Trump ha saputo trasformare l’economia americana durante il suo mandato, approfittando di una base di consenso che, pur non essendo mai al di sopra del 50%, ha trovato il suo punto di forza in un settore in cui ha sempre rivendicato successo: l’economia. Nel gennaio 2020, la sua popolarità in merito alla gestione economica raggiungeva il 56%, a dimostrazione di come, nonostante le critiche generali, il suo approccio economico fosse riconosciuto come efficace da una porzione consistente della popolazione. La sua campagna elettorale per la rielezione era fortemente ancorata ai temi del populismo e del protezionismo, filoni che avrebbero guidato la sua azione politica e la sua visione economica.
Trump si presentava come il paladino della classe operaia americana, vantandosi della sua abilità nel "fare affari". La sua promessa di essere "il presidente dei posti di lavoro più grande che Dio abbia mai creato" riecheggiava nelle sue dichiarazioni pubbliche. Non solo vantava risultati, come l’aumento del reddito medio delle famiglie statunitensi da 54.000 a 65.000 dollari tra il 2016 e il 2020, ma sosteneva anche di aver ridotto il tasso di povertà dal 15,5% al 12,8%. Tra il 2016 e il 2019 furono creati 6,4 milioni di posti di lavoro, e i salari, una volta adeguati all'inflazione, sono aumentati nel corso dei primi tre anni del suo mandato.
Tra i suoi principali successi legislativi figura il Tax Cuts and Jobs Act del dicembre 2017, una riforma fiscale che prevedeva una riduzione delle imposte individuali e una drastica riduzione dell’imposta sulle società dal 35% al 21%. Questa legge fu vista da molti, tra cui l’allora Ministro delle Finanze australiano Scott Morrison, come un modello da emulare. Tuttavia, questi tagli fiscali vennero a un costo, poiché il deficit federale aumentò considerevolmente, con un incremento stimato di 3,1 trilioni di dollari nei successivi dieci anni. Trump, d’altronde, avendo vissuto in prima persona crisi aziendali e bancarotte, era assai poco preoccupato dall’idea di un debito crescente.
Il concetto di "America First" che Trump promuoveva non si limitava alla sfera fiscale, ma si estendeva anche alla sua politica commerciale e monetaria. Il suo approccio alle politiche economiche era fortemente orientato al protezionismo, ritenendo che il commercio internazionale fosse una minaccia alla sicurezza nazionale. Le sue battaglie commerciali si concentravano su settori strategici come acciaio, automobili, semiconduttori, e tecnologia, in un conflitto sistematico con altre economie globali. La sua visione isolazionista lo portò ad attaccare le principali istituzioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite, la NATO, e la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio, accusandole di non rispondere più agli interessi americani.
Una delle guerre commerciali più significative e simboliche del suo mandato fu quella con la Cina, che culminò nell’imposizione di dazi su oltre 360 miliardi di dollari di merci cinesi. Nonostante il tentativo di un accordo transitorio nel gennaio 2020, le tariffe rimasero in vigore, con l’impegno da parte della Cina di acquistare prodotti statunitensi per un valore di 200 miliardi di dollari nei successivi due anni. Tuttavia, il costo di questa guerra commerciale fu pesante, con le aziende americane costrette a pagare miliardi di dollari in tariffe, e i produttori agricoli statunitensi a perdere gran parte del loro mercato di esportazione in Cina. Nonostante la retorica protezionistica, il deficit commerciale con la Cina non diminuì ma, al contrario, aumentò, mettendo in luce le contraddizioni di una politica economica che, pur mirando a ridurre il deficit, finiva con l’aggravarlo.
