I Policloronaphtaleni (PCNs) sono composti chimici persistenti che si trovano principalmente nell'ambiente in fase gassosa. In alcune aree, come Venezia, Italia, la maggior parte dei PCNs nelle particelle atmosferiche risulta al di sotto dei limiti di rilevamento. Nel 2009 e nel 2012, i valori del rapporto gas/particelle (G/P) di PCNs erano rispettivamente di 0,91 e 22 (Gregoris, Argiriadis et al., 2014). Con il diminuire delle dimensioni delle particelle, la proporzione di PCNs nelle particelle fini aumenta. Ad esempio, nelle particelle con un diametro cinetico dae ≤ 1,0 μm, i PCNs rappresentano circa il 63,5% delle particelle totali (Zhu, Zhang et al., 2016).
Per quanto riguarda la presenza di PCNs nei sedimenti e nel suolo, le concentrazioni osservate nei sedimenti superficiali delle aree settentrionali del Mar Baltico vanno da 0,27 a 2,8 ng/g (peso secco, dw). Utilizzando il tasso di deposizione equivalente, si stima che la quantità di PCNs depositata nei sedimenti del Mar Baltico sia di circa 91 kg all'anno (Lundgren, Tysklind et al., 2003). Questi livelli sono simili a quelli riscontrati nei sedimenti di altre parti d'Europa, Nord America e Giappone. In Germania, ad esempio, nelle aree industriali fortemente contaminate, le concentrazioni di PCNs possono arrivare a 2.500 ng/g dw (Brack, Kind et al., 2003). Nei sedimenti inquinati dalla industria cloro-alcalina degli Stati Uniti, le concentrazioni di PCNs più elevate sono state di 2,6 μg/g dw per PeCN, 7,3 μg/g dw per HxCN e 9,6 μg/g dw per HpCN (Kannan, Imagawa et al., 1998).
Nelle analisi dei suoli, è stato osservato che le concentrazioni di PCNs in vari ambienti variano notevolmente. In una zona industriale del Regno Unito, la concentrazione di PCNs in suolo è diminuita nel tempo, passando da 6.000 pg/g dw nel 1968 a 420 pg/g dw nel 1990 (Meijer, Harner et al., 2001). Al contrario, in aree meno contaminate, come in Spagna, le concentrazioni vanno da 32 ng/kg in campioni di suolo non contaminato fino a 180 ng/kg in zone urbane o residenziali (Schuhmacher, Nadal et al., 2004). In Polonia, le concentrazioni nel suolo vanno da 350 a 1.100 pg/g dw, indicando una possibile connessione con l'uso industriale di prodotti contenenti PCN (Wyrzykowska, Hanari et al., 2007).
Anche se i dati sulla presenza di PCNs negli alimenti sono ancora limitati, alcune indagini hanno esaminato la loro concentrazione in vari prodotti alimentari. In uno studio condotto nel 2000 in Spagna, le concentrazioni di PCNs negli alimenti di origine animale erano più alte nei cibi grassi (447 ng/kg dw), seguiti da pesce e frutti di mare (39 ng/kg dw), uova (23 ng/kg dw) e carne (18 ng/kg dw) (Domingo, Falco et al., 2003). Nello stesso anno, un'indagine su alimenti provenienti da supermercati in Catalogna ha rivelato che il pesce e i frutti di mare contenevano la più alta concentrazione di PCNs (47,1 ng/kg, peso umido, ww), seguiti da cibi grassi (21,5 ng/kg ww) e latticini (11,7 ng/kg ww). In uno studio più recente, condotto nel 2022 in Cina, è stato osservato che gli alimenti di origine animale, in particolare la carne (92,0 ng/kg ww), avevano concentrazioni di PCNs superiori rispetto agli alimenti di origine vegetale.
Gli alimenti vegetali raccolti nella regione della Catalogna nel 2000 mostravano concentrazioni più basse di PCNs: i cereali avevano 71 ng/kg dw, mentre frutta e verdura avevano rispettivamente 0,7 ng/kg dw e 3 ng/kg dw. L'analisi di alimenti vegetali in 24 province della Cina nel 2022 ha rilevato che i legumi presentavano le concentrazioni più elevate (8,2–29,0 ng/kg ww), seguiti da verdure (2,5–23,6 ng/kg ww) e tuberi (1,6–47,2 ng/kg ww).
