Durante la pandemia di COVID-19, la gestione da parte dell'amministrazione Trump ha avuto conseguenze disastrose, non solo sul fronte sanitario, ma anche su quello economico e politico. Mentre i paesi dell'Europa e dell'Asia orientale riuscivano a "appiattire la curva" e ridurre drasticamente i casi, gli Stati Uniti affrontavano una continua e rapida ascesa dei contagi, con un numero giornaliero di casi che superava i 60.000, e oltre 1.000 morti al giorno. Entro agosto 2020, circa 5,8 milioni di americani erano stati infettati dal virus e 180.000 avevano perso la vita, con gli Stati Uniti che rappresentavano quasi un quarto dei casi globali, nonostante il paese costituisse solo il 4% della popolazione mondiale.
Questa gestione disastrosa si rifletteva in una diminuzione del sostegno popolare per Trump, in parallelo all'aumento dei casi. Il presidente, nonostante fosse messo in guardia da esperti di salute pubblica e epidemiologi, continuava a minimizzare l'importanza dei test e addirittura suggeriva di rallentare la loro diffusione, sostenendo che la quantità di casi fosse influenzata dal numero di test effettuati. A un raduno a Tulsa, Trump affermava: “Quando fai test a questo livello, troverai più persone, troverai più casi. Quindi ho detto alla mia gente di rallentare i test, per favore”.
Nel frattempo, la risposta economica alla pandemia si dimostrava inefficace. La chiusura delle attività e il calo dei consumi segnavano la più grande contrazione del PIL americano nella storia, con un calo del 9,5% nel secondo trimestre del 2020. Mentre decine di migliaia di imprese fallivano, la disoccupazione raggiungeva il 14,9%, e un'ondata di sfratti contribuiva ad aumentare il numero di senzatetto. Nonostante un pacchetto di aiuti da trilioni di dollari varato dal Congresso, gli effetti di tale sostegno durarono poco e non bastarono a fermare il declino economico.
In un contesto di crisi sanitaria ed economica, si aggiunse anche un'emergenza politica e sociale, con proteste di massa contro la brutalità della polizia, in particolare a seguito dell'omicidio di George Floyd. La reazione di Trump fu del tutto inadeguata: durante le proteste pacifiche a Washington, fece sgomberare i manifestanti con gas lacrimogeni per posare per una foto con la Bibbia davanti a una chiesa. In altre città, inviò truppe federali per reprimere le manifestazioni pacifiche, rafforzando la sua immagine di presidente “dell’ordine e della legge”, mentre venivano rapiti manifestanti da agenti federali in furgoni senza targa.
In questo clima di crescente caos, la figura di Trump divenne sempre più imprevedibile. Le sue dichiarazioni e comportamenti oscillavano tra l'assurdo e l'incoerente, come quando riprese le teorie di una dottoressa di Houston che giustificava l'uso dell'idrossiclorochina, ma che allo stesso tempo sosteneva che i problemi ginecologici fossero causati dai sogni di sesso con demoni, o che il DNA alieno venisse usato per creare un vaccino che avrebbe reso tutti gli esseri umani atei. Nel frattempo, Trump attaccava senza fondamento il voto per corrispondenza, che diventava sempre più popolare durante la pandemia, alimentando una campagna volta a screditare i risultati delle elezioni presidenziali del novembre 2020, qualora li avesse persi.
Il caos politico e la crescente polarizzazione culminarono nella crisi elettorale del 2020, quando Trump chiese addirittura un rinvio delle elezioni, minacciando di non accettare i risultati se non gli fossero stati favorevoli. Questo atteggiamento si inseriva nel quadro di una presidenza sempre più volatile e incoerente, alimentata da un narcisismo sfrenato e una continua ricerca di attenzione tramite attacchi e provocazioni.
La figura di Trump, senza precedenti esperienze governative e al centro di numerosi scandali, tra cui l'interferenza russa nelle elezioni del 2016 e le indagini sull'eventuale sua collusione con la Russia, ha visto crescere un’opposizione politica che ha alimentato l'immagine di un presidente incapace di rispettare le norme costituzionali e diplomatiche. La sua presidenza ha rappresentato un'eccezione nella politica americana, con l’uso di social media per diffondere disinformazione, insultare i suoi avversari e perpetuare una retorica divisiva che ha polarizzato ulteriormente la società.