Per l’Australia, nonostante il mancato inserimento nella lista principale di paesi target della guerra commerciale di Trump, gli effetti furono comunque tangibili. In particolare, le esportazioni australiane di acciaio e alluminio furono messe sotto pressione dai dazi imposti dal presidente. Tuttavia, l’ambasciatore australiano negli Stati Uniti, Joe Hockey, riuscì a proteggere l’Australia grazie ai legami storici e strategici tra i due paesi. Nonostante ciò, Trump abbandonò subito l’Accordo Transpacifico (TPP), dimostrando il suo approccio isolazionista nei confronti degli accordi multilaterali, a discapito delle economie più piccole che avevano investito nel trattato.
Le politiche di Trump, con il suo attacco alla globalizzazione e al libero scambio, hanno accelerato un processo di declino delle strutture economiche e politiche internazionali che sembravano consolidate. Le sue azioni e dichiarazioni hanno posto una domanda centrale: stiamo assistendo alla fine di un’era di globalizzazione? Gli sviluppi recenti, come l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 e l’ascesa della Cina sotto Xi Jinping, suggeriscono che le risposte a questa domanda potrebbero essere più complesse di quanto non appaiano. La globalizzazione potrebbe essere in fase di ripensamento, con le economie nazionali che cercano di proteggersi dai rischi legati a una crescente interdipendenza internazionale.
Oltre alla guerra commerciale con la Cina, le politiche di Trump hanno messo in luce la crescente difficoltà nel mantenere una leadership globale che possa rispondere alle sfide politiche, economiche e ambientali. In un contesto globale sempre più frammentato, la visione "America First" di Trump non solo ha sollevato interrogativi sul futuro del commercio internazionale
Perché il Sistema Elettorale Australiano È Un Modello da Seguire
Nel corso della storia, le democrazie hanno dovuto affrontare sfide in cui l’integrità del processo elettorale è stata messa in discussione. L'ultimo decennio ha visto l'emergere di fenomeni preoccupanti, tra cui la diffusione di teorie infondate come quella del “Grande Inganno”, che ha cercato di delegittimare l’esito di elezioni legittime. Un esempio lampante è quello della politica statunitense, dove le affermazioni di frodi elettorali senza fondamento hanno alimentato l'instabilità, culminando nell'assalto al Campidoglio del gennaio 2021. In Australia, tuttavia, un altro approccio al voto e alla transizione di potere mostra come sia possibile preservare la stabilità democratica, minimizzando le tentazioni di manipolare il processo elettorale.
Dopo le elezioni federali australiane del 2022, il paese ha vissuto una transizione di potere che ha evidenziato la forza della democrazia australiana. Il primo ministro uscente Scott Morrison ha concesso la sconfitta poche ore dopo la chiusura dei seggi, e ancor prima che fosse chiaro che il leader del Partito Laburista, Anthony Albanese, avesse ottenuto una maggioranza chiara. Questa prontezza nel riconoscere i risultati, senza che venissero sollevate accuse di frode o manipolazioni, ha facilitato una transizione senza intoppi, con Albanese che, appena 36 ore dopo la vittoria, si è recato in Giappone per incontrare i leader di Giappone, India e Stati Uniti. In contrasto con la cultura della denigrazione dei risultati elettorali che ha caratterizzato altre democrazie, come gli Stati Uniti, l’Australia ha dimostrato che una sconfitta elettorale, anche in circostanze in cui i seggi sono stati conquistati con margini molto stretti, non deve essere accompagnata da teorie complottiste.
Un esempio interessante è il caso del collegio di Gilmore, uno dei più combattuti, in cui il candidato liberale Andrew Constance ha perso di soli 373 voti su 111.705 espressi. Nonostante la rilevanza del risultato, Constance non ha contestato la sconfitta né ha richiesto un riconteggio dei voti. La sua sconfitta è stata accettata senza riserve, e non si è mai insinuato il dubbio che ci fosse stato qualcosa di irregolare nel processo elettorale. Questo atteggiamento è in netto contrasto con le pratiche viste in altri paesi, dove, in situazioni simili, i perdenti hanno tentato di sabotare il risultato, denunciando falsi brogli e minando la fiducia nel sistema.
