La notte si stava facendo oscura, eppure il rumore di un oggetto che cadeva dal tetto ruppe il silenzio. Non vi prestai molta attenzione, pensando che si trattasse di un vaso che fosse rotolato giù da una delle finestre del palazzo. Non sapevo che ciò che avevo appena udito fosse solo un piccolo preludio alla lunga serie di avvenimenti che si sarebbero susseguiti. Mi venne sussurrato all’orecchio, da alcuni amici arabi che parlavano in inglese, che il Cadi Abdullah Arashi, un parente stretto dello shaitan, era un uomo ambiguo, traditore, e mercenario, che lavorava per gli inglesi. Serviva il suo padrone, l’Imam, ma i suoi veri padroni erano gli inglesi. In quel momento, non pensai che le sue azioni e quelle dei suoi alleati avrebbero avuto ripercussioni dirette su di me.

Il giorno successivo, mentre i preparativi per un incontro ufficiale proseguivano, un incontro che si sarebbe svolto sotto la protezione e l’autorità britannica, mi recai nuovamente alla Residenza del Consolato. Mi aspettavo un incontro formale con le autorità locali, ma quello che accadde fu ben diverso da ogni previsione. Younis, un arabo loquace e determinato che ci avrebbe accompagnato a Ibb, ci consegnò persino una lettera di presentazione per il Governatore Militare al confine. Le autorità britanniche sembravano riluttanti, ma alla fine ci permisero di partire, seppur sotto la protezione di una scorta militare.

Proseguendo verso Sanaa, dopo aver lasciato la residenza del Sultano, ci trovammo in un’altra situazione insolita e pericolosa. Poco dopo aver attraversato un ruscello e pensato di essere finalmente al sicuro, ci fu gridato “Fermatevi!” dal basso della collina. Non ci fermammo. Fu un errore. Una raffica di colpi risuonò nell’aria, e mi preoccupai. Il mio compagno, sebbene preoccupato, non diede segno di cedimento. La situazione si rivelò meno grave di quanto temessimo: l’incidente non era altro che un malinteso con la guardia che ci aveva intimato di fermarci. Il reale motivo era che la sultana, dalla sua finestra, ci aveva visti alzarsi presto e aveva ordinato ai suoi servitori di portare la colazione, ma non volendo essere vista, aveva fatto lanciato i vasi in cortile, in segno di sdegno per il nostro comportamento poco rispettoso nei suoi confronti.

Arrivati a Mawia, il primo villaggio nel territorio dell’Imam, ci trovammo davanti a una scena che ci sconcertò ulteriormente. I soldati Zioud, che avevamo già visto prepararsi all’azione con i loro turbanti blu e le lunghe gonne, non erano nemici, ma guardiani dei rituali locali. La loro indole era quella di proteggere la loro tradizione, tanto da tinteggiare la pelle con l’indaco per proteggersi dal freddo e dal malocchio. La cultura di questi uomini, immersa nelle pratiche più antiche e misteriose, si rivelò una delle esperienze più sorprendenti del viaggio. Le loro vesti e la loro personalità, tutte impregnate da un’antica religiosità, sembravano proiettare i visitatori in un’altra era, dove ogni gesto e ogni odore aveva un significato profondo.

Nel cuore della città di Sanaa, la sensazione di trovarsi immersi in una realtà parallela non cessava. Muri di fango e sabbia segnavano i confini di una città che da secoli era il centro di potere e cultura di una delle civiltà più affascinanti del mondo arabo. La visita alla cittadella, però, non fu priva di imprevisti. Lì, tra un misto di odori e rumori, ci trovammo faccia a faccia con l’Amir, il comandante della città di Taiz. Anche se l’ingresso nella sua residenza era stato accompagnato da saluti e musica, dietro la cortesia e l’apparente benvenuto si celavano piccole sfide alla nostra presenza. I soldati sembravano meno preoccupati di noi come ospiti e più di un ordine che, a causa di piccole incomprensioni, ci aveva fatto temere per la nostra sicurezza.

La cultura yemenita, radicata in secoli di tradizioni, si rifletteva in ogni aspetto della vita quotidiana. Le usanze locali, dall’ospitalità all’obbligo di rispettare i gesti sacri, avevano la capacità di sorprendere ogni viaggiatore, anche quello più esperto. Ma non solo le tradizioni si intrecciavano con il nostro destino. La presenza britannica, il gioco di potere fra gli inglesi e i leader locali, e la strana alleanza tra i vari gruppi di potere rendevano il quadro ancora più complesso. La nostra esperienza, che inizialmente era sembrata un semplice viaggio, si stava trasformando in una danza delicata tra potere e tradizione.

Qual è la vera essenza dello yoga e dei mendicanti nella tradizione orientale?