Le sue politiche, in particolare in tema di commercio internazionale, immigrazione, ambiente ed economia, hanno inflitto danni significativi alla società americana e all'ordine globale. Nonostante l'intensificarsi delle critiche e delle opposizioni, la sua figura è rimasta una delle più controverse nella storia recente degli Stati Uniti.
In questa situazione, è fondamentale considerare come la pandemia, combinata con le politiche e l'approccio di Trump, non solo abbia devastato la salute e l’economia del paese, ma abbia anche acuito le divisioni interne e posto interrogativi profondi sulle capacità di leadership in momenti di crisi. La gestione della pandemia è stata un punto di rottura per molte persone, mettendo a nudo le vulnerabilità di un sistema politico e sanitario che si è trovato impreparato a una sfida globale senza precedenti.
Quali sono le Geografie del Successo Elettorale di Trump?
La mappa dei risultati elettorali, in particolare nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, segue generalmente un modello simile a quello delle elezioni precedenti. Le variazioni significative nella distribuzione del supporto ai partiti o ai candidati sono piuttosto rare e, pur con oscillazioni nei risultati, la topografia relativa del sostegno in un determinato territorio rimane relativamente stabile. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, come descritto nel lavoro classico di Key (1955) e successivamente esteso da Pomper (1967), sono caratterizzate da sequenze di "elezioni di mantenimento", in cui il sostegno ai partiti non cambia sostanzialmente nel tempo, restando in gran parte invariato in termini di geografia politica.
Queste sequenze di mantenimento, legate alla teoria del "voto normale" (Converse, 1966), sono occasionalmente interrotte da elezioni "deviazione", in cui la mappa dei risultati elettorali si differenzia sensibilmente da quella delle precedenti elezioni, come accadde nel 1960 con l'elezione di John F. Kennedy, il primo cattolico romano a diventare presidente. Sebbene, in molti casi, la mappa possa tornare ai parametri precedenti, in altri casi, questa deviazione segna l'inizio di una "ristrutturazione", che potrebbe richiedere diverse elezioni per essere completamente consolidata, come nel caso della "Strategia del Sud" di Nixon tra il 1968 e il 1972, che pose fine alla predominanza del Partito Democratico negli stati del Sud, che si era estesa dai tempi del New Deal degli anni '30.
Ci si chiede se le elezioni presidenziali del 2016 abbiano rappresentato una di queste elezioni "deviazione", con una mappa che si discostava notevolmente dal modello consolidato degli ultimi trent'anni, che vedeva una netta divisione tra stati "rossi" (vinti regolarmente dai repubblicani), "blu" (dominati dai democratici) e "swing" (o stati "viola"), dove il partito vincente cambiava da un'elezione all'altra. Cervas e Grofman (2017) suggeriscono che, a differenza delle elezioni precedenti, quella del 2016 è stata determinata in larga parte dai risultati negli stati "swing", un fenomeno che non si verificava in maniera così significativa nelle elezioni precedenti dal 1868.
Nel contesto delle elezioni presidenziali del 2016, Donald Trump, pur perdendo il voto popolare con un margine di circa tre milioni di voti (pari al 2,1% dei voti totali), è riuscito a prevalere nel Collegio Elettorale, con 304 voti contro i 227 di Hillary Clinton. La sua vittoria è stata raggiunta, tra l'altro, riconquistando tutti gli stati che nel 2012 erano stati vinti dal repubblicano Mitt Romney, oltre a sei stati che nel 2012 erano stati vinti da Barack Obama, alcuni di questi con margini minimi (tre stati con meno di un punto percentuale di vantaggio). Molti di questi stati "swing" avevano una popolazione relativamente ampia, il che ha portato Trump ad ottenere ben 99 voti elettorali che avevano assicurato la vittoria di Obama nel 2012. Trump ha ottenuto anche un ulteriore voto elettorale dal secondo distretto congressuale del Maine.
Un'analisi geografica tra le elezioni del 2012 e quelle del 2016 rivela che, in termini relativi, il pattern di voto non è cambiato significativamente tra i 50 stati più il Distretto di Columbia. Tuttavia, un'analisi a livello di distretti congressuali rivela una maggiore variabilità. Trump ha sovraperformato Romney in molte circoscrizioni, ma soprattutto nei sei stati chiave, dove il supporto repubblicano è aumentato in misura maggiore rispetto ad altre aree. In media, Trump ha aumentato la propria quota di voto nelle aree rosse del 2,2%, mentre nelle aree blu l’aumento è stato di soli 1,2 punti percentuali. Tuttavia, il dato più significativo risiede nell'aumento sostanziale del supporto nei distretti degli stati "swing", con un incremento medio del 3,4%, rispetto a un incremento di solo 0,5 punti nei distretti rossi.
