La geopolitica e la geoeconomia, pur essendo tematiche apparentemente distinte, si intrecciano frequentemente nei dibattiti politici e mediatici, soprattutto in contesti di conflitto o di ricerca di soluzioni diplomatiche. Un caso emblematico di tale intersezione si riscontra nella Corea del Sud, dove i media, influenzati dalla divisione politica interna, hanno presentato visioni contrastanti riguardo al processo di pace con la Corea del Nord. Questo fenomeno è particolarmente evidente quando si analizzano le politiche dei governi conservatori e liberali e le relative trattazioni dei temi geopolitici ed economici legati alla questione nordcoreana.

Il periodo che va dal 2016 al 2018 ha visto un'importante evoluzione in queste tematiche, specialmente con l'elezione di Moon Jae-In nel 2017, il quale ha promesso un cambio di rotta nelle politiche di approccio verso il Nord. Il suo governo ha cercato di recuperare l'eredità della Sunshine Policy, promuovendo un dialogo diretto e indipendente dalla posizione degli Stati Uniti. A questo si è associato il concetto di “driver’s seat” (posizione di guida), che implica il ruolo centrale della Corea del Sud nel definire le proprie politiche di pace, senza dover necessariamente seguire le direttive di Washington.

Nelle principali testate giornalistiche coreane, la divisione tra media conservatori e progressisti risulta evidente. I media progressisti, come Kyunghyang Shinmun e Hankyoreh, hanno adottato una visione più ottimistica, con un forte accento sulle opportunità economiche che un eventuale accordo di pace con il Nord avrebbe potuto portare. In particolare, è stato spesso evocato il riavvio del Kaesong Industrial Complex (KIC), chiuso nel 2016, come simbolo di una possibile nuova cooperazione economica. Per i media progressisti, la pace con il Nord non era solo una questione di sicurezza, ma anche di prosperità economica, un’opportunità per rilanciare l’economia sudcoreana attraverso l’integrazione con il Nord.

Al contrario, i media conservatori, come Chosun Ilbo, Joongang Ilbo e Donga Ilbo, hanno presentato il processo di pace in termini più critici, focalizzandosi soprattutto sui rischi per la sicurezza nazionale. L'approccio dei conservatori è stato spesso intriso di paure riguardo alla possibilità di compromettere l'alleanza con gli Stati Uniti, elemento ritenuto fondamentale per la sicurezza della Corea del Sud. In questa narrazione, qualsiasi tentativo di negoziare direttamente con la Corea del Nord senza il consenso degli Stati Uniti veniva visto come un pericolo, non solo per la sicurezza militare ma anche per l’equilibrio geopolitico della regione. Inoltre, una delle preoccupazioni principali era la riduzione della presenza militare sudcoreana nella zona demilitarizzata (DMZ), che, secondo i media conservatori, avrebbe indebolito la posizione difensiva della Corea del Sud nei confronti di una possibile aggressione nordcoreana.

Anche la figura di Donald Trump, pur essendo di grande rilevanza nei media statunitensi, è apparsa marginale nei resoconti sudcoreani, se non per ritrarlo come imprevedibile e poco interessato alla questione coreana, concentrandosi invece sugli interessi strategici legati alla Cina o alla politica interna degli Stati Uniti. Questo riflette un atteggiamento di distacco verso l’amministrazione Trump, specialmente tra i media progressisti, che tendevano a enfatizzare la necessità di un approccio autonomo della Corea del Sud rispetto alla politica americana.

Tuttavia, nonostante queste differenze, un tema comune emerge: la questione della sicurezza nazionale, che resta un punto centrale in entrambe le visioni, sebbene trattata in modo diverso. Per i media progressisti, la sicurezza non deve solo essere garantita attraverso alleanze esterne, ma anche costruendo una relazione diretta e pacifica con la Corea del Nord. Per i conservatori, invece, la sicurezza dipende in gran parte dal rafforzamento delle alleanze esistenti, in particolare con gli Stati Uniti.

Un ulteriore elemento che ha arricchito il dibattito mediatico riguarda le prospettive economiche legate al processo di pace. Oltre al KIC, i media progressisti hanno parlato di una "nuova mappa economica" in cui la Corea del Sud avrebbe potuto sfruttare la cooperazione con il Nord per accedere a risorse naturali e mercati, con l’obiettivo di una prosperità condivisa. Questa visione si lega all’idea che la pace, oltre a risolvere la questione geopolitica, possa essere il motore di un rinnovamento economico per entrambe le Coree.