A livello legislativo, il governo australiano ha anche affrontato tentativi di modificare il sistema elettorale. Nel 2021, Scott Morrison ha proposto una riforma che avrebbe imposto l’obbligo di mostrare un documento di identità valido per votare. Sebbene la proposta fosse simile a quelle introdotte in altri paesi, come gli Stati Uniti, per limitare la partecipazione elettorale tra le minoranze, la proposta australiana ha incontrato una resistenza significativa. Il Commissario Elettorale australiano ha chiarito che non esisteva alcuna prova di frodi elettorali che giustificasse una tale riforma, sottolineando che le irregolarità nel voto erano minime. Questi tentativi di introdurre leggi discriminatorie, che avrebbero avuto un impatto sproporzionato sulle comunità indigene e migranti, sono stati respinti, un chiaro segno che la politica australiana sta cercando di mantenere un sistema elettorale inclusivo e accessibile a tutti i cittadini.
Al contrario, negli Stati Uniti, dove le leggi elettorali sono state spesso manipolate per limitare la partecipazione delle minoranze, la legislazione volta a restringere l’accesso al voto ha avuto un impatto diretto sui gruppi emarginati. Le recenti leggi in stati come Georgia, Texas e Arizona hanno reso più difficile il voto per le persone di colore, con limitazioni sul voto anticipato, sul numero di urne per la raccolta dei voti e sull'accesso ai voti per posta. La mancanza di un sistema universale di voto come quello australiano ha permesso la creazione di ostacoli legali che minano l’uguaglianza di accesso alle urne, il che rappresenta un serio problema per la democrazia americana.
Nel contesto di queste differenze, il sistema elettorale australiano emerge come un modello di stabilità e giustizia. Il voto universale, che garantisce a ogni cittadino il diritto di esprimere il proprio parere senza ostacoli artificiali, insieme alla presenza di meccanismi che garantiscono la trasparenza e la legittimità del processo, rafforza la fiducia della popolazione nelle istituzioni democratiche. La democrazia australiana non è perfetta, ma offre un esempio di come una transizione di potere pacifica, basata su un sistema elettorale equo e inclusivo, possa contribuire a una società più stabile e coesa.
La lezione che emerge da questa analisi è chiara: la protezione del diritto di voto è essenziale per il mantenimento della democrazia. Le modifiche alle leggi elettorali devono sempre essere scrutinizzate per garantire che non siano indirizzate a limitare l’accesso al voto di gruppi vulnerabili. Allo stesso tempo, è cruciale che i leader politici, quando perdono, accettino il risultato elettorale, senza cedere alla tentazione di mettere in discussione l’integrità del processo attraverso narrazioni infondate. In questo modo, si preserva non solo la democrazia, ma anche la fiducia reciproca tra i cittadini e le loro istituzioni.
L'influenza della manipolazione dei media nella politica: Dal "fake news" alla creazione di un nuovo ordine mediatico
Oggi, sia in Australia che negli Stati Uniti, quando un politico desidera ignorare o mettere a tacere una notizia che non vuole affrontare, basta etichettarla come "fake news"—e non è più necessario darle alcuna credibilità. Questo ricorso alla terminologia "fake news", come afferma il veterano giornalista Michael Brissenden, ha concesso al governo e ai politici una licenza per non rispondere ai media. L'uso di tale termine, infatti, consente a personaggi come Trump di avere più flessibilità nel non rispondere alle proprie responsabilità, poiché si nega legittimità ai giornalisti. Il termine è diventato una vera e propria scorciatoia per evitare il confronto con la verità. Ma l’aspetto particolarmente pericoloso del linguaggio di Trump non è solo l’uso di "fake news", ma l’impiego della frase "nemico del popolo" rivolta ai giornalisti. Questo accostamento richiama un linguaggio che ha segnato tragedie storiche, come il termine utilizzato da Stalin contro i suoi nemici in Unione Sovietica, che ha portato alla morte di milioni di persone durante e dopo il suo regime. La parola "nemico del popolo" non solo giustificava la repressione, ma eliminava la necessità di provare eventuali errori ideologici.
