L’opera di Shakespeare Titus Andronicus è da sempre stata una delle tragedie più oscure e difficili da comprendere, in cui la violenza e la vendetta si intrecciano in una spirale che trascina tutti i personaggi verso la loro rovina. Ma nel tentativo di dare una lettura contemporanea di quest’opera, è interessante osservare come la figura di Tamora, la principale antagonista, venga a essere vista non solo come una villain, ma anche come una vittima, il che ne eleva la causa e complica la divisione netta tra il bene e il male. Così facendo, l’opera non rimane confinata a un semplice melodramma di civiltà contro barbarie, ma ci invita a riflettere sul concetto di giustizia e su come essa si manifesti in contesti di disuguaglianza.
In quest’ottica, l’adattamento di Titus Andronicus proposto da Bannon mostra una lettura radicalmente diversa. Nella sua versione, i protagonisti, gli Andronicii, vengono descritti come una razza “pura” e “nobile” che trae forza da un’aria stellare e si dedica a difendere la Terra. Questi guerrieri celesti, ibridi tra umani e spiriti, contrastano con le forze oscure rappresentate dai “Shades,” ovvero i Goths. Un gioco di luci e ombre, simbolo tradizionale del conflitto tra il bene e il male, diventa il nucleo centrale della trama, con la razza degli Andronicii che simboleggia la luce e gli Shades che incarnano l’oscurità. A questo contrasto si aggiunge la figura di Aaron, un personaggio che nella versione originale di Shakespeare è stereotipato come il Moro malvagio, ma che nell’adattamento di Bannon assume una dimensione misteriosa e carismatica, portando con sé un fascino oscuro, quasi animale, come il dio Pan.
Tuttavia, l’aspetto più interessante di quest’adattamento è il modo in cui Bannon trasforma il dramma shakespeariano in una sorta di epopea spaziale, dove la razza è messa al centro del conflitto. Nella sua rivisitazione, la guerra tra i protagonisti bianchi e i “Goths” neri non è più solo una lotta per il potere, ma diventa una battaglia cosmica tra la luce e l’oscurità, in cui la luce, che simboleggia il bene, alla fine trionfa sull’oscurità. Qui, il concetto di razza non è soltanto una questione di colore della pelle, ma diventa un simbolo di purezza, nobiltà e missione sacra, un elemento che trasforma Titus Andronicus da tragedia romana in una sorta di “Space Opera” dove il bene e il male si definiscono tramite l’appartenenza a categorie quasi sovrannaturali.
È interessante notare che Bannon, nella sua reinterpretazione, rimuove il tragicomico della storia di Shakespeare. Invece di rappresentare Titus come un nobile imperfetto e tormentato, lo trasforma in un cavaliere spaziale, un eroe assoluto che sconfigge i suoi nemici con la forza della luce. Questo passaggio dall’ambito tragico a quello eroico si riflette nel finale, dove Lucius, il figlio di Titus, emerge come il vero eroe della storia. Il conflitto che una volta caratterizzava le tragedie romane è ora traslato in un universo futuristico dove le razze sono più simboliche che mai, e il concetto di razza diventa il centro della narrazione.
Nel caso di Coriolano, Bannon ripropone una reinterpretazione altrettanto audace, questa volta ambientando la storia durante i disordini razziali di Los Angeles. Il linguaggio shakespeariano viene fuso con il dialetto del rap, creando un connubio tra il teatro elisabettiano e la cultura di strada contemporanea. La trama rimane fedele alla lotta tra Coriolano e Roma, ma l’adattamento mira a mostrare le perduranti tensioni razziali, collegando l’abuso razziale passato, come quello nelle miniere dell’Apartheid, con le violenze e le discriminazioni del presente. L’utilizzo del rap, con la sua carica di protesta e di rivendicazione, non solo dà una nuova vita al testo, ma lo ancorano a un presente che continua a confrontarsi con le cicatrici del passato.
Cosa dobbiamo comprendere, oltre a ciò che è scritto, per una lettura profonda di queste opere reinterpretate? La centralità della razza come simbolo e non solo come caratteristica fisica è un elemento cruciale per comprendere il significato di questi adattamenti. La lotta tra il bene e il male non è mai tanto semplice da essere ridotta a una divisione netta tra razze o categorie morali, ma è un conflitto che attraversa e sfida le nostre concezioni di giustizia, identità e potere. Shakespeare, nei suoi drammi, già esplorava queste tematiche, ma è attraverso l’adattamento che possiamo riconoscere come questi concetti evolvono e si manifestano nel nostro tempo, in cui le questioni di razza, potere e luce/ombra si intrecciano in un modo che nessun altro autore avrebbe potuto prevedere.