In generale, Trump ha ottenuto una prestazione superiore a quella di Romney non solo negli stati "swing", ma anche nei distretti a maggioranza repubblicana, dove ha migliorato il suo punteggio rispetto a Romney in 92 dei 159 distretti. Nelle aree metropolitane, invece, Romney ha sovraperformato Trump in numerose circoscrizioni, anche se Trump ha superato Romney in una percentuale significativa di distretti nelle aree rurali.
Un ulteriore approfondimento sul comportamento elettorale di Trump evidenzia come l'aumento del supporto nelle aree rurali e tra le classi lavoratrici bianche, con il suo slogan "Make America Great Again", sia stato fondamentale. Questo ha portato Trump a distaccarsi notevolmente dal tradizionale elettorato repubblicano, coinvolgendo segmenti di popolazione che si erano sentiti trascurati dalla politica dominante degli ultimi decenni.
Comprendere il successo elettorale di Trump nel 2016 richiede quindi una riflessione più profonda non solo sulle dinamiche politiche in gioco, ma anche sulle fratture sociali ed economiche che hanno contribuito alla sua vittoria. Oltre alle evidenti variazioni nei risultati tra gli stati e i distretti, è fondamentale riconoscere come la sua campagna abbia fatto leva su sentimenti di disillusione e cambiamento, raccogliendo il sostegno di ampie fasce della popolazione che sentivano di non essere rappresentate dai partiti tradizionali. L’importanza delle "swing states" e il ruolo dell’elettorato rurale e della classe lavoratrice bianca devono essere visti come fattori centrali per comprendere non solo la vittoria di Trump nel 2016, ma anche le trasformazioni più ampie nel panorama politico statunitense.
Perché il Sistema Elettorale degli Stati Uniti Favorisce il Partito Repubblicano: La Geografia e il Voto Popolare
L'elezione presidenziale negli Stati Uniti è spesso vista come una competizione tra due candidati che si contendono la maggioranza dei voti popolari, ma la realtà è molto più complessa. Mentre Donald Trump ha vinto nel 2016 grazie al sistema del Collegio Elettorale, il voto popolare gli è sfuggito, esattamente come accaduto a Mitt Romney nel 2012. Questo divario tra il voto popolare e il voto del Collegio Elettorale solleva una questione cruciale: come mai un candidato può vincere la presidenza pur non avendo ottenuto il maggior numero di voti popolari?
Nel 2016, Trump ha perso il voto popolare di circa 2,1 punti percentuali, ma ha vinto il Collegio Elettorale grazie a una strategia mirata nelle giuste aree geografiche. Ha ottenuto una vittoria schiacciante nei "red states", ovvero gli Stati tradizionalmente repubblicani, e ha conquistato abbastanza Stati in bilico, come Michigan, Pennsylvania e Wisconsin, che hanno deciso l'esito delle elezioni. In questi casi, il sistema "winner-takes-all", dove il vincitore di ciascuno Stato ottiene tutti i voti elettorali, si traduce in un vantaggio enorme per il candidato che riesce a concentrarsi su questi pochi, determinanti Stati.
Questa disparità tra il voto popolare e il voto del Collegio Elettorale non è un fenomeno isolato, ma una caratteristica ricorrente nelle elezioni presidenziali americane dal 1960. In molti casi, il sistema del Collegio Elettorale ha favorito uno dei due partiti in modo sproporzionato, creando un "bias" (pregiudizio) che ha portato a risultati elettorali distorti. Ad esempio, nel 1960, se il voto popolare fosse stato equamente distribuito tra Kennedy e Nixon, il candidato democratico avrebbe comunque vinto con circa 90 voti del Collegio Elettorale in più rispetto al suo avversario, pur avendo ricevuto solo una percentuale minima di voti in più.