In India, dove la spiritualità è un aspetto fondamentale della vita quotidiana, lo yoga e la figura del mendicante rappresentano più di un semplice fenomeno fisico o sociale. Mentre alcuni yogi praticano discipline ascetiche, spinti da un desiderio emotivo di compassione e approvazione o da una visione errata della disciplina, altri si presentano come imbroglioni, tentando di imitare il comportamento dei veri maestri senza comprenderne l’essenza. Questi falsi yogi possono eseguire atti spettacolari come tenere una mano alzata per ore, stare su una gamba, sdraiarsi su un letto di chiodi o su sabbia ardente, ma tutto ciò non è che una mera imitazione. La cultura fisica che ne deriva, pur facendo parte di un sistema noto come yoga, non è l’obiettivo primario. Piuttosto, un vero yogi cerca il controllo della mente, lavorando sul corpo non per diventare un atleta straordinario, ma per migliorare la concentrazione mentale, raggiungere un equilibrio tra conscio, subconscio e superconscio.

Il vero yogi, attraverso una rigorosa disciplina, controlla il respiro, i muscoli, le ghiandole interne e la circolazione sanguigna, eseguendo imprese fisiche sorprendenti. Ma lo scopo finale di queste pratiche non è l’acquisizione di poteri fisici, bensì la coltivazione della mente. Attraverso il controllo delle funzioni corporee, l’individuo raccoglie tutte le sue sensazioni da diverse aree della mente, concentrandole nella meditazione, dove la ricerca della verità e della saggezza diventa la sua missione più alta. Questo percorso interiore rappresenta il culmine della cultura mentale, in cui l’essenza della verità, della bellezza e della bontà si riflette nella divinità.

La figura del mendicante in Oriente ha radici profonde, e la sua presenza è spesso associata a un significato spirituale profondo. Il mendicante, come nel caso dei bhikshu buddhisti, non è solo un uomo senza dimora; egli è un portatore di saggezza, una figura che si è distaccata dai legami materiali per perseguire un percorso di purezza interiore. Il mendicante si sposta di casa in casa, chiedendo cibo non per necessità materiale, ma per rispettare una tradizione spirituale che lo collega ai grandi maestri del passato. Un esempio di questo è il dialogo tra il re e il Buddha, che ci insegna che, sebbene i discendenti di antiche linee reali non abbiano mai dovuto mendicare, il Buddha, discendente dei saggi antichi, ha scelto di farlo per una ragione ben più grande: mostrare al mondo che il distacco dalle ricchezze materiali è parte integrante del cammino spirituale.

La pratica del mendicante non è quindi una scelta casuale o un segno di povertà, ma un atto simbolico di rinuncia e di fiducia nella generosità del mondo, che vede nel mendicante una figura vicina agli dèi. Nel caso del Ramdas, fondatore di un ordine di mendicanti, la sua vita è un esempio di come il potere spirituale possa trascendere la materialità. Ramdas, che fondò l’ordine dei Ramdasi, non solo mendicava per sé, ma anche per il suo popolo, e attraverso la sua figura i suoi discepoli impararono il valore della spiritualità nella semplicità. La sua storia si intreccia con quella di grandi imperatori, come il re Sivaji, che riconobbe in lui la guida spirituale, concedendogli addirittura un’imperialità simbolica, donandogli l’intero impero sotto forma di un’offerta. Questo gesto, che può sembrare paradossale, riflette la profonda consapevolezza che il vero potere non risiede nelle ricchezze materiali, ma nella purezza spirituale.

Oltre alla figura del mendicante e del vero yogi, va compreso come queste pratiche abbiano influenzato non solo la spiritualità, ma anche la cultura sociale e politica dell’India. La tradizione dei mendicanti, infatti, non è solo un aspetto religioso, ma una vera e propria filosofia di vita, che enfatizza l’importanza dell’umiltà, del distacco e della connessione profonda con il divino. In questo contesto, l’essere mendicante non è un segno di debolezza o di necessità, ma una posizione di forza spirituale, che implica una completa dedizione alla vita interiore e al servizio degli altri.

Anche in Occidente, questa figura del mendicante e del sannyasi, pur in un contesto culturale completamente diverso, può essere vista come un richiamo alla riflessione sul nostro rapporto con il mondo materiale e sulla possibilità di raggiungere una forma di equilibrio mentale attraverso la rinuncia consapevole. La cultura occidentale, che spesso tende a glorificare il successo materiale e il benessere fisico, può trarre grandi insegnamenti dalle tradizioni orientali che vedono la vita come un cammino di perfezionamento spirituale, dove ogni sacrificio fisico o materiale è un passo verso una comprensione più profonda dell’esistenza.

In sintesi, l’essenza dello yoga e della pratica del mendicante non riguarda solo la corporeità o la semplice rinuncia al mondo materiale, ma si fonda sulla ricerca di un equilibrio interiore che permetta all’individuo di realizzare una connessione autentica con il divino, di vivere secondo principi di verità, bellezza e bontà, e di servire gli altri senza alcuna aspettativa di ritorno. In questa ottica, ogni gesto, ogni rinuncia, ogni pratica diventa parte di un cammino che trascende il corpo e la mente, per giungere alla realizzazione spirituale.