Populismo Tragico e Manipolazione Politica: La Lezione di Shakespeare e Bannon
Il populismo, nelle sue varie forme, ha sempre avuto una connessione ambigua con il potere. Da una parte, il popolo sembra essere il protagonista delle scelte politiche, ma dall’altra, è spesso manipolato da chi detiene il potere per ottenere vantaggi personali. Nei drammi di Shakespeare, questa dinamica si manifesta chiaramente attraverso i suoi personaggi che, come Tamora in Tito Andronico o Coriolano, si trovano ad affrontare una moltitudine di persone mutevoli e facilmente manipolabili, la cui volontà diventa uno strumento di vendetta e potere. In questi testi, il popolo appare come una forza tragica, incapace di mantenere una posizione stabile, e il risultato di questa instabilità è la rovina.
In Tito Andronico, Tamora, divenuta imperatrice di Roma, sfrutta la sua posizione per distruggere la città, infliggendo “una ferita civile” che segnala la decadenza dello stato. Questo tipo di manipolazione non è estraneo agli altri lavori di Shakespeare. In Coriolano, il protagonista Caius Martius disprezza la volubilità del popolo, che cambia opinione con facilità, dimenticando l’odio di un momento per adorare lo stesso individuo che prima disprezzava. L’opera mette in luce come la manipolazione politica sfrutti questa natura imprevedibile della folla, portando alla rovina chiunque tenti di governarla con sincerità.
Il populismo in Shakespeare, tuttavia, non è solo una critica alla debolezza del popolo, ma anche una denuncia della classe dirigente che sfrutta tale debolezza per accrescere il proprio potere. In Coriolano, i tribuni, simili a manipolatori moderni, riescono a incitare la folla contro il loro leader, esacerbando l’instabilità e distruggendo ogni possibilità di buon governo. La folla, instabile e facilmente governata, diventa una forza che, purtroppo, può essere spinta verso la violenza o il caos, senza una vera consapevolezza delle proprie azioni.
Un adattamento moderno di questa dinamica è evidente nelle versioni cinematografiche di Tito Andronico e Coriolano, realizzate da Steve Bannon, un nome associato al populismo contemporaneo. Bannon, attraverso i suoi adattamenti cinematografici, evidenzia come la folla sia tanto una forza per la distruzione quanto uno strumento nelle mani dei potenti. Nel suo Coriolano, la folla è descritta come passiva, facilmente incitata a ribellarsi o ad approvare qualsiasi azione politica, senza una vera comprensione del motivo per cui agisce. Così come in Tito Andronico, la folla appare come un gruppo di spettatori passivi, che non agisce in base a principi morali, ma è facilmente eccitata da eventi drammatici, pronti a cambiare opinione con la stessa velocità con cui esprimono rabbia.
Nella versione di Bannon, il popolo non è tanto protagonista della sua stessa volontà, ma piuttosto uno strumento di chi sa come manipolarlo. La critica qui non è tanto sulla volubilità del popolo quanto sulla visione di chi, come Bannon, considera la massa come una forza da dirigere e sfruttare per i propri scopi. In questo senso, il populismo di Bannon non rispetta mai la volontà popolare, ma piuttosto la costruisce artificialmente, alimentando il caos per consolidare il proprio potere. Il popolo diventa un semplice strumento nelle mani di chi sa manipolarlo, un dramma tragico che rispecchia perfettamente le dinamiche politiche illustrate nei drammi di Shakespeare.
In questo contesto, la figura di Bannon emerge come quella di un Machiavelli moderno, che non crede nella volontà genuina del popolo, ma nella sua capacità di manipolare la folla per ottenere consensi, anche a costo di sacrificare la dignità e i diritti fondamentali di alcuni gruppi. La sua visione del populismo non si fonda su un’autentica rappresentanza del popolo, ma sull’uso del popolo come strumento per garantire il benessere finanziario di altri, un processo che porta inevitabilmente alla divisione e alla perdita di valori condivisi.
Un altro aspetto fondamentale di questa dinamica è la manipolazione dei mezzi di comunicazione, in particolare i social media, che Bannon ha utilizzato con grande efficacia per raggiungere i suoi obiettivi politici. In questo senso, Bannon non è solo un manipolatore del popolo, ma anche un abile stratega che sa come sfruttare la potenza dei media per creare una narrativa che supporti le sue idee. La sua capacità di mobilitare giovani uomini marginalizzati, come i partecipanti alla cultura dei videogiochi, è un esempio di come la manipolazione del desiderio di appartenenza possa essere utilizzata per scopi politici. La stessa frenesia che caratterizza il comportamento della folla nei drammi shakespeariani è replicata nella cultura online di oggi, dove l’incitamento alla rabbia e alla rivolta è un fenomeno sempre più diffuso.
In ultima analisi, la riflessione che emerge da queste analisi non riguarda solo le dinamiche del populismo, ma il pericolo di un sistema che non considera mai veramente la volontà del popolo come espressione di una democrazia autentica. Il popolo, come evidenziato in Shakespeare e nelle sue reinterpretazioni moderne, è visto spesso come una forza irrazionale e instabile, pronta a essere manipolata. Questo non è solo un tema tragico, ma anche una lezione sulla fragilità delle democrazie moderne, che sono costantemente minacciate dalla capacità di pochi di manipolare le masse.
La Politica dell'Identità e il Merito: Riflessioni su Inclusività e Tradizione
La politica dell'affermazione delle diversità, attraverso azioni concrete come il cambiamento dei ritratti nelle università o la revisione dei canoni letterari, solleva questioni fondamentali riguardo al concetto di merito, giustizia e uguaglianza. Se, da un lato, si riconosce l'importanza della diversità culturale come strumento per arricchire l'esperienza educativa, dall'altro sussiste un'accesa resistenza all'idea che i meriti debbano essere modificati o compensati da politiche che promuovano l'inclusione di gruppi precedentemente marginalizzati.
Il dibattito che ha accompagnato il caso della Regents of the University of California v. Bakke (1978) ha rappresentato una delle prime sfide significative all'affermazione dell'azione positiva: la Corte Suprema dichiarò incostituzionali le quote razziali per l'ammissione, ma riconobbe tuttavia che la promozione della diversità come valore educativo era una pratica legittima. Da allora, il tema dell'azione affermativa è stato al centro di una dialettica complessa, con posizioni contrastanti sia a destra che a sinistra, tutte sostenute dal desiderio di giustizia e di uguaglianza, sebbene differiscano nelle modalità di attuazione di tali principi.
Le reazioni al cambiamento delle tradizioni culturali, come la sostituzione del ritratto di Shakespeare con quello di Audre Lorde in un'università, sono state variegate e intense. Da un lato, gli attivisti progressisti hanno visto in questo gesto un segno di lotta contro l'egemonia bianca e patriarcale della cultura occidentale; dall'altro, i conservatori hanno visto una minaccia alla meritocrazia, accusando i movimenti di sinistra di volere distruggere la storia culturale comune. In questo scenario, le manifestazioni di protesta e controproteste si sono intrecciate con la retorica della libertà e dell'uguaglianza, ma anche con quella della tradizione e della protezione delle radici culturali consolidate.
L'idea di meritocrazia, che dovrebbe premiare il talento, l'impegno e i risultati, entra in conflitto con l'esigenza di includere voci diverse e di riconoscere le disuguaglianze storiche. La cultura accademica, che da sempre ha esaltato le figure di scrittori e filosofi bianchi maschi, si trova a dover fare i conti con la necessità di ampliarsi, accogliendo autori e pensatori che fino ad ora sono stati ignorati. Alcuni ritengono che il canone letterario tradizionale debba rimanere intoccato, in quanto rappresenta il valore di una meritocrazia che premia il meglio della produzione intellettuale. Altri, invece, sostengono che l'inclusività è essenziale per una vera comprensione della cultura, riconoscendo che le tradizioni culturali sono costruzioni storiche che devono essere interrogate e reinterpretate.
In questo contesto, l'idea che il cambiamento possa essere simultaneamente un atto di negazione e affermazione si impone. La rimozione di un simbolo associato a una cultura dominante, come quello di Shakespeare, non significa cancellare la cultura bianca, ma piuttosto riconsiderare la pluralità di esperienze e identità che costituiscono la nostra storia collettiva. L'inclusività non deve essere vista come una forma di annullamento della tradizione, ma come una modalità di arricchimento del discorso culturale.
Tuttavia, c'è un pericolo che la politica identitaria possa sembrare, a volte, un gioco a somma zero. L'adozione di politiche inclusive, se non è accompagnata da una riflessione più ampia sulle disuguaglianze economiche e sociali, rischia di alienare parte dell'opinione pubblica, in particolare coloro che vedono nella meritocrazia una delle poche strade per una giustizia equa. In alcuni ambienti liberali, c'è la preoccupazione che l'accento posto sulle disuguaglianze identitarie possa distrarre dalla lotta per un'uguaglianza economica che, secondo loro, sarebbe la vera chiave per una società giusta. In effetti, molti critici sostengono che l'enfasi su temi come il politicamente corretto e l'inclusività possa apparire come una forma di debolezza, alimentando un sentimento di vittimismo che risulta poco attraente per gli elettori conservatori o indipendenti.
Un punto centrale che emerge da queste riflessioni è il concetto di "riconoscimento reciproco", che è alla base di molte delle opere di autori afroamericani come James Baldwin e Maya Angelou. La lettura di Shakespeare da parte di Baldwin, in particolare, offre un esempio interessante di come un autore simbolo della tradizione occidentale possa essere reinterpretato in chiave progressista. Baldwin, pur avendo inizialmente visto Shakespeare attraverso la lente dell'oppressione e del razzismo, riconosce nella sua opera una critica al tirannico, una lotta contro l'ingiustizia. La sua interpretazione del "Giulio Cesare" offre una lezione su come la resistenza può distorcere i suoi stessi ideali, ma al contempo riconosce la complessità dell'oppressione e della liberazione.
La relazione di Baldwin con Shakespeare evidenzia la possibilità di trovare un equilibrio tra l'affermazione della propria identità culturale e il riconoscimento della tradizione di chi ci ha preceduti. In altre parole, la sfida non è tanto distruggere il passato, ma reinterpretarlo alla luce delle esperienze e delle verità del presente.
Come un Uomo Crea un Mito: Il Paradosso di Cesare
La discrepanza tra la reputazione di Cesare e la sua realtà – ben più di un semplice amore per la libertà – è ciò che dà avvio alla cospirazione. Questo divario è il punto centrale della storia che Cassio racconta su Cesare all'inizio della seconda scena: "L'onore è il soggetto della mia storia", afferma (1.2.92), e Cesare non dovrebbe averne tanto. Non è migliore di Cassio e Bruto. Perché celebrare Cesare? Questo risentito invidia pervade il racconto di Cassio sul giorno tempestoso in cui un presuntuoso Cesare sfidò Cassio a nuotare nel fiume Tevere. Cassio si tuffò in testa nel pericolo, un segno, secondo lui, che dovrebbe essere il primo in onore. Cesare lo seguì, ma fece fatica. Non era un nuotatore forte e iniziò a annegare, chiamando aiuto. In una similitudine epica in cui si paragona a Enea, fondatore di Roma, Cassio racconta come salvò Cesare e si alzò sulla riva, con il corpo danneggiato di Cesare sulla schiena. Questo è il primo di una serie di momenti in cui Shakespeare, contro Plutarco, caratterizza Cesare come debole nel corpo. Il tiranno che cresce in potenza è un uomo mediocre che ha raggiunto una statura mitologica. Con una reputazione esagerata, basata sul suo successo, ma piuttosto debole secondo chi lo conosce personalmente, Cesare trova un valido parallelo in una figura contemporanea come Donald Trump.
Come si crea un mito? Cesare e i suoi complici sono abili attori sulla scena politica, capaci di costruire spettacolari apparizioni pubbliche, come la finta incoronazione descritta nella seconda scena: "Gli fu offerta una corona; e, quando gliela fu offerta, la rifiutò con il dorso della mano, così, e poi la gente iniziò a gridare" (1.2.220-222). La critica tradizionale interpreta questo come un rituale romano che limitava l'ambizione dei leader. Ma se sembrasse troppo un'interpretazione, considera che Shakespeare aveva già rappresentato una manipolazione politica analoga in "Riccardo III", quando Buckingham supplica Riccardo di diventare re e Riccardo "fa il ruolo della fanciulla" (3.7.50). L'incoronazione di Cesare, in "Giulio Cesare", è teatro politico: è questo che Casca intende quando la definisce "una mera stupidaggine" – ma non va come Cesare e Antonio avevano pianificato.
