovono la liberalizzazione commerciale.

La globalizzazione del commercio dovrebbe portare a una convergenza economica internazionale dei redditi pro capite, in linea con la logica del teorema di Heckscher-Ohlin. Questo teorema, che assume l'uguaglianza della tecnologia nei vari paesi, suggerisce che le nazioni si specializzino secondo il loro vantaggio comparato: i paesi relativamente ricchi di capitale (come gli Stati Uniti o l'Unione Europea) produrranno e esportano beni ad alta intensità di capitale, mentre i paesi abbondanti di lavoro (come il Bangladesh) si concentreranno sulla produzione di beni a bassa intensità di capitale. La relazione tra capitale e lavoro fornisce un buon indicatore del grado di dotazione relativa di ciascun paese.

La Cina ha aperto la sua economia al commercio nel 1978 e solo nel 2001 è diventata membro dell'OMC. Tuttavia, l'approccio di Heckscher-Ohlin non considera la mobilità internazionale dei fattori di produzione, come il capitale e il lavoro, fenomeno che in realtà ha caratterizzato l'economia globale dal 1970 in poi (escludendo la Cina). Insieme al commercio, altre forze globalizzanti come gli investimenti diretti esteri (IDE), l'espansione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT) e la migrazione internazionale, hanno aumentato il flusso di capitali e il reddito medio pro capite a livello globale.

Tuttavia, la globalizzazione ha anche accresciuto la dispersione del reddito in molti paesi. Sebbene ci sia stata una mobilità economica verso l'alto in alcuni settori, sono emerse anche dinamiche di impoverimento in altri, specialmente in quei paesi che hanno visto un'alta immigrazione di individui a basso reddito. In questo contesto, la globalizzazione economica si è sviluppata sia attraverso la liberalizzazione del commercio che attraverso flussi di investimenti diretti esteri da parte dei paesi dell'OCSE e flussi inversi di IDE. Questi investimenti esteri portano trasferimenti tecnologici nei paesi ospiti, accrescendo la produttività del lavoro e del capitale.

In breve, le dinamiche di crescente disuguaglianza negli Stati Uniti e in altri paesi OCSE si possono riassumere come segue: l'ICT e la robotica rafforzano la quota di reddito del capitale. Ciò accade, in parte, grazie alla capacità dei prodotti ICT di essere venduti come beni differenziati, e all'interno di un contesto di alta innovazione digitale e di effetti di rete, che enfatizzano l'importanza del capitale rispetto al lavoro. L'espansione digitale, infatti, comporta un aumento del tasso di profitto nel settore e una riduzione della quota di reddito derivante dal lavoro. Questo fenomeno è spesso accompagnato da economie di scala e da effetti di rete che incrementano il potere di mercato nel settore, portando a un aumento dei margini di profitto.

La globalizzazione finanziaria, che implica tassi di interesse reali più bassi, favorisce in particolar modo le famiglie con un reddito da lavoro relativamente elevato e quelle già in possesso di una notevole ricchezza, che possono offrire garanzie richieste per ottenere prestiti bancari. Al contrario, i lavoratori meno qualificati sono i maggiori perdenti di queste dinamiche di globalizzazione digitale e finanziaria. In molti casi, i lavoratori sono stati sfruttati da pratiche bancarie anti-competitive, come il raggruppamento di prestiti e assicurazioni di protezione dei pagamenti, un fenomeno che ha contribuito a una globalizzazione finanziaria ingiusta. La risposta a queste problematiche potrebbe derivare da politiche nazionali o internazionali di concorrenza che impongano requisiti di "scorporo", una misura che in Germania è stata adottata solo recentemente nel 2016.

Il progresso tecnologico, in particolare quello basato su ICT, ha un impatto sbilanciato sul mercato del lavoro, aumentando la domanda di lavoro qualificato. Le evidenze empiriche, come quelle di Jaumotte et al. (2008), confermano che l'uso crescente delle tecnologie ICT nelle economie moderne aumenta la domanda di lavoratori specializzati e contribuisce a un divario crescente tra i salari dei lavoratori qualificati e non qualificati.

Anche se la globalizzazione commerciale contribuisce alla convergenza economica dei paesi del Sud, la globalizzazione finanziaria tende a favorire i lavoratori qualificati, poiché il progresso tecnologico, basato su ICT, innalza la domanda di lavoro specializzato in quasi tutti i paesi. Inoltre, l'aumento degli investimenti diretti esteri (IDE) e degli investimenti internazionali in portafogli comporta una riduzione efficace della tassazione sul reddito da capitale, come evidenziato da studi per il caso della Svizzera. Il reddito derivante dall'estero è tassato a tassi effettivi inferiori rispetto a quello nazionale, con una possibile aggiunta di un premio di rischio sul reddito proveniente dall'estero.

