La difficoltà nella completa degradazione e mineralizzazione delle sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) è ben documentata, poiché i processi di rimedio tradizionali richiedono tempi lunghi e non sono sempre completamente efficaci. Ad esempio, uno studio di Tseng, Wang, Szostek e Mahendra (2014) ha esaminato l'uso del fungo ligninolico Phanerochaete chrysosporium per la degradazione del 6:2 FTOH (alcool fluorotelomero 6:2). Questo fungo è stato in grado di trasformare il 50% del 6:2 FTOH in 28 giorni. Sebbene la biodegradazione rappresenti un approccio ecologico (green chemistry), la sua capacità di mineralizzare e defluorinare completamente i PFAS non offre vantaggi immediati e richiede ulteriori ricerche per essere implementata con maggiore efficienza.

Un altro approccio emergente è quello basato sull'uso del plasma, un gas parzialmente o completamente ionizzato generato da una scarica elettrica tra due elettrodi. Il plasma contiene radicali liberi, ioni, neutroni liberi ed atomi in stato di massima energia. A seconda della temperatura e della densità degli elettroni, il plasma può essere classificato in due gruppi principali: plasma termico e plasma non termico (NTP). Studi precedenti hanno dimostrato che il plasma non termico (NTP) è più efficace nella distruzione dei PFAS a pressione atmosferica rispetto al plasma termico. Inoltre, il NTP risulta essere compatibile con vari gas come He, Ne, Ar, O2 e N2, aumentando così l'efficienza energetica e la selettività dell'eccitazione (Palma et al., 2022). Tecniche di scariche elettriche, come le scariche corona, le scariche a glow, le scariche a scintilla e le scariche a barriera dielettrica, vengono utilizzate per generare il plasma.

Quando si verifica una scarica elettrica, l'energia viene trasferita agli elettroni, aumentando la loro temperatura. In seguito, ioni, radicali, elettroni e fotoni vengono generati da collisioni con gli atomi presenti nel gas (Jovicic et al., 2018; Leung et al., 2022). Il gruppo PFAS viene adsorbito all'interfaccia della bolla d'acqua, dove gli ioni in stato energetico elevato nel plasma collidono con la parte caricata positivamente o negativamente del PFAS. Questo processo porta alla mineralizzazione completa dei PFAS senza l'uso di additivi (Palma et al., 2022). In uno studio condotto da Hayashi, Obo, Takeuchi e Yasuoka (2015), l'uso del plasma DC in presenza di bolle di ossigeno ha portato alla degradazione completa di PFOA (41,4 ppm) e PFOS (60 ppm) in un ambiente acquatico, rispettivamente dopo 3 e 8 ore di operazione. Questo studio ha proposto un meccanismo in 4 fasi che include la collisione tra i PFCA negativamente caricati e gli ioni ad alta energia generati dal plasma, la formazione di radicali instabili, la reazione di decarbossilazione che porta alla produzione di CO2 e radicali fluorocarbonici, e infine la reazione dei radicali fluorocarbonici con l'acqua, producendo PFCAs accorciati.

Tuttavia, nonostante l'efficacia convincente della tecnica plasmatica, essa è sensibile a contaminanti coesistenti come la concentrazione di nitrati, specialmente quando si trattano matrici acquatiche reali e variazioni di pH. Il percorso di reazione per la mineralizzazione dei PFAS mediante plasma è ancora poco compreso e necessita di ulteriori ricerche (Meegoda et al., 2022).

Le radiazioni gamma, che fanno parte dello spettro elettromagnetico, sono onde elettromagnetiche molto energetiche che possono derivare dalla disintegrazione dei nuclei atomici radioattivi (Bagher, 2014). Questa tecnologia sfrutta il 60Co come fonte di emissione e può produrre numerosi radicali, come *OH, H e elettroni idratati (e−aq) attraverso la radiolisi dell'acqua (Trojanowicz et al., 2020). Le radiazioni gamma possono penetrare profondamente nell'ambiente acquatico, generando considerevoli quantità di OH e e−aq rispetto ad altri metodi. Inoltre, questa tecnica non richiede additivi per mineralizzare completamente i contaminanti (Getoff, 1996; Wojnárovits & Takács, 2008). In uno studio condotto da Ze Zhang et al. (2014), è stato osservato che il PFOA è stato completamente mineralizzato in un ambiente con pH alcalino (~13) sotto un'atmosfera saturata di N2, con produzione di CO2 e fluoro. Secondo i risultati sperimentali e le simulazioni chimiche quantistiche, i radicali OH ed e−aq erano insufficienti da soli per mineralizzare le molecole di PFOA, suggerendo un effetto sinergico tra i due specie reattive.

Tuttavia, l'uso delle radiazioni gamma presenta alcuni svantaggi, come l'intensità che diminuisce nel tempo a causa della radiazione continua e la preoccupazione per i rischi per la salute del personale che gestisce questa tecnologia (Ze Zhang et al., 2014).