Il bias elettorale negli Stati Uniti è determinato da tre principali fattori: l'ineguaglianza nella distribuzione dei voti elettorali tra gli Stati, l'affluenza alle urne e la distribuzione geografica del sostegno popolare. Ogni Stato ha un numero fisso di voti elettorali, determinato dalla sua rappresentanza al Congresso, ma poiché ogni Stato ha almeno due senatori, anche gli Stati più piccoli (come il Wyoming e il Vermont) godono di una rappresentanza sproporzionata rispetto alla loro popolazione. Questo favorisce i partiti con supporto concentrato in Stati meno popolosi. Ad esempio, nel 2016, Wyoming e Vermont avevano rispettivamente una popolazione di circa 568.000 e 630.000 abitanti, ma entrambi avevano diritto a tre voti elettorali, mentre Stati molto più popolosi come New York e California avevano una rappresentanza proporzionalmente inferiore.
Un altro elemento che contribuisce al bias elettorale è il tasso di affluenza alle urne. In Stati con una bassa partecipazione elettorale, un partito può vincere i voti elettorali con un numero inferiore di voti popolari. Questo dà un vantaggio ai partiti che concentrano il loro supporto in Stati con tassi di affluenza inferiori. Inoltre, la distribuzione geografica del supporto popolare è fondamentale. Se un partito vince con un margine stretto in molti Stati ma perde largamente in altri, si ritrova a "sprecar" una grande quantità di voti popolari che non contribuiscono ai suoi guadagni elettorali. Di converso, un partito che vince di poco ma in modo concentrato in Stati con una grande rappresentanza elettorale riesce a "ottimizzare" i suoi voti popolari, ottenendo più voti elettorali rispetto al numero di voti effettivi.
Il sistema del Collegio Elettorale, quindi, non è neutrale: premia chi riesce a concentrarsi in modo strategico nei giusti Stati e a vincere con il giusto margine. Questo sistema ha avuto un impatto importante su diversi candidati repubblicani, tra cui Richard Nixon nel 1968, Ronald Reagan nel 1984 e George W. Bush nel 2000. In particolare, Trump nel 2016 ha beneficiato di un bias pro-repubblicano di circa 100 voti elettorali, un vantaggio decisivo, visto che ha perso il voto popolare.
Oltre alla geografia e alla distribuzione del voto, è importante comprendere come questo sistema può infliggere effetti duraturi sulla politica statunitense. Un'analisi approfondita delle dinamiche di distribuzione dei voti e delle strategie elettorali rivela come, nei sistemi elettorali maggioritari, un partito che ottiene una vittoria stretta può essere premiato in modo sproporzionato. La stessa "dispersione" dei voti che apparentemente favorisce un partito, può alla lunga ridurre il numero di vittorie nazionali per il partito avversario, creando cicli elettorali che favoriscono maggiormente una delle due forze politiche principali.
Il Fenomeno Trump: Macchina di Guerra e Geografie Emotive
Il fenomeno Trump si presta a un'analisi teorica profonda. Non si tratta solo di un singolo individuo, ma di una "macchina da guerra" deleziana e guttariana che si nutre delle onde affettive e delle geografie emotive della paura e dell'odio. Questa assemblaggio rizomatico, che muta costantemente dalla sua forma originaria a una nuova, indirizza la sua rabbia verso "le élite", lo stato, gli immigrati, i liberali e chiunque si frapponga al suo cammino. Così potente è questa macchina da guerra che ha alterato irreversibilmente il paesaggio politico, il Partito Repubblicano e il governo stesso degli Stati Uniti.
La demagogia di Trump, come argomentato da alcuni analisti, trova un parallelo nella retorica del wrestling professionale, uno sport con cui Trump ha da tempo una relazione curiosa. Il wrestling, con il suo linguaggio di esibizionismo, insulti, misoginia e glorificazione della violenza, ha insegnato a Trump l'arte del populismo di bassa lega. Le sue parole e frasi, spesso pompose e provocatorie, imitano il linguaggio dei promoter del wrestling, che creano uno spettacolo dove il pubblico è parte integrante della performance. Trump ha saputo proporsi come l'eroe per il pubblico comune, accogliendo il suo pubblico con un linguaggio semplice e diretto, ma potente nell'incitare emozioni forti.