Un aspetto rilevante per comprendere la distribuzione dei PCNs negli alimenti è l'importanza dei congeneri, che determinano sia la fonte che la tossicità di questi composti. Nei cibi di origine animale, i congeneri tetrachloro sono predominanti, seguiti dai congeneri pentaclorati e esaclorati (Domingo, 2004). Nei cibi vegetali, invece, i congeneri tetrachloro e pentaclorati sono i più comuni, con una presenza anche significativa di congeneri esaclorati in frutta e legumi. Questo modello di distribuzione dei congeneri suggerisce che il rischio di contaminazione da PCNs dipenda in gran parte dalla tipologia di alimento e dalla sua origine.
Il tema della contaminazione da PCNs negli alimenti è fondamentale non solo per comprendere la distribuzione di questi composti nell'ambiente, ma anche per la salute umana. Poiché i PCNs sono persistenti e bioaccumulabili, la loro presenza negli alimenti rappresenta un rischio per il consumo umano, soprattutto in relazione alla quantità e al tipo di alimento contaminato. Sebbene i dati sulle concentrazioni di PCNs negli alimenti siano ancora parziali, è evidente che il controllo e la regolamentazione di questi contaminanti sono essenziali per ridurre l'esposizione e i rischi associati.
Qual è l’impatto e la diffusione dei naftalini policlorurati e dei composti organici persistenti nell’ambiente e nella salute umana?
I naftalini policlorurati (PCNs) rappresentano una classe complessa di composti organici persistenti caratterizzati dalla loro elevata stabilità chimica e dalla capacità di bioaccumularsi negli ecosistemi. Studi condotti in differenti regioni del mondo, come quelli riferiti ai laghi del Michigan e a vari siti industriali in Cina, evidenziano la presenza ubiqua di questi contaminanti in sedimenti, suoli, organismi acquatici e specie volatili come uccelli acquatici. Tale diffusione è spesso collegata sia a fonti storiche di contaminazione, come impianti di cloro-alcali e industrie metallurgiche, sia a emissioni non intenzionali derivanti da processi industriali moderni quali la produzione siderurgica, la sinterizzazione del minerale di ferro, la combustione di rifiuti e il riciclo di metalli.
L’analisi isomerica specifica dei PCNs permette di tracciare le loro origini e di valutare il loro potenziale tossico. Questi composti si distinguono per il loro contributo alla somma totale dei contaminanti organici persistenti (POPs), spesso paragonabili o addirittura superiori a quelli di diossine, PCB e furani in alcune matrici ambientali. La presenza di PCNs nel latte materno umano, documentata in studi condotti negli Stati Uniti, in Cina e in Europa, sottolinea il loro potenziale rischio tossicologico per le generazioni future, in particolare per i neonati che assumono tali sostanze attraverso l’allattamento. I rischi associati riguardano effetti negativi sullo sviluppo prenatale e postnatale, inclusi disordini nel processo di spermatogenesi, come dimostrato da sperimentazioni su modelli animali.
Le emissioni accidentali o non intenzionali di PCNs dai processi industriali di produzione dell’acciaio, dalla combustione di rifiuti e dal trattamento di ceneri volanti sono spesso sottostimate, ma risultano essere fonti significative di contaminazione atmosferica e successivamente deposizione nei suoli e nelle acque superficiali. Queste emissioni presentano un profilo caratteristico che può essere utilizzato per la loro identificazione e per la valutazione dell’impatto ambientale.
L’accumulo di PCNs nei sedimenti marini e lacustri comporta un rischio cronico per gli organismi acquatici, con conseguenze che si propagano attraverso la catena alimentare fino agli uccelli piscivori e agli esseri umani. La comprensione della distribuzione spaziale e temporale di questi contaminanti, così come l’identificazione dei loro marker specifici, sono fondamentali per la messa a punto di strategie efficaci di monitoraggio ambientale e di gestione del rischio sanitario.
Oltre alla semplice individuazione e quantificazione, è essenziale considerare la complessità delle interazioni chimiche e biologiche di tali sostanze nell’ambiente, che possono influenzare la loro persistenza, mobilità e tossicità. Inoltre, la variabilità delle esposizioni individuali legata a fattori geografici, dietetici e socioeconomici richiede un approccio integrato che unisca studi ambientali, biomonitoraggio e valutazioni epidemiologiche.