La scena si evolve: Cesare, che aveva sperato che la folla gridasse affinché lui accettasse la corona, si accorge che la gente è felice del suo rifiuto. La folla non lo vuole come re, non è nelle sue mani, e non è il popolo facilmente manipolabile che solitamente appare nelle opere di Shakespeare. In questo momento, la gente, con una voce saldamente democratica, si solleva contro l'élite politica – per la democrazia, contro la monarchia. Casca dà voce a questa sensazione di un popolo che esercita il suo giudizio, deliberato ed efficace, contro i politici che tentano di manipolare il sentimento pubblico, evocando l'azione del pubblico teatrale: "Se la gente strepitante non lo applaudiva e non lo fischiava, come fanno di solito con gli attori, io non sono un uomo vero" (1.2.255-257). Questo è un momento in cui la democrazia sta per essere superata da un abile manipolatore che, dopo il fallimento del suo piano, è costretto a improvvisare come un attore: "Quando Cesare si accorse che la gente era contenta del suo rifiuto della corona", racconta Casca, "mi aprì il doppio petto e si offrì loro con la gola da tagliare" (1.2.259-261). Cesare mette tutto in gioco. Si rende conto che la folla non lo supporta, e allora la testa lo spinge a mettere alla prova il popolo: non lo amate abbastanza per farlo re, ma lo odiate abbastanza per volerlo vedere cadere?
Non sentiamo mai cosa fa Casca. Immagino che fosse congelato dall'assurdità della richiesta. La folla, anche, resta in attesa. Non lo aclama per suicidarsi; non lo odia, semplicemente non lo vuole re. Cesare spera che grideranno contro il suicidio, ribaltando la situazione e rimanendo dalla sua parte. Non è chiaro se ciò accada, ma percependo un'apertura, Cesare mette in scena uno dei suoi più grandi colpi politici. Finge una crisi epilettica – in scena, davanti a tutti. Storicamente, Cesare soffriva di epilessia, e Shakespeare potrebbe aver voluto mostrare un momento di stress acuto che provoca una crisi (come accade in "Otello"). Ma questa spiegazione non si adatta all'enfasi che Shakespeare pone sui "giocatori sul palcoscenico" in questa scena. Avere l'epilessia non impedisce a una persona di usare una crisi per scopi politici, ma lo aiuta sicuramente a simulare una, e questa è, secondo me, l'interpretazione giusta. Cesare calcola astutamente che può conquistare la folla facendosi vulnerabile in modo radicale. Non è nemmeno Donald Trump, maestro delle manovre politiche controintuitive, disposto a correre un rischio simile.
E così cadde. Quando riprese conoscenza, disse che se avesse fatto o detto qualcosa di sbagliato, sperava che lo perdonassero, considerando la sua infermità. "Tre o quattro donne dove mi trovavo gridarono: 'Pover'anima!' e lo perdonarono con tutto il cuore. Ma non c'è da dar peso a loro; se Cesare avesse pugnalato le loro madri, non avrebbero fatto di meno." (1.2.263-269)
Trump, a differenza di Cesare, non ha mai simulato una crisi durante un comizio elettorale. Tuttavia, l'ex star della televisione è un abile performer di drammi scritti che si presentano come spontanei. Nel giugno 2017, al culmine della polemica su "Giulio Cesare", vennero filmati i primi incontri con il suo gabinetto, durante un bizzarro momento di "baciamento dell'anello", dove ciascun membro del governo lodava la sua vittoria elettorale e la sua leadership, suscitando paragoni con l'apertura di "Re Lear". Nella sua prima annata presidenziale, Trump aveva introdotto proposte politiche con l'invito a "rimanere sintonizzati", programmando gli annunci per le ore di massimo ascolto televisivo. Inviò il vicepresidente Mike Pence a una partita dei Colts per far sì che, quando i giocatori dei Colts si inginocchiassero durante l'inno nazionale, Pence potesse alzarsi e camminare via, creando una scena filmata.
Cesare, come Trump, è un uomo che si distingue non solo per la sua grandezza, ma per la sua arroganza, manifestata nel disprezzo costante per i segnali di pericolo imminente. Ignora l'avvertimento del Veggente: "Attento alle idi di marzo" (1.2.18), deridendolo: "È solo un sognatore" (1.2.24). Fa lo stesso con i suoi sospetti su Cassio, dicendo "Non lo temo" (1.2.197), basandosi sulla sua grandezza assoluta: "Io ti dirò cosa temere, piuttosto che cosa temo; perché io sono sempre Cesare" (1.2.211-212). Con lo stesso illogico ego, rifiuta le paure di Calpurnia: "Cesare andrà fuori. Le cose che mi minacciano / non hanno mai fatto che guardarmi alle spalle. Quando vedranno / il volto di Cesare, svaniranno" (2.2.10-12).

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