Questa terminologia aggressiva e totalitaria, che accusa i giornalisti di essere "nemici", si inserisce perfettamente nella strategia di Trump di rifiutare ogni tipo di critica e di delegittimare chiunque non fosse d'accordo con lui. Già durante la sua campagna elettorale, Trump avrebbe puntato il dito contro i giornalisti durante i suoi comizi, deridendoli e incitando la folla contro di loro, alimentando un clima di violenza verbale che culminò in veri e propri attacchi fisici ai cronisti. È interessante notare che Trump ha saputo utilizzare i media a proprio favore, distorcendoli, riducendoli alla sua visione del mondo. Non si trattava più di un semplice gioco di schieramenti tra il mondo dei media tradizionali e quello della politica, ma di una vera e propria battaglia per il controllo dell'informazione.
Trump ha scelto di allearsi con media che rispecchiavano la sua visione radicale e populista, come Fox News e il sito Breitbart, mentre combatteva contro i grandi colossi dei media liberali come la CNN e il New York Times. La sua abilità nel manipolare e controllare le narrazioni è evidente nell’uso che fece della Fox News: non solo un alleato politico, ma uno strumento strategico per raggiungere la sua base di elettori. L’influenza di Murdoch, il fondatore di Fox, nel plasmare l’opinione pubblica attraverso il controllo dell'informazione si rivelò fondamentale. Murdoch aveva intuito che un pubblico ampio e appassionato non cercava tanto una visione conservatrice, quanto un'alternativa basata sulla paura e sull'odio, legata ai temi di classe e razza. Questo pubblico era il terreno fertile per la crescita di una figura politica come Trump, che ha saputo interpretare le sue paure e frustrazioni per costruire il proprio consenso.
Nel contesto di questa dinamica, la relazione tra Trump e i media di estrema destra è diventata sempre più simbiotica. Le sue politiche e dichiarazioni venivano spesso modificate o rafforzate da ciò che veniva trasmesso su Fox, a dimostrazione di quanto il presidente fosse sensibile alla narrazione proposta dai suoi alleati nei media. Le politiche, come il muro con il Messico o le guerre commerciali, trovavano nel media di Murdoch una potente risonanza che le legittimava agli occhi dei suoi sostenitori.
In questo scenario, Trump ha messo in atto un'operazione mediatica che mirava a creare un vero e proprio monopolio dell'informazione. Gli elettori non erano più solo spettatori passivi, ma parte di un meccanismo in cui il media svolgeva un ruolo fondamentale. Trump non cercava solo di ottenere il supporto dei media tradizionali, ma di minare il loro potere e costruire una sua versione della realtà. In questa versione, la verità veniva relativizzata e rimpiazzata da una narrazione di potere e controllo, in cui solo chi sosteneva il presidente aveva accesso a una "verità" alternativa, costruita e veicolata attraverso i canali che lui stesso aveva plasmato.
La strategia mediatica di Trump ha avuto effetti duraturi e profondi non solo sulla politica, ma sulla stessa struttura dell’informazione. La sua abilità nel trasformare i media in un campo di battaglia per la sua narrativa ha contribuito a una polarizzazione crescente, creando un divario tra chi accettava il suo dominio mediatico e chi rimaneva ancorato alla tradizione del giornalismo indipendente.
Nel contesto di questa manipolazione, è importante notare che il potere dei media non risiede solo nel loro controllo, ma nella capacità di influenzare la percezione pubblica e di orientare il dibattito politico. La comprensione di come un leader come Trump abbia modellato la percezione della realtà attraverso i media è fondamentale per comprendere la contemporaneità della politica. Questo fenomeno non è solo una questione di battaglie politiche, ma di come l'informazione venga utilizzata per costruire o distruggere realtà sociali e politiche.

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