Le lacune nei dati sugli IDE sono significative, anche nei paesi OCSE. Una parte di queste lacune riguarda la ricchezza offshore nascosta, un aspetto che solleva dubbi sull'affidabilità delle statistiche ufficiali e che apre nuove questioni sull'analisi empirica dei risparmi e degli investimenti internazionali.

Come la disuguaglianza economica e le politiche sociali modellano il futuro globale

Nel corso della storia, le politiche economiche e sociali sono state influenzate da un continuo gioco di forze interne ed esterne. Questo è stato particolarmente evidente nel contesto della globalizzazione, che ha modificato profondamente le strutture economiche in tutto il mondo. La crescente disuguaglianza economica negli Stati Uniti, per esempio, ha avuto effetti diretti sul benessere sociale e ha alimentato il populismo, come è stato evidente nelle elezioni presidenziali del 2016. Sebbene gli Stati Uniti siano tra i paesi più ricchi del mondo, la distribuzione della ricchezza non è mai stata così sbilanciata, con il 1% più ricco che ha visto un incremento sostanziale delle proprie entrate, mentre il reddito della classe media è rimasto stagnante per anni.

Il divario tra il reddito medio delle famiglie americane e quello di altre nazioni industrializzate come la Germania e la Francia è un altro aspetto interessante. Il reddito medio annuo negli Stati Uniti, all'inizio del ventunesimo secolo, era di circa 57.000 dollari, ma quando si considerano le spese sanitarie, che rappresentano una parte significativa del reddito, l'effettivo potere di acquisto delle famiglie statunitensi si riduce drasticamente. In Francia e in Germania, le spese sanitarie rappresentano una percentuale inferiore del reddito, e le vacanze, che sono di durata maggiore, offrono un sollievo non indifferente. Inoltre, questi paesi presentano una speranza di vita più lunga rispetto agli Stati Uniti, che non solo è inferiore in termini di longevità, ma anche segnata da una mortalità infantile più alta.

Il dato sulla mortalità infantile è particolarmente significativo, poiché negli Stati Uniti è rimasto costantemente più elevato rispetto a quello dei paesi dell'Europa occidentale fin dal 1985. Questo scarto, che si è accumulato nel corso dei decenni, implica che, se gli Stati Uniti avessero avuto tassi di mortalità infantile simili a quelli dei paesi europei, la popolazione sarebbe di circa 50 milioni più numerosa. La disparità tra questi indicatori di benessere tra le nazioni non è solo una questione di politiche sanitarie, ma riflette anche l'efficacia delle strutture politiche ed economiche che ciascun paese adotta per affrontare le sfide demografiche e sanitarie.

Nel contesto europeo, le politiche di welfare e di integrazione sociale hanno avuto un ruolo fondamentale nel ridurre la disuguaglianza economica. Il modello europeo di solidarietà e redistribuzione ha contribuito a una maggiore equità e a una vita di qualità superiore per molte persone. Tuttavia, anche l'Europa ha dovuto fare i conti con le sfide globali, come la globalizzazione dei mercati e la crescente competitività internazionale, che hanno reso necessarie riforme per garantire che i benefici della crescita economica siano distribuiti in modo più equo.

Questo scenario, tuttavia, è stato messo sotto pressione dal recente populismo, che ha eroso il consenso verso le istituzioni internazionali e ha alimentato il discredito verso l'Unione Europea. Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno intrapreso una politica di riduzione della partecipazione a organizzazioni internazionali, come l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), e hanno messo in discussione il valore dell'integrazione regionale europea. La posizione di Trump ha suscitato preoccupazione, poiché ha indebolito le forze che avevano tradizionalmente promosso la cooperazione internazionale e il multilateralismo.

In questo contesto, è essenziale riconoscere che il populismo non è un fenomeno temporaneo, ma una risposta diretta alle disuguaglianze persistenti e alla percezione che l'establishment politico ed economico non sia in grado di affrontare le sfide contemporanee. L’ascesa di leader populisti può essere vista come una reazione a politiche economiche che non riescono a garantire una crescita inclusiva e a sostenere il benessere delle persone più vulnerabili. Le promesse di protezionismo, di sovranismo economico e di chiusura rispetto alle dinamiche globali non sono la soluzione a lungo termine, ma riflettono una profonda frustrazione che richiede attenzione.

Nel futuro, sarà necessario un equilibrio tra le politiche economiche globali e locali, tra il commercio internazionale e la protezione dei diritti sociali. I governi dovranno essere in grado di rispondere alle sfide della globalizzazione senza compromettere i diritti e il benessere delle persone. La cooperazione internazionale, piuttosto che l'isolamento, rappresenta la strada per garantire un futuro più prospero e stabile, e ciò implica la creazione di politiche che siano inclusive, che proteggano i più deboli e che siano orientate alla sostenibilità.