L’attenzione deve anche essere rivolta all’analisi delle fonti non convenzionali di emissione di PCNs, spesso derivanti da processi industriali meno controllati o da attività di riciclo in paesi con normative ambientali meno rigorose. La collaborazione internazionale per la riduzione di tali emissioni, unitamente allo sviluppo di tecnologie di bonifica efficaci, risulta imprescindibile per limitare l’impatto di questi inquinanti persistenti sull’ecosistema globale e sulla salute umana.
La comprensione profonda delle dinamiche ambientali e tossicologiche dei PCNs è fondamentale per orientare politiche di prevenzione, regolamentazione e intervento, che devono tener conto sia della loro persistenza sia del potenziale effetto sinergico con altri POPs presenti nell’ambiente. È cruciale monitorare costantemente sia le concentrazioni ambientali che quelle biotiche, specialmente nei soggetti vulnerabili come donne in gravidanza e bambini, per evitare esposizioni dannose e per promuovere la sicurezza ambientale e sanitaria a lungo termine.
Qual è il destino dell’endosulfan nell’ambiente e come viene trattato?
L’endosulfan, un insetticida ad ampio spettro, rappresenta una minaccia significativa per l’ambiente, in particolare per le risorse idriche e i suoli. La sua persistenza e la possibilità di contaminare gli ecosistemi dipendono da vari fattori, tra cui la sua interazione con il suolo, l’acqua, l’aria e gli organismi viventi. La comprensione del comportamento dell’endosulfan nell’ambiente è cruciale per sviluppare strategie di gestione e bonifica adeguate.
Nel suolo, l’endosulfan può entrare in contatto con la superficie tramite l'erosione, il deflusso o il trasporto atmosferico, e può persistere per settimane o mesi. La sua adsorbimento ai colloidi del suolo è uno dei principali meccanismi che ne aumenta la permanenza. Questo insetticida, infatti, ha una moderata affinità per i colloidi del suolo, il che ne riduce la mobilità ma allo stesso tempo favorisce il suo trasporto attraverso il deflusso verso corpi idrici superficiali. L’acidità del suolo gioca un ruolo fondamentale nella sua degradazione: in terreni acidi, infatti, l’idrolisi dell’endosulfan è ostacolata, prolungando la sua presenza nel suolo. Nonostante ciò, il rischio che l’endosulfan raggiunga le falde acquifere è limitato a suoli neutri o leggermente acidi, dove un flusso preferenziale potrebbe facilitare il suo trasporto nelle acque sotterranee.
In acqua, l’endosulfan è principalmente trasportato tramite deriva da spruzzo e deflusso. Entrambi gli isomeri, α e β, così come il suo prodotto di degradazione, l’endosulfan solfato, sono trasportati attraverso questi processi. In ambienti acquatici, l’idrolisi è il principale meccanismo di degradazione, ma la velocità di questo processo dipende da vari fattori come il pH, il potenziale redox e la popolazione microbica. Un’importante via di trasformazione in acqua è la conversione dell’endosulfan in endosulfan diolo, un metabolita meno tossico, mentre l’endosulfan solfato si degrada più lentamente. La reattività dell’endosulfan verso l’ossidazione dipende dall'isomero: l'isomero α è facilmente convertito in endosulfan solfato, mentre l’isomero β mostra una minore reattività in questo processo.
Nell'atmosfera, l’endosulfan entra principalmente tramite volatilizzazione o trasporto di vapore. Quando applicato ai coltivi, l’endosulfan evapora dalla superficie delle colture e viene trasportato come vapore. Il trasporto tramite polvere è un altro processo che contribuisce alla sua diffusione nell’aria, influenzato da fattori come le condizioni meteorologiche, la geografia e le attività antropiche. Nonostante l’endosulfan non sia suscettibile di degrado atmosferico rapido, reagisce con il radicale idrossile (OH) nell'atmosfera, un processo che aiuta a rimuovere l’endosulfan gassoso.
La sua presenza nell’aria, purtroppo, può anche estendersi a lunghe distanze: sono stati riscontrati residui di endosulfan in ambienti remoti come l'Artico, grazie al suo trasporto a lunga distanza. Questo fenomeno è legato alla volatilizzazione, al trasporto di vapore e al trasporto tramite deflusso. Le condizioni meteorologiche regionali e le attività agricole contribuiscono significativamente alla sua presenza atmosferica.