Ciò che emerge chiaramente da questa analisi è che, mentre la politica di Moon Jae-In cercava di unire la geopolitica e la geoeconomia in una visione di speranza e progresso, la mediazione tra le esigenze di sicurezza e le opportunità economiche continua a rappresentare una sfida complessa. Le paure della perdita di un equilibrio geopolitico, alimentate dai media conservatori, si scontrano con la visione di un futuro prospero, promossa dai media progressisti, dove la cooperazione economica con il Nord diventa il motore di un rinnovamento sia politico che economico.

Come le politiche statali verso gli immigrati senza documenti riflettono le tensioni sociali negli Stati Uniti

Il sistema giuridico e politico degli Stati Uniti ha affrontato, negli ultimi decenni, un crescente dibattito sulla gestione degli immigrati senza documenti. Con l'amministrazione Trump, l'incertezza è diventata una costante, in particolare dopo la sospensione di DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), un programma che ha protetto molti giovani immigrati dalla deportazione. Nonostante la decisione della Corte Suprema nel 2020, che ha dichiarato illegale la sospensione di DACA, le porte sono rimaste aperte per una possibile cessazione definitiva del programma, se la giustizia legale venisse adeguatamente fornita. Questo ha avuto un impatto devastante sulla sicurezza e sul futuro di migliaia di giovani, alimentando la precarietà sociale e economica. In risposta a queste politiche, alcuni stati hanno cercato di proteggere i giovani immigrati, cercando di trovare soluzioni in un contesto incerto.

Le politiche nei confronti degli immigrati senza documenti non sono però un fenomeno recente, e il movimento verso politiche più restrittive è iniziato prima della presidenza Trump. La proposta di legge Proposition 187, che nel 1994 fu approvata in California, fu la prima legislazione statale di grande rilievo mirata a escludere gli immigrati senza documenti dall'accesso ai servizi pubblici, come l'istruzione e l'assistenza sanitaria. Il sostegno a questa iniziativa derivava da timori legati a una crescente popolazione di immigrati senza documenti e dalla percezione che questi stessero mettendo a dura prova il bilancio statale. Nonostante la Proposition 187 fosse dichiarata incostituzionale, il suo impatto fu profondo, in quanto segnò una delle prime grandi mobilitazioni statali contro l'immigrazione, contribuendo alla trasformazione politica della California, che con il tempo divenne uno degli stati più accoglienti nei confronti degli immigrati.

Nel corso dei decenni, gli Stati Uniti hanno visto un'oscillazione delle politiche a livello statale, passando da leggi restrictive a politiche di inclusione. La California, che una volta aveva adottato una politica esclusiva, ha fatto un passo indietro con l'introduzione della Trust Act nel 2013, che limitava la cooperazione con le autorità federali dell'immigrazione e garantiva la protezione dei diritti civili, in particolare per la grande popolazione latina dello stato. Altri stati, pur con popolazioni di immigrati molto più piccole, come Vermont, Alaska e Oregon, hanno adottato leggi che dichiarano che l'applicazione delle leggi sull'immigrazione è una responsabilità federale e che le autorità locali non dovrebbero essere coinvolte in questo processo.

Tuttavia, l'orientamento restrittivo è continuato. Negli anni successivi, stati come l'Arizona e l'Alabama hanno introdotto leggi come la SB 1070 e la HB 56, che permettevano alla polizia di verificare lo status di immigrazione di chiunque sospettassero fosse privo di documenti. Queste leggi hanno sollevato enormi polemiche, soprattutto per l'impatto che avevano sulla comunità latino-americana più ampia, non solo sugli immigrati senza documenti. Sebbene molte di queste leggi siano state dichiarate incostituzionali, hanno avuto il merito di evidenziare la crescente divisione all'interno della società statunitense riguardo all'immigrazione e alla presenza di stranieri nel paese.

Nel contesto di queste politiche, il dibattito sulla “cittadinanza insurgente” degli immigrati, in particolare dei cosiddetti "DREAMers", ha acquisito sempre più rilevanza. Questi giovani, che sono cresciuti negli Stati Uniti, si sono organizzati per rivendicare i loro diritti, chiedendo l'accesso a un futuro stabile, senza la minaccia costante di deportazione. La resistenza a politiche escludenti si è tradotta in un'azione collettiva che ha portato a un'espansione dei diritti e delle protezioni in alcuni stati. Allo stesso tempo, il contesto politico instabile creato dalla presidenza Trump ha esacerbato la precarietà degli immigrati senza documenti, creando una situazione di tensione e incertezza, che tuttavia ha visto anche risposte da parte di stati e organizzazioni per i diritti degli immigrati.

