Il mondo feudale medievale, contrariamente all’idea comune che la democrazia moderna abbia superato tutte le forme di autorità arbitraria o assolutista del passato, conserva in sé molte strutture e relazioni di potere che si sono reincarnate nel corso della storia, sino ai nostri giorni. Prima che i regni si consolidassero in Stati-nazione assolutisti, la società feudale si articolava in baronie e principati governati da aristocratici, spesso anche ecclesiastici, che amministravano vaste proprietà agricole denominate “manor” o manieri. Questi manieri rappresentavano l’unità economica fondamentale del sistema feudale, un microcosmo di potere economico e politico concentrato nelle mani del signore locale.
Secondo Marc Bloch, uno dei più grandi storici del feudalesimo, il maniero era innanzitutto una proprietà terriera divisa in due parti interdipendenti: il demanio, ovvero la terra direttamente coltivata dal signore, e i piccoli appezzamenti affidati ai contadini o servi della gleba. I contadini, oltre a versare una parte del raccolto o del denaro al signore, fornivano lavoro agricolo obbligatorio nelle terre del demanio, un lavoro non retribuito e imposto con rigore. Il signore, da vero e proprio “capo”, esercitava controllo politico, giudiziario e fiscale, potendo imprigionare, tassare e persino appropriarsi delle terre in caso di mancanza di eredi. Questo sistema di dominio rappresenta una prima forma di autoritarismo assoluto, che ha lasciato tracce nei regimi autoritari moderni, sia fascisti che capitalistici.
Il maniero medievale può essere immaginato come una casa divisa in due piani: il piano superiore era riservato ai signori, che vivevano in grandi dimore con privilegi esclusivi, mentre il piano inferiore era occupato dai contadini con piccole abitazioni e terre modeste. Questa separazione fisica simboleggiava l’enorme disuguaglianza sociale ed economica, una disparità che si è mantenuta nelle economie capitalistiche attuali, sebbene oggi si mascheri con la retorica dell’uguaglianza e della democrazia.
A differenza dei nostri sistemi moderni, il feudalesimo non faceva alcun preteso di uguaglianza o democrazia. Il signore rappresentava il potere assoluto, economico e politico fusi in una sola persona. La sua autorità era totalizzante, e i servi della gleba vivevano in una condizione di legame perpetuo e sottomissione totale, senza alcuna speranza di mobilità sociale. Non esisteva nessuna “scala” da salire all’interno della casa feudale, poiché né i signori né i servi potevano immaginare una società più equa. La vita del servo era vincolata a quella della terra e del signore, senza possibilità di emigrare o cambiare condizione, una prigionia sociale che durava per tutta la vita.
Tuttavia, questo legame era anche caratterizzato da un certo tipo di sicurezza che il lavoratore salariato moderno non possiede: il signore non poteva licenziare il servo, benché potesse punirlo con la morte in caso di disobbedienza. Questo rapporto era visto come naturale, ordinato da