Un altro aspetto cruciale è l'uso delle bugie da parte di Trump, un fenomeno che ha sorpreso e, allo stesso tempo, affascinato una larga fetta della popolazione americana. Nonostante il numero impressionante di menzogne (oltre 20.000), Trump è riuscito a emergere senza subire un danno politico significativo. Anzi, molte persone nel paese sembrano divertirsi con le sue menzogne, accettandole come parte del suo stile di comunicazione. Le bugie di Trump non sono casuali; sono geograficamente localizzate e riflettono temi come la costruzione del muro al confine con il Messico, l'immigrazione, i rifugiati e il commercio internazionale. In molti casi, si potrebbe quasi parlare di una "verità simulacrale", un concetto che si adatta bene a un'era in cui il confine tra realtà e finzione è sempre più labile. La sua versione della "verità" è autoinflitta, finalizzata alla costruzione di un'immagine che rispecchia un'epoca dominata da rappresentazioni distorte della realtà.
Sul piano geopolitico, l'amministrazione Trump ha dedicato molta attenzione al Medio Oriente, dove ha portato avanti politiche che hanno suscitato forti preoccupazioni internazionali. La sua alleanza con Israele, le vendite di armi a Arabia Saudita e Qatar, e l'atteggiamento di non curanza verso i diritti umani hanno contribuito a un cambiamento radicale nella politica statunitense verso la regione. Le sue mosse, che possono sembrare "realiste", appaiono in realtà come una totale sfida alle norme internazionali. La sua retorica ha creato uno spazio in cui le regole di diplomazia e diritto internazionale sono state sospese, con gravi conseguenze per la Siria, l'Iran, l'Iraq, l'Egitto, lo Yemen e il Libano.
La politica di Trump in relazione a Cuba ha visto un'inversione completa della politica di apertura iniziata con Obama. Nonostante l'apparente successo di tale politica a livello di relazioni internazionali, Trump ha rafforzato il suo approccio di potere duro, fallendo però nel tentativo di destabilizzare il regime cubano. L'esperienza dei giovani cubani, la cui disillusione con il sistema politico interno è profonda, rivela la limitatezza della "strategia di deterritorializzazione" messa in atto dalla sua amministrazione.
Un altro aspetto significativo è il legame tra Trump e la Corea del Nord, nonostante le tensioni legate al programma nucleare del paese. Le politiche di Trump verso la Corea del Nord, con i suoi tentativi di dialogo e le celebri vertenze con Kim Jong-Un, dimostrano come l'amministrazione abbia voluto gestire le relazioni in modo teatrale, alimentando un immaginario collettivo che lega il presidente alla figura dell'autocrate con cui si sente affine. Questa dinamica è emersa anche nella geopolitica globale, dove Trump ha cercato di mescolare spettacolarizzazione e diplomazia.
In Cina, il fenomeno Trump ha suscitato sentimenti contrastanti. La guerra commerciale intrapresa con il paese ha messo sotto pressione la sua economia, ma allo stesso tempo ha creato un paradosso: molti utenti internet cinesi, nonostante le politiche ostili, hanno visto in Trump una figura che, paradossalmente, li avrebbe potuti avvantaggiare a livello interno, contrastando il regime autoritario.
Un altro aspetto rilevante è la strana relazione tra i sostenitori di Trump e il cambiamento climatico. A Tangier Island, in Virginia, dove l'erosione costiera sta causando l'imminente scomparsa dell'isola, la maggior parte degli abitanti ha votato per Trump, ignorando in gran parte le politiche ambientali che contribuiscono al riscaldamento globale. Questo contrasto, quasi irrazionale, tra la causa della loro discesa e le loro scelte politiche ha rivelato dinamiche emotive profonde, legate a un'attaccamento ideologico che impedisce una valutazione obiettiva della realtà.
Trump non si limita a ignorare il cambiamento climatico, ma istituzionalizza un "regime emotivo di apatia". L'esempio dell'uragano Maria, che ha devastato Porto Rico nel 2017, e la sua decisione di ritirarsi dagli accordi di Parigi, dimostrano come le sue politiche non solo abbiano ignorato la sofferenza causata dal cambiamento climatico, ma abbiano contribuito a legittimarla a livello nazionale e internazionale.
Infine, il trattamento delle giovani persone immigrate e senza documenti sotto l'amministrazione Trump ha attirato attenzione globale. La separazione delle famiglie e la detenzione di bambini in gabbie ha mostrato un lato crudele e disumano della politica dell'immigrazione, alimentando divisioni e creando un'ulteriore geografia della precarietà per i migranti.

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский