Le tattiche, a differenza delle strategie, sono azioni decentralizzate, prive di potere istituzionale, ma caratterizzate da una flessibilità pressoché illimitata. Sebbene non siano in grado di rivoluzionare il sistema, le tattiche sono sufficientemente efficaci per impedire che le istituzioni, con le loro strategie, schiaccino l’individuo. Queste si manifestano spesso in modo nascosto, evitando il confronto frontale, e per questo risultano difficili da osservare e studiare dagli studiosi sociali. La loro natura furtiva spiega anche la storica sottovalutazione del consumo culturale rispetto alla produzione, in particolare nei contesti della geopolitica popolare.

Un esempio emblematico di tattica applicata è l’analisi di Jonathan Leib sulle targhe automobilistiche come strumenti governativi per diffondere immagini geopolitiche ufficiali. Nel 1961, le targhe della Repubblica Dominicana recavano la scritta “Era de Trujillo”, riferimento al regime autoritario di Rafael Trujillo. Dopo l’assassinio del dittatore, i cittadini hanno rimosso con astuzia la parte superiore della targa, dismettendo il simbolo del potere attraverso una manovra tattica che ha ridisegnato il discorso sull’identità nazionale. Questo tipo di intervento rappresenta un caso paradigmatico di come il consumo e l’uso quotidiano di oggetti materiali diventino un terreno di lotta e negoziazione culturale.

La cultura materiale occupa un ruolo centrale nella comprensione della cultura popolare contemporanea. Mentre gli studi culturali hanno tradizionalmente privilegiato l’analisi di rappresentazioni, discorsi e testi, solo di recente è stata riconosciuta l’importanza degli oggetti fisici — o “stuff”, come li definisce Daniel Miller — che permeano la vita quotidiana in forme molteplici e diversificate: DVD, riviste, libri, giocattoli, moda, televisioni, cinema, stadi e locali notturni. Tali oggetti non sono meri contenitori o elementi passivi, ma partecipano attivamente alla costruzione dell’identità, della comunicazione e delle relazioni sociali.

Bruno Latour ha contribuito in modo fondamentale a superare la dicotomia tradizionale tra umano e non-umano, proponendo un’analisi delle reti di attanti che comprendono esseri umani e oggetti. In questa prospettiva, gli oggetti acquisiscono un’“agenzia” quando interagiscono con le persone e con altri attanti non umani, trasformando i modi in cui viviamo e interpretiamo la cultura popolare. Il telefono intelligente, per esempio, diventa un’estensione del sé, mediando esperienze di intrattenimento, comunicazione e informazione.

L’importanza degli oggetti materiali si riflette anche nel campo della geopolitica popolare. Un caso significativo è il giocattolo “Action Man”, lanciato nel 1966 nel Regno Unito come una versione militarizzata del G.I. Joe americano. Con le sue articolazioni mobili e il suo equipaggiamento realistico, Action Man ha normalizzato e reso familiare l’immaginario della guerra e della violenza militare nell’ambito domestico, contribuendo a diffondere culture militari a livello sociale. Nel 2009, il Ministero della Difesa britannico ha ulteriormente promosso questa tendenza con la linea di giocattoli “H.M. Armed Forces”, mirata a migliorare l’immagine delle forze armate.

Nonostante la forte impronta politica e militare con cui questi oggetti sono progettati, essi rimangono aperti a interpretazioni e usi creativi che possono sovvertire o contestare il loro significato originario. Il movimento Veterans for Peace UK, attraverso la campagna “Battlefield Casualties”, ha impiegato queste action figures come simboli di dissenso contro le pressioni al reclutamento militare nei giovani, mostrando come la materialità degli oggetti possa essere riappropriata per esprimere resistenza.

La comprensione della cultura popolare e della geopolitica richiede quindi un’attenzione particolare ai modi in cui gli oggetti materiali si inseriscono nelle pratiche quotidiane e nei contesti sociali, acquisendo significati geopolitici specifici. Questi oggetti sono nodi di interazione che riflettono, riformulano e a volte contestano le strutture di potere esistenti.

È fondamentale riconoscere che gli oggetti materiali non sono mai neutri né completamente determinati dal produttore. La loro interpretazione è sempre aperta e modellata dall’uso concreto che ne fanno gli individui, i quali possono conferirgli nuovi significati e utilizzarli come strumenti di negoziazione culturale e politica. Questa dinamica sottolinea l’importanza di analizzare la cultura popolare non solo come produzione simbolica ma anche come pratica materiale e tattica.

Come si manifesta il nazionalismo banale nella vita quotidiana e qual è il suo ruolo nella costruzione delle identità nazionali?

Il concetto di nazionalismo banale, come illustrato da Billig, si riferisce a quel processo sottile e quasi impercettibile attraverso cui l’appartenenza nazionale si radica nelle esperienze quotidiane dei cittadini, spesso senza bisogno di manifestazioni esplicite. Un esempio emblematico è l’uso della bandiera nazionale: mentre in occasioni pubbliche come manifestazioni o eventi sportivi la sua presenza è evidente e funzionale a esprimere il nazionalismo, nella vita di tutti i giorni le bandiere sono ovunque, ma quasi invisibili perché “non sventolate”. Esse decorano edifici pubblici, francobolli, adesivi sulle automobili, magliette e persino la grafica delle previsioni meteorologiche in televisione, normalizzando così l’idea di nazione e creando una base simbolica costante che rinforza l’identità nazionale senza richiedere una partecipazione emotiva diretta.

Il nazionalismo banale funziona come un serbatoio di significati e di sentimenti collettivi, pronti ad essere mobilitati in momenti di crisi o competizione, come dimostra l’esempio delle Olimpiadi. In questo contesto, un evento originariamente pensato per promuovere la pace tra le nazioni si trasforma in un’arena di rivalità nazionalistica, dove i racconti mediatici enfatizzano la competizione tra atleti come metafora di conflitti più ampi tra Stati, con narrazioni che spesso esaltano i vincitori nazionali e riducono gli avversari a semplici ostacoli da superare. Il carattere affettivo e emotivo di queste rappresentazioni rinforza il senso di appartenenza collettiva, facendo emergere una forma di nazionalismo che coinvolge l’intera popolazione, sebbene solo in modo episodico e ritualizzato.

Tuttavia, nella maggior parte dei paesi stabili come gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Francia, il nazionalismo banale si manifesta prevalentemente come una presenza latente e discreta. La stabilità e la sicurezza di questi Stati consentono ai cittadini di percepire la propria identità nazionale come un dato acquisito e stabile, senza la necessità di dichiarazioni o celebrazioni vistose. Questo atteggiamento permette di adottare una sorta di superiorità morale rispetto a nazioni meno fortunate che devono continuamente riaffermare la propria esistenza attraverso esibizioni nazionalistiche più plateali.

Tuttavia, quando si verifica una crisi, come nel caso degli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, il nazionalismo banale si trasforma rapidamente in un nazionalismo più esplicito e visibile. La domanda improvvisa e massiccia di bandiere americane, anche se fabbricate all’estero, e la diffusione di simboli patriottici sulle automobili dimostrano quanto profondamente il senso di appartenenza nazionale sia radicato nella coscienza collettiva, pronto a riaffiorare con forza quando la sicurezza dello Stato sembra minacciata.

Un ulteriore aspetto cruciale da considerare è la natura intertestuale della cultura popolare e della geopolitica. Le narrazioni, le immagini e i discorsi che plasmano le nostre identità nazionali e geopolitiche non si sviluppano mai isolatamente ma si intrecciano in un sistema complesso di influenze reciproche. La politica e la cultura popolare si modellano a vicenda, come dimostra l’esempio del presidente George W. Bush, la cui comunicazione pubblica riflette i modelli culturali consolidati del cinema western americano, a sua volta ispirato a idee di eroismo e conflitto nazionale. Questo scambio continuo di simboli e significati crea un terreno fertile per la formazione di identità collettive e per la comprensione delle dinamiche geopolitiche.

L’importanza di studiare il nazionalismo banale e la sua manifestazione quotidiana risiede nel riconoscere come le identità nazionali non siano semplicemente dati storici o politici, ma processi vivi e costantemente riprodotti attraverso le pratiche culturali ordinarie. Questi processi non solo rafforzano il senso di appartenenza, ma preparano anche il terreno per risposte collettive nei momenti di tensione o crisi.

È essenziale comprendere che il nazionalismo banale, pur apparentemente innocuo e integrato nella routine quotidiana, svolge un ruolo fondamentale nella stabilizzazione degli Stati e nella definizione delle identità individuali e collettive. La sua forza risiede nella capacità di essere presente senza essere percepito, ma al tempo stesso di attivarsi con grande potenza emotiva quando la coesione nazionale viene messa in discussione. Perciò, oltre alle evidenze simboliche e narrative, il lettore deve considerare il nazionalismo come una dimensione emozionale e affettiva che permea la società, influenzando il modo in cui le persone si percepiscono e interagiscono nel contesto geopolitico globale.

Cosa ci fanno sentire i videogiochi a tema militare?

Le riflessioni recenti nell’ambito della geopolitica critica si stanno gradualmente spostando dal dominio esclusivo del discorso e della rappresentazione verso l’esplorazione di ciò che accade al di là delle parole: l’affetto, il corpo, e l’esperienza quotidiana. Se nei capitoli precedenti si è analizzato il modo in cui le rappresentazioni modellano la percezione dei luoghi e delle identità, l’attenzione si concentra ora sull’intensità degli effetti corporei e sensoriali, sui legami precognitivi che plasmano il nostro comportamento e la nostra comprensione del mondo.

Il concetto di “affetto” si colloca esattamente in questo spazio interstiziale tra il corpo e l’ambiente, tra la biologia e il sociale. Non si tratta semplicemente di emozioni, ma di sensazioni primarie, spesso inconsapevoli, che orientano il nostro agire prima ancora che si formi un pensiero articolato. È il riflesso che ci fa ritirare la mano da una superficie incandescente, è la repulsione istintiva davanti a un tabù culturale, è il disagio fisico in un luogo ostile o, al contrario, la rilassatezza indotta da un ambiente rassicurante.

Nel contesto della cultura popolare – e in particolare dei videogiochi a tema militare – queste dinamiche affettive assumono un ruolo centrale. Non si tratta più soltanto di ciò che i giochi rappresentano – le guerre, i nemici, le strategie – ma di ciò che fanno al corpo del giocatore. La tensione muscolare durante una missione furtiva, l’adrenalina del combattimento, la connessione empatica con i commilitoni virtuali: tutto ciò opera a un livello precognitivo, costruendo una forma di partecipazione intensamente incarnata. Il corpo viene mobilitato e risvegliato in un sistema di risposte che si colloca tra il fisiologico e il simbolico.

Questa forma di affetto si declina in vari modi. Uno di essi è la contagiosità: l’affetto si propaga tra i corpi, si trasmette attraverso il linguaggio non verbale, i suoni ambientali, le vibrazioni condivise. In un videogioco, il ritmo del respiro del personaggio, il battito cardiaco accelerato simulato, la colonna sonora martellante – tutti questi elementi contribuiscono a costruire un’esperienza condivisa, pur se vissuta individualmente. La contagiosità fa sì che ciò che uno prova venga sentito, seppur in forme diverse, anche da altri: la paura, l’euforia, il sollievo non sono eventi isolati ma affetti che circolano.

Segue l’amplificazione, per cui un’esperienza minima viene trasformata in un evento memorabile. I media digitali hanno la capacità di dilatare l’impatto emotivo, di far durare nel tempo una sensazione momentanea, di trasportare un’azione localizzata in una dimensione globale. Nei videogiochi militari questo si manifesta nella costruzione di narrazioni epiche, dove ogni missione sembra avere implicazioni morali e geopolitiche universali. La percezione del pericolo o dell’onore viene quindi intensificata, rendendo l’esperienza di gioco non solo più coinvolgente ma anche ideologicamente pregnante.

La risonanza è il terzo elemento di questa dinamica: quando più affetti amplificati si sincronizzano, l’effetto risultante è esponenziale. Un momento di tensione può diventare quasi insostenibile se accompagnato da luci stroboscopiche, musica crescente, movimenti rapidi della camera di gioco. L’immersione è totale, e il giocatore è trasportato in una dimensione dove corpo e ambiente si fondono in una singola esperienza sensoriale.

Infine, si parla di atmosfere affettive: ambienti costruiti per essere “sentiti” nel corpo, più che interpretati con la mente. In questi spazi, la collettività gioca un ruolo decisivo. L’atmosfera di una sala giochi, o di una sessione online condivisa con altri giocatori, è fatta di tensione, aspettative, desideri che circolano tra i corpi. Le atmosfere affettive sono difficili da definire ma innegabili nella loro presenza. Esse modellano comportamenti, formano abitudini e sedimentano sensazioni che, col tempo, contribuiscono alla formazione dell’identità.

Tutto ciò ci riporta alla domanda iniziale: cosa ci fanno i videogiochi, al di là di ciò che ci mostrano? La teoria dell’affetto suggerisce che il nostro coinvolgimento non è solo cognitivo o narrativo, ma corporeo e viscerale. Questo coinvolgimento ha implicazioni profonde sulla costruzione del sé, sulle appartenenze culturali, sulle visioni del mondo. Giocare a un videogioco militare non è mai solo un gioco: è un’esperienza che plasma il modo in cui sentiamo lo spazio, il nemico, il corpo, la nazione.

È essenziale comprendere che le esperienze affettive non sono neutrali. Sono costruite, progettate e manipolate con cura per orientare comportamenti e desideri. Gli ambienti digitali non sono semplicemente scenari passivi: sono attori attivi nel processo di soggettivazione. Le luci soffuse di un caffè o l’architettura aggressiva di un livello di gioco sono entrambi strumenti di design affettivo. In questo senso, il corpo non è solo il recettore dell’esperienza, ma il campo stesso su cui si combatte la battaglia per il senso.