In risposta alle sfide che derivano dall'uso di singole tecnologie per la rimozione dei PFAS, sono emerse tecniche ibride che combinano più approcci di decontaminazione per migliorare l'efficienza e superare le limitazioni. Ad esempio, il trattamento a "treno" (tandem treatment) combina misure di bonifica sia in situ che ex situ. Un esempio di questa strategia è lo sviluppo di una tecnica che separa e distrugge l'acido perfluoroesanoico (PFHxA) derivante dalle acque di processo industriali. In questo caso, un processo di nanofiltrazione (NF) è stato utilizzato per separare PFHxA, che è stato poi degradato elettrochimicamente. Sotto condizioni ottimizzate (pressione di 10 bar e pH 7), il 98% del PFHxA è stato rimosso, mentre il 98% del PFHxA concentrato è stato successivamente degradato in un cella equipaggiata con un elettrodo BDD in circa 1,5 ore di elettrolisi.

Le tecniche ibride offrono un approccio promettente per la rimozione e mineralizzazione dei PFAS, permettendo di combinare le fasi di separazione con quelle di degradazione, ottimizzando l'efficienza e riducendo i costi operativi, ma richiedono una gestione attenta dei diversi parametri di processo.

Come gestire la contaminazione da PFAS nel suolo: tecniche e sfide della bonifica ambientale

La gestione della contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) nel suolo rappresenta una delle sfide ambientali più complesse degli ultimi decenni. Questi composti chimici, noti per la loro alta stabilità e resistenza alla degradazione, si accumulano facilmente nell'ambiente, minacciando la salute degli ecosistemi e degli esseri viventi. Le strategie per rimuovere o ridurre i PFAS dal suolo sono ancora in fase di sviluppo, ma la ricerca suggerisce che le tecniche di bonifica devono essere studiate e adattate per affrontare le caratteristiche uniche di questi contaminanti.

Una delle soluzioni promettenti per trattare il suolo contaminato da PFAS è il processo di redistribuzione di queste sostanze dalla fase liquida a quella solida. Questo approccio potrebbe ridurre la mobilità e la biodisponibilità dei PFAS nel suolo, limitando così i rischi associati alla loro contaminazione. Tuttavia, sebbene questa tecnica appaia come una possibilità economica, la sua efficacia deve ancora essere verificata su larga scala, in quanto l'interazione tra i PFAS e i componenti del suolo è estremamente complessa. Le ricerche sono ancora in corso per capire meglio come questi composti si legano al suolo e come possano essere stabilizzati in modo permanente, riducendo al minimo il rischio di rilascio futuro.

Al contrario, le tecniche distruttive, che puntano alla completa rimozione dei PFAS, sebbene efficaci nel ridurre la tossicità, possono danneggiare il suolo, rendendolo inutilizzabile per scopi agricoli o per altre attività. Queste tecniche, infatti, richiedono solitamente l'impiego di grandi quantità di solventi e additivi, con un conseguente impatto negativo sull'ambiente circostante. Inoltre, le operazioni necessarie per completare il trattamento dei PFAS comportano costi elevati e l'uso di impianti altamente specializzati.

In generale, la bonifica completa dei suoli contaminati da PFAS richiede l'uso di numerosi passaggi e tecnologie, inclusi i trattamenti chimici avanzati come l'ossidazione elettrochimica e l'ultrasonica. Questi metodi, sebbene abbiano mostrato risultati promettenti, presentano sfide significative in termini di efficienza energetica, costi operativi e la necessità di attrezzature complesse. In particolare, l'ultrasonica sfrutta le onde sonore per generare bolle che, collassando nell'ambiente acquoso, distruggono la struttura chimica dei PFAS. Nonostante le difficoltà associate al consumo energetico e alla scalabilità di questa tecnologia, i progressi nella ricerca potrebbero portare a risultati più efficienti e applicabili su scala commerciale.

Il trattamento del suolo contaminato da PFAS richiede un approccio integrato che combini tecniche non distruttive e distruttive per ottenere risultati ottimali. La sinergia tra diversi metodi potrebbe ridurre il numero di passaggi necessari, abbattere i costi e migliorare l'efficienza energetica del processo di bonifica. Questo approccio, tuttavia, richiede investimenti significativi nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie, che potrebbero eventualmente portare a soluzioni commerciali economicamente accessibili, rispettose dell'ambiente e efficaci.

Oltre alla ricerca sulle tecnologie di bonifica, è fondamentale un'ulteriore riflessione sulle politiche di gestione dei rifiuti e sulla regolamentazione della produzione e uso di PFAS. Le normative internazionali stanno progressivamente evolvendo per limitare l'utilizzo di questi composti, in particolare quelli con catene lunghe, a favore di alternative con catene più corte. Nonostante queste azioni, l'inquinamento da PFAS rimane un problema significativo, specialmente nei paesi in cui l'uso di schiume antincendio contenenti PFAS è stato diffuso, e dove le acque sotterranee e le risorse alimentari possono essere compromesse.