Nella biota, ovvero negli organismi viventi, l’endosulfan non è particolarmente persistente, poiché viene facilmente metabolizzato dagli animali terrestri e acquatici. Tuttavia, è altamente tossico per alcune specie acquatiche, in particolare i pesci, che mostrano una sensibilità estrema a questo insetticida. È stato riportato che il rilascio di endosulfan nei fiumi abbia causato la morte di pesci. Sebbene la tossicità per le api sia moderata, in laboratorio è stata riscontrata alta tossicità per gli uccelli, anche se in campo non si sono verificati casi di avvelenamento. La bioaccumulazione di endosulfan è stata documentata in organismi marini come le cozze, dove si è osservata una concentrazione 600 volte superiore a quella ambientale.
La bonifica dei siti contaminati da endosulfan è fondamentale per ridurre i rischi per gli ecosistemi. La degradazione dell’endosulfan nel suolo e nell’acqua può avvenire attraverso metodi fisico-chimici e biologici. Tra i metodi fisico-chimici più comuni ci sono l'adsorbimento, l’ossidazione avanzata, la fotodegradazione e la filtrazione mediante membrane. Per quanto riguarda i metodi biologici, il degrado microbico mediato da batteri e funghi, così come la fitodepurazione attraverso le piante, sono soluzioni promettenti. Ogni metodo presenta vantaggi e svantaggi: l'adsorbimento, ad esempio, è un processo economico, ma non specifico, e può essere applicato a tutti i tipi di contaminanti. L’utilizzo di carbone attivo è il metodo più comune, ma sono in corso ricerche su soluzioni più ecologiche e mirate.
Per garantire una gestione efficace dei residui di endosulfan, è essenziale monitorare non solo la sua presenza diretta nell’ambiente, ma anche i suoi metaboliti e i meccanismi di trasporto, che permettono a questo insetticida di diffondersi rapidamente in ecosistemi distanti.
Perché gli SCCP sono ancora ovunque, nonostante il divieto?
Nonostante l'inclusione degli SCCP (paraffine clorurate a catena corta) nella lista delle sostanze da eliminare secondo la Convenzione di Stoccolma nel 2017, e il conseguente divieto della loro produzione, utilizzo e importazione in vari paesi — tra cui il Canada sin dal 2013 — queste sostanze continuano a essere ampiamente presenti in prodotti di consumo comuni. L'evidenza empirica è schiacciante: in uno studio condotto su 96 prodotti acquistati dopo l'entrata in vigore del divieto canadese, gli SCCP sono stati rinvenuti in 84 casi, tra cui dispositivi elettronici, abbigliamento, vernici, plastiche e, fatto ancor più allarmante, giocattoli di recente produzione. Questo dato solleva gravi interrogativi sulla persistenza della contaminazione indoor e sulle vie attraverso cui queste sostanze continuano a infiltrarsi nel mercato.
La composizione omologa dei SCCP varia notevolmente a seconda dell’ambiente e del contesto industriale. Nei prodotti tecnici analizzati (tra cui Witaclor, Cereclor, Hüls e Hordalub), i gruppi C13 risultano dominanti, mentre i C10 costituiscono meno del 7% della miscela. A livello ambientale, però, il comportamento degli SCCP è determinato dalla loro distribuzione tra fase gassosa e particellare. Le catene più corte e con minor grado di clorazione tendono a trovarsi in forma gassosa, favorendone il trasporto atmosferico su lunghe distanze. In aree remote, ad esempio, sono stati rilevati SCCP C10 in percentuali fino al 66,1%, a conferma della loro capacità di migrazione globale.
La produzione globale continua a crescere nonostante i divieti regionali. La Cina rimane il principale produttore e consumatore mondiale di SCCP, con circa 100–150 produttori attivi. Anche l’India ha una produzione significativa, con volumi che nel 2011 hanno raggiunto le 150.000 tonnellate. Dati storici mostrano una produzione distribuita in tutto il mondo: Nord America, Russia, Thailandia, Bangladesh, Giordania, Australia, con tonnellaggi che vanno da 1.000 a oltre 27.000 tonnellate annuali. L’Unione Europea registra volumi compresi tra 10.000 e 100.000 tonnellate all’anno. È evidente che, malgrado gli impegni internazionali, l’economia globale continua a sostenere la catena produttiva degli SCCP, spesso attraverso lacune normative o scarsa tracciabilità delle sostanze nei prodotti finiti.
Nel contesto ambientale, gli SCCP sono presenti ovunque: nell’aria, nel suolo, nelle acque superficiali, nei sedimenti e negli organismi viventi. Le concentrazioni atmosferiche mostrano variazioni stagionali, in
Come valutare e gestire i rischi nei siti contaminati da solventi clorurati?