Le dinamiche della globalizzazione, della crescita economica e dell'innovazione: implicazioni per le politiche di sostenibilità globale

L’economia globale, nel suo continuo evolversi, ha portato con sé una crescente interconnessione tra paesi e continenti. Tale interconnessione ha fatto sì che le dinamiche economiche di una nazione possano influenzare profondamente quelle di un’altra, come nel caso delle relazioni economiche tra Stati Uniti e Canada, che possono essere esemplificate anche attraverso il confronto con l'Eurozona. Questi legami, tuttavia, non sono privi di contraddizioni, in particolare quando si tratta di questioni di equità sociale, distribuzione della ricchezza e sostenibilità economica.

Il Canada, pur essendo fortemente legato agli Stati Uniti dal punto di vista commerciale – circa il 75% delle esportazioni canadesi vanno negli Stati Uniti – si distingue per una maggiore attenzione verso il benessere sociale e la ridistribuzione del reddito. Questo aspetto è evidente quando si analizzano gli indici di disuguaglianza tra i due paesi. Utilizzando il LIMEW (Levy Institute Measure of Economic Well-Being), che va oltre il tradizionale concetto di reddito di mercato per includere anche la ricchezza non abitativa e la produzione domestica, si osserva che, nel periodo 2004-2005, il Gini Index per il Canada era significativamente più basso (28,5) rispetto a quello degli Stati Uniti (37,6), indicando una minore disuguaglianza economica.

Il contrasto tra i due paesi diventa ancora più evidente quando si confrontano i dati sul reddito disponibile. Gli studi mostrano che le famiglie canadesi, in particolare quelle appartenenti al 35% più basso della scala sociale, hanno beneficiato di una maggiore redistribuzione rispetto alle controparti statunitensi. L’incremento della disuguaglianza negli Stati Uniti, in particolare dopo le riforme fiscali di Trump nel 2017, ha esacerbato ulteriormente la polarizzazione del reddito, un fenomeno sottolineato anche dal Fondo Monetario Internazionale. L’impatto delle politiche fiscali statunitensi è tale che le riforme hanno favorito maggiormente le fasce più alte della popolazione, incrementando le disuguaglianze, piuttosto che ridurle.

Un altro punto cruciale riguarda la natura del sistema di welfare. In Canada, la redistribuzione fiscale è più incisiva rispetto agli Stati Uniti, dove la disuguaglianza è mitigata solo in misura inferiore attraverso misure governative. Infatti, nel caso del Canada, la redistribuzione dei redditi riduce la disuguaglianza di circa il 28%, rispetto al 23% negli Stati Uniti. La forza di un sistema di welfare solido è evidente: il Canada dimostra che è possibile conciliare una forte relazione economica con gli Stati Uniti senza rinunciare a politiche di welfare più inclusive.

Nel contesto globale, queste dinamiche non si limitano ai confini di una singola nazione, ma si inseriscono in un quadro più ampio di sostenibilità economica globale. La globalizzazione ha portato a una crescente domanda di politiche economiche che possano affrontare la disparità tra ricchi e poveri, così come le sfide ambientali e sociali. La sostenibilità globale, quindi, non è solo una questione di politica ecologica, ma anche di giustizia sociale ed economica. L'Europa, sebbene abbia affrontato la propria serie di sfide economiche interne, potrebbe beneficiare di una maggiore cooperazione in ambito sociale con paesi come il Regno Unito, soprattutto dopo un'eventuale separazione dalla UE, come nel caso di una Brexit senza accordo.

In definitiva, la crescita economica globale, benché possa portare benefici in termini di innovazione e sviluppo, presenta anche sfide significative. La polarizzazione dei redditi e l’incremento della disuguaglianza sociale sono effetti collaterali preoccupanti che richiedono un’attenta riforma delle politiche fiscali e redistributive, come quelle proposte dal sistema canadese o dall'Unione Europea. Tuttavia, tale riforma non deve limitarsi a un singolo paese, ma deve essere considerata come parte di un impegno collettivo a livello globale per garantire una prosperità più equa e sostenibile.

Quali sono gli effetti della globalizzazione e del protezionismo sulle economie moderne?

La globalizzazione, da fenomeno economico e politico dominante degli ultimi decenni, ha prodotto effetti contrastanti sulle economie globali, portando alla crescita dei mercati emergenti, ma anche esponendo i settori industriali tradizionali a sfide mai viste prima. La polarizzazione del mercato del lavoro, il declino della classe media e l’ineguaglianza economica sono fenomeni strettamente legati all’apertura dei mercati, ma anche alla crescente instabilità delle politiche interne dei vari paesi.