È importante sottolineare che, oltre alle tecniche di bonifica, la gestione del rischio da PFAS coinvolge anche la prevenzione e la gestione della contaminazione a monte. Questo significa controllare l'uso di questi composti nella produzione di beni di consumo, nonché monitorare costantemente la qualità dell'acqua potabile e del suolo per garantire che i livelli di PFAS non superino le soglie di sicurezza per la salute umana e animale. Il miglioramento delle tecniche di monitoraggio e la collaborazione tra autorità locali, industrie e ricercatori saranno essenziali per garantire un futuro più sicuro e sostenibile.

Il Glifosato È Veramente Cancerogeno? Un'Analisi Tra Scienza, Controversie e Giustizia

Un lavoratore agricolo di 42 anni fu ricoverato d’urgenza con sintomi di vertigini, nausea, dolori addominali e difficoltà respiratorie dopo essere stato esposto accidentalmente a un erbicida a base di glifosato (GBH) durante la pulizia di un irroratore ostruito in uno spazio chiuso. Questo episodio rappresenta solo un frammento di un problema globale che ha attirato l'attenzione non solo della comunità scientifica, ma anche di tribunali, media e agenzie di regolamentazione.

Il glifosato, principio attivo dell'erbicida Roundup, è stato classificato dallo IARC (International Agency for Research on Cancer) come "probabilmente cancerogeno per l'uomo", inserendolo nel Gruppo 2A, a causa di sufficienti evidenze di cancerogenicità negli animali da laboratorio e forti indicazioni di genotossicità e stress ossidativo sia in animali che in esseri umani. Parallelamente, alcune ricerche epidemiologiche hanno osservato un aumento dell’incidenza del linfoma non-Hodgkin tra individui esposti al glifosato, sebbene le prove negli esseri umani siano state definite "limitate".

In contrasto, autorità come l’EFSA e la US EPA hanno concluso che il glifosato non rappresenta un rischio significativo per la salute umana e animale. Secondo questi enti regolatori, le concentrazioni a cui le persone sono esposte sarebbero troppo basse per causare danni significativi, e l’associazione tra glifosato e patologie come il cancro sarebbe debole o inesistente. Studi come quello di Mink et al. (2011) e Andreotti et al. (2017) non hanno trovato correlazioni significative tra esposizione e cancro in ampi campioni di popolazione, mentre una meta-analisi successiva (Zhang et al., 2019) ha sostenuto con forza l’esistenza di un legame con il linfoma non-Hodgkin.

A dispetto delle divergenze tra comunità scientifica e autorità regolatorie, la questione si è spostata anche sul piano legale. Dal 2018, migliaia di denunce collettive sono state presentate contro la Monsanto (ora Bayer), con accuse di aver nascosto le prove della pericolosità del Roundup. Il primo caso mediaticamente rilevante fu quello di Dewayne Johnson, un giardiniere californiano a cui fu diagnosticato un linfoma non-Hodgkin. Altri casi seguirono: la coppia Pilliod, Edwin Hardeman, Michael Ogliarolo in Australia, e Ross Wild, un agricoltore australiano di 67 anni. In molti di questi processi, le corti hanno riconosciuto risarcimenti milionari ai querelanti, e Bayer ha accettato di pagare complessivamente 10,9 miliardi di dollari per risolvere circa 95.000 cause legali.

Le implicazioni sanitarie dell’esposizione cronica al glifosato non si limitano al solo cancro. Biomarcatori urinari associati al glifosato sono stati collegati a condizioni infiammatorie, stress ossidativo e potenziali alterazioni metaboliche. Studi recenti indicano una correlazione tra l’esposizione infantile al glifosato e l’infiammazione epatica, nonché disordini metabolici che, in età adulta, potrebbero evolvere in malattie gravi come il diabete, patologie cardiovascolari o tumori epatici.

Il meccanismo d’azione del glifosato nei confronti degli organismi umani resta parzialmente oscuro. Tradizionalmente si sostiene che agisca inibendo la via dello shikimato, fondamentale nella biosintesi di amminoacidi aromatici in piante e batteri, ma assente negli esseri umani. Tuttavia, la crescente attenzione al microbioma umano ha aperto nuove ipotesi: il glifosato potrebbe alterare significativamente la flora intestinale, con ripercussioni sistemiche ancora poco comprese.

Dal punto di vista ambientale, il glifosato è altamente persistente. Dopo l’applicazione, non si limita alle piante bersaglio ma raggiunge suolo, acque superficiali e falde acquifere attraverso fenomeni come il ruscellamento, la lisciviazione e la deriva aerea. La sua presenza nel suolo avviene per deposizione diretta, lavaggio dalle foglie, decomposizione di piante trattate