La gestione dei siti contaminati da solventi clorurati come il tetracloroetilene (PCE), il tricloroetilene (TCE), il dicloroetilene (DCE) e il cloruro di vinile (VC) richiede un approccio sistematico e multidisciplinare. Il PCE è sospettato di essere cancerogeno, mentre il VC è confermato come cancerogeno per l’uomo. La presenza simultanea di questi composti, con differenti livelli di tossicità, genera una pluma contaminante complessa e dinamica che impone una valutazione attenta della distribuzione spazio-temporale e della tossicità cumulativa.
Per comprendere l’impatto sulla salute umana, è necessaria una modellizzazione dettagliata del destino e del trasporto dei contaminanti, tenendo conto delle incertezze nei parametri dell’acquifero. L’analisi probabilistica del rischio sanitario diventa quindi imprescindibile per valutare in modo completo le implicazioni delle degradazioni tossiche del PCE. L’approccio richiesto va oltre la semplice rilevazione della contaminazione: implica la costruzione di un modello concettuale del sito (CSM) capace di rappresentare accuratamente la distribuzione delle sostanze chimiche e i processi che ne governano la trasformazione.
A livello internazionale, la bonifica di siti contaminati viene gestita attraverso fasi ben definite: investigazione del sito, valutazione del rischio, progettazione e attuazione della bonifica, e infine monitoraggio. Negli Stati Uniti, l’Interstate Technology and Regulatory Council (ITRC) ha definito una strategia integrata per i siti contaminati da DNAPL (fasi liquide dense non acquose), strutturata in cinque componenti principali: sviluppo del CSM, definizione di obiettivi SMART, selezione sinergica delle tecnologie di trattamento, modellizzazione e monitoraggio orientati alla performance, e riconsiderazione continua della strategia.
L’efficacia della bonifica si fonda sull’accuratezza dell’indagine iniziale. I DNAPL tendono a migrare lungo percorsi di minima resistenza e si accumulano in corrispondenza di discontinuità di permeabilità. Le zone sature con DNAPL residui rappresentano fonti persistenti di contaminazione che possono generare plumi disciolti estesi. L’identificazione tempestiva e precisa delle sorgenti DNAPL è essenziale: l’assenza di un campionamento mirato può portare alla sottovalutazione del rischio, rilevando solo tracce diluite nella falda.
L’indagine del sito dovrebbe seguire un processo graduale che parte dalla raccolta di dati storici, prosegue con il sopralluogo e la pianificazione, e culmina con indagini di campo e l’analisi dei dati. L’interpretazione integrata consente la delimitazione della contaminazione e la definizione di strategie successive. La scelta delle tecnologie investigative, sia dal punto di vista logistico che analitico, incide profondamente sull’efficacia delle indagini ambientali. L’ottimizzazione delle tecniche di caratterizzazione rappresenta un obiettivo centrale nella formazione continua di professionisti del settore ambientale.
Le tecniche investigative si dividono in invasive e non invasive. Le metodologie invasive, come la perforazione, il campionamento e il monitoraggio attraverso piezometri, forniscono dati di alta precisione ma comportano costi e risorse significativi. Le tecniche non invasive, come la geofisica, permettono una prima analisi rapida del sito e aiutano a guidare il campionamento invasivo, senza però sostituirlo.
Tra le tecniche geofisiche non invasive, il Ground Penetrating Radar (GPR) utilizza impulsi elettromagnetici per mappare strutture nel sottosuolo con alta risoluzione. È particolarmente utile in terreni asciutti e poco conduttivi, ma presenta limitazioni in profondità (generalmente inferiori a 10 metri) e in terreni argillosi o saturi. Il GPR è efficace per identificare contaminazioni superficiali recenti o per supportare la definizione preliminare del CSM.
Un’altra tecnica è il metodo elettromagnetico a induzione (EM), che misura le variazioni di conducibilità nel sottosuolo attraverso l’interazione tra campi elettromagnetici primari e secondari. Le differenze di conducibilità possono indicare la presenza di contaminanti o rifiuti sepolti. L’EM è particolarmente utile per analisi di larga scala, anche se non fornisce una risoluzione sufficiente per caratterizzare in dettaglio zone sorgente o plumi contaminanti.
L’integrazione delle tecniche invasive e non invasive consente di sfruttarne le complementarità. Una pianificazione coordinata tra le indagini di campo e le analisi di laboratorio è essenziale per sviluppare modelli concettuali affidabili senza superare i limiti di
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