Oggi, le politiche verso gli immigrati senza documenti continuano a variare notevolmente tra gli stati. In alcuni stati, si sta cercando di rafforzare i diritti di queste persone, soprattutto quelli legati all'accesso all'istruzione e ai servizi di base, in un tentativo di integrare chi, per motivi diversi, è rimasto senza documenti, ma che da anni contribuisce alla società. In altri, invece, si sta cercando di introdurre leggi sempre più restrittive, alimentando un clima di incertezza che alimenta la precarietà delle vite degli immigrati. La gestione di questi temi, purtroppo, non si limita alla politica nazionale, ma si sviluppa e si riflette sul piano statale, dove il futuro di migliaia di giovani immigrati è sempre in bilico.

È fondamentale, tuttavia, comprendere che dietro ogni decisione politica c'è una realtà sociale fatta di persone, famiglie e storie individuali. Questi giovani, che sono cresciuti in un paese che non è quello dei loro genitori, ma che hanno imparato ad amare come casa, rappresentano una parte significativa della forza lavoro, della cultura e del futuro degli Stati Uniti. Le politiche che ne determinano l'inclusione o l'esclusione non solo influenzano la loro vita, ma anche quella della società più ampia, che è chiamata a fare i conti con un sistema che, spesso, non riconosce la loro appartenenza.

Qual è l'appeal etnonazionalista di Donald Trump e come ha plasmato il suo successo elettorale?

Nel corso della sua carriera politica, Donald Trump ha modellato la sua figura e il suo messaggio attorno a una serie di tematiche che, pur essendo strettamente legate al contesto politico americano, si inseriscono in un panorama più ampio di dinamiche etniche e nazionaliste che attraversano la storia e la politica mondiale. Il suo approccio, sebbene inizialmente apparentemente una mossa di marketing, ha incontrato un ampio consenso in determinati strati della società americana, dando vita a una delle campagne elettorali più divisive e significative della storia recente.

Il punto centrale della sua retorica è stato l'invocazione di una "America prima" che si opponesse all'immigrazione, alla diversità e, più in generale, a tutte quelle forze che, secondo la sua visione, minacciavano l'unità e l'identità del paese. Trump ha saputo manipolare con grande abilità i sentimenti di paura e risentimento che si annidano in molte comunità, indirizzando il malcontento verso i migranti e le minoranze etniche, alimentando una visione del mondo che rifletteva una forma di etnonazionalismo bianco, basata su un'idea esclusiva di appartenenza alla nazione.

L’appeal etnonazionalista di Trump è emerso con particolare forza nelle zone rurali e suburbane, dove l’elettorato si è sentito sempre più alienato da una società che sembrava premiare l’inclusività e la diversità. Nelle sue politiche, e nella sua retorica, la difesa di una "cultura bianca" è stata presentata come una risposta alla globalizzazione e ai cambiamenti demografici, che venivano percepiti come minacce all’ordine sociale tradizionale. Questi messaggi, spesso mascherati sotto la forma di slogan populisti e di promesse economiche, si sono rivelati particolarmente efficaci in un contesto elettorale come quello del sistema del Collegio Elettorale, dove il valore di ogni singolo voto dipende fortemente dalla geografia.

L'etnonazionalismo, in questo contesto, non si è manifestato solo come un desiderio di protezione contro la "sostituzione demografica", ma anche come un forte senso di appartenenza a una visione esclusiva di nazione. Questo concetto, purtroppo, ha trovato terreno fertile in un contesto in cui le identità locali e regionali erano sempre più in contrasto con un'idea di nazione multiculturale e inclusiva. La retorica trumpiana ha saputo rispondere a questi sentimenti, legando insieme il rifiuto delle politiche di inclusività con la promessa di ripristinare un ordine sociale che veniva visto come perduto.

Il supporto a Trump, in termini di geografia elettorale, non è stato solo una questione di classe sociale o di educazione, ma è stato anche un riflesso di come le comunità, in base alla loro composizione etnica e alle esperienze storiche, rispondano a determinate sollecitazioni politiche. I suoi sostenitori tendevano a vivere in aree dove la presenza di minoranze era minima e dove il cambiamento demografico era percepito come un pericolo imminente. Questo fenomeno ha avuto un impatto particolare sulle aree suburbane, che hanno visto in Trump un difensore di valori percepiti come in via di estinzione.