Negli Stati Uniti, ad esempio, le politiche di libero scambio e di apertura dei mercati hanno avuto impatti notevoli sulle economie locali, con conseguenti perdite di posti di lavoro nel settore manifatturiero e la concentrazione di ricchezze in segmenti ristretti della popolazione. Come sottolineato da Blinder (2019) nella sua analisi del paradosso del libero scambio, la libera circolazione di merci ha stimolato la crescita economica globale, ma ha anche esacerbato le disuguaglianze all’interno dei singoli stati. L’incremento dei flussi di capitali e la mobilità delle imprese hanno permesso alle multinazionali di sfruttare economie di scala enormi, ma a costo della scomparsa di intere categorie di lavoro tradizionali.

Le conseguenze di questi fenomeni non si limitano agli Stati Uniti. L’Europa, in particolare, ha visto una crescente polarizzazione del mercato del lavoro, come documentato da Breemersch et al. (2017), con l’ingresso della Cina nel mercato globale come attore primario, la quale ha intensificato la competizione sulle merci a basso costo, minando le posizioni lavorative nei settori a bassa qualificazione. Il declino dei posti di lavoro in questi settori non ha fatto altro che alimentare l’insoddisfazione politica e l’ascesa di movimenti populisti che chiedono la protezione dei mercati nazionali.

Il protezionismo, dunque, si presenta come una risposta a una globalizzazione percepita come iniqua. L'uso di tariffe doganali e la reintroduzione di misure protezionistiche non sono fenomeni nuovi, ma oggi sono alimentati da un contesto globale dove le economie sono sempre più interconnesse. Il protezionismo non riguarda solo il blocco delle merci, ma anche la difesa di politiche interne che tentano di fermare l'esodo di capitali e il declino di settori strategici. Ma la domanda cruciale resta: il protezionismo rappresenta davvero una via d'uscita efficace dai problemi generati dalla globalizzazione?

Le evidenze mostrano che il protezionismo ha effetti negativi a lungo termine, creando inefficienze nel mercato globale, ma anche acutizzando le disuguaglianze. Secondo gli studi di Dauth et al. (2017), la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, ad esempio, ha avuto effetti collaterali devastanti su molte economie europee, che si sono trovate schiacciate tra le politiche espansionistiche di una superpotenza e le dinamiche interne di protezione. La reintroduzione di tariffe su prodotti chiave ha aumentato il costo delle materie prime, con effetti devastanti per settori già fragili.

Il fenomeno della polarizzazione, tanto economica quanto politica, è forse uno degli aspetti più pericolosi di questa epoca di incertezze. La crescente divisione tra i vincitori e i perdenti della globalizzazione sta minando la coesione sociale in molti paesi, con l'emergere di narrazioni populiste che offrono risposte facili a problemi complessi. L'insegna del nazionalismo economico, che sembra promettere soluzioni rapide e immediate, spesso non fa che allontanare i paesi dal vero problema: come creare un sistema economico che possa supportare una crescita inclusiva, che benefici ampie fasce della popolazione.

In questo scenario, la questione della mobilità intergenerazionale diventa centrale. I lavori di Corak (2006) mostrano come la disuguaglianza economica, alimentata dalla globalizzazione e dalle politiche neoliberali, limiti le opportunità per le generazioni future di migliorare la propria condizione sociale e economica. La mobilità intergenerazionale è uno degli indicatori più forti del benessere di un paese: quando questa è limitata, si aprono le porte a un crescente malcontento e alla disillusione sociale.

Inoltre, non va sottovalutato l’impatto delle tecnologie digitali. L’automazione e l'intelligenza artificiale, se da un lato promettono vantaggi in termini di produttività e innovazione, dall'altro stanno riducendo le opportunità di lavoro nelle professioni meno qualificate. La velocità del cambiamento tecnologico non è sempre accompagnata da adeguati programmi di riqualificazione professionale, come evidenziato da Fouarge et al. (2013). In questo contesto, la formazione continua diventa essenziale per ridurre il rischio di esclusione dal mercato del lavoro e attenuare la polarizzazione sociale.

È fondamentale comprendere che le dinamiche di globalizzazione e protezionismo non si possono esaminare separatamente dalla politica interna di ogni nazione. Le decisioni economiche, come quelle relative alle tariffe e agli scambi commerciali, sono sempre influenzate da motivazioni politiche che vanno oltre l’interesse economico immediato. La vera sfida consiste nel riuscire a gestire queste tensioni, promuovendo politiche che possano mitigare gli effetti negativi della globalizzazione senza ricorrere a misure che possano alimentare conflitti sociali interni.