L’etnonazionalismo è un concetto che affonda le radici in un'interpretazione escludente della nazione, dove il legame tra i membri di un gruppo è definito da una serie di caratteristiche condivise, come la lingua, la religione o l’etnia. Questa visione, che risale almeno al XIX secolo, ha alimentato molte delle tensioni politiche contemporanee. Trump, in questa ottica, ha reinterpretato l’idea di nazione, cercando di circoscrivere l’appartenenza nazionale a una visione omogenea, in netto contrasto con le idee di nazionalismo civico che abbracciano la diversità e l'inclusività.

Il messaggio etnonazionalista di Trump non è stato solo un tema di campagna, ma si è radicato in un più ampio contesto geopolitico e sociale. In molte nazioni, questo tipo di nazionalismo ha trovato terreno fertile durante periodi di crisi economica o di grande trasformazione sociale. Sebbene non sempre associato al fascismo, l'etanazionalismo condivide con esso alcuni tratti ideologici, come la costruzione di un "nemico interno" e la celebrazione di un'idea di nazione purificata e omogenea. Questa visione non solo rafforza il senso di identità nazionale, ma giustifica anche l'esclusione di chi è percepito come "altro".

L'approccio di Trump si è mosso lungo questa linea, proponendo una visione di nazione che era fortemente radicata in un passato ideale e perduto, pronto a sconfiggere i nemici interni, siano essi immigrati, minoranze o elité politiche e finanziarie. La sua retorica ha sfruttato le paure della popolazione bianca americana riguardo al cambiamento demografico e ha promesso di riportare il paese alla sua "grandezza", un concetto che per molti significava principalmente il ritorno a un'America bianca, omogenea e culturalmente uniforme.

In questo contesto, l’immigrazione e la diversità sono diventati i principali bersagli delle sue politiche. L’attacco alla cosiddetta "politica del politicamente corretto" e alle politiche migratorie liberali ha reso Trump una figura polarizzante ma, al contempo, estremamente attraente per coloro che si sentivano minacciati dal progresso sociale e dalla crescente diversità del paese.

Inoltre, la disuguaglianza geografica è stata un altro fattore importante nel consolidamento dell’appeal di Trump. Le aree rurali e suburbane, dove l’etnonazionalismo ha trovato terreno fertile, sono state cruciali per la sua vittoria nelle elezioni del 2016. Le comunità in queste regioni, spesso meno esposte a realtà multiculturali, si sono sentite più facilmente coinvolte in una narrativa che rimarcava il ritorno ai valori tradizionali e l’isolamento dalla globalizzazione.

In conclusione, la forza dell'appeal etnonazionalista di Trump si spiega anche attraverso la capacità di indirizzare le preoccupazioni sociali ed economiche in un modo che ha risuonato profondamente con il sentire di ampie porzioni della popolazione americana. La sua retorica ha saputo unire paure, frustrazioni e desideri in una visione che prometteva di restaurare un'America che, secondo lui, era stata minacciata da politiche liberali e da un multiculturalismo che aveva sfidato la sua identità "autentica".

Come il Potere del Discorso Plasma la Geopolitica e la Politica Contemporanea

Il concetto di "discorso" è da tempo oggetto di ampio dibattito accademico. Secondo Van Dijk (1985, 2008a), il discorso è un'entità complessa che si esprime non solo attraverso il testo scritto o parlato, ma anche tramite linguaggi non verbali come il linguaggio del corpo, le immagini e i suoni. La sua natura è intrinsecamente legata al contesto socio-culturale in cui si sviluppa, ed è impensabile separare la produzione e la fruizione del discorso dal potere e dalla conoscenza che lo determinano. Foucault (2002) ha evidenziato come il discorso non sia mai neutrale, ma sempre un veicolo di potere. Le parole, le narrazioni e le immagini non sono solo strumenti di comunicazione, ma anche mezzi attraverso i quali il controllo sociale e politico è realizzato.

Nel contesto della geopolitica, il discorso gioca un ruolo centrale nella costruzione dell'identità e nel delineamento delle frontiere, tanto fisiche quanto ideologiche. Parole come "loro", "gli altri" o "i messicani" non sono semplici etichette linguistiche, ma costruzioni che servono a separare e a creare distanza tra "noi" e "gli altri", favorendo la percezione di minaccia e giustificando così l'esclusione e la discriminazione (Van Dijk, 2008b). I discorsi politici nazionalisti e populisti, come quelli spesso adottati da Donald Trump, sono espressioni di un processo di "alterizzazione", dove l'altro viene percepito come una minaccia e, attraverso il discorso, si alimentano paure che consolidano il controllo e il dominio da parte di gruppi politici o nazionali. Questo è evidente nelle sue frequenti comunicazioni sui social media, in cui il confine tra "verità" e "notizie false" diventa sfumato, manipolato a fini politici, come evidenziato da Flynn (2007) e Van Dijk (2008).

Nel discorso geopolitico contemporaneo, le emozioni assumono un ruolo fondamentale. L'idea di "geopolitica emotiva" proposta da autori come Pain (2009) sottolinea come le emozioni, in particolare la paura, siano utilizzate per mobilitare il supporto politico. La paura, infatti, non è solo un'emozione di oppressione, ma anche di resistenza e speranza. Questo legame tra emozioni e potere è evidente nell'uso strategico dei social media, in particolare Twitter, da parte di Trump. Le sue dichiarazioni, spesso provocatorie e polarizzanti, sono state progettate per suscitare reazioni emotive forti, mobilitando i suoi sostenitori e consolidando la sua base elettorale contro l'establishment (Pain, 2009).

L'uso di Twitter ha trasformato la politica moderna. Questa piattaforma ha offerto un'opportunità senza precedenti per esprimere opinioni pubbliche senza i filtri tradizionali dei media mainstream. Trump ha saputo sfruttare questa caratteristica, utilizzando un linguaggio diretto, spesso rude, ma "autentico" agli occhi dei suoi elettori. A differenza di Hillary Clinton, la cui comunicazione era più controllata e istituzionale, Trump è apparso come una figura genuina, capace di entrare in connessione con il pubblico attraverso un linguaggio che sembrava meno filtrato e più immediato (Lee & Lim, 2016). La sua strategia di comunicazione ha fatto leva su quattro caratteristiche distintive di Twitter: la sua natura pubblica, la possibilità di formare comunità e reti, la viralità dei contenuti attraverso retweet e preferenze, e la brevità del messaggio, che lo rende facilmente consumabile.

Nel contesto della campagna elettorale del 2016, è stato coniato il termine "Twitter Election" per descrivere l'importanza cruciale che i social media hanno avuto nel determinare l'esito delle elezioni. Twitter ha permesso a Trump di sfidare le convenzioni politiche e i media tradizionali, favorendo un tipo di politica che non solo era basata sul contenuto, ma anche sulla modalità comunicativa. Le sue dichiarazioni su Twitter non erano solo parole, ma veri e propri atti di potere, attraverso i quali si affermava una nuova visione del mondo, spesso contrastante con quella presentata dai media tradizionali.

L'analisi del discorso di Trump sui social media rivela come la politica possa essere modellata da una combinazione di potere, emozioni e tecnologie digitali. La sua retorica, che spesso gioca sulla paura e sull'indignazione, è stata efficace nel creare un senso di urgenza e di minaccia, mobilitando i suoi sostenitori attraverso emozioni forti e viscerali. Allo stesso tempo, questa strategia ha diviso l'opinione pubblica, alimentando conflitti e polarizzazione, fenomeni che oggi caratterizzano gran parte della politica globale.

La geopolitica emotiva, come evidenziato da autori come Tyner e Henkin (2014), invita a un impegno verso la prassi, un impegno che si radica emotivamente in luoghi specifici. In questo senso, le emozioni non sono solo reazioni individuali, ma sono parte integrante di un paesaggio geopolitico più ampio, che si nutre e si alimenta di esse per giustificare decisioni politiche, manipolare opinioni e consolidare il potere. L'uso delle emozioni nella politica, come la paura e la rabbia, ha il potenziale di trasformare la percezione pubblica e alterare il corso della storia.

In questo contesto, è cruciale comprendere che la geopolitica emotiva non riguarda solo gli eventi clamorosi o le dichiarazioni di leader carismatici. Essa permea anche le esperienze quotidiane delle persone, i loro vissuti emotivi legati al luogo, al gruppo sociale e alla nazione. La politica emotiva non si limita ai grandi discorsi, ma si radica anche nelle piccole esperienze quotidiane, nelle paure, nelle speranze e nelle frustrazioni delle persone comuni. Questo tipo di geopolitica è tanto personale quanto collettivo, tanto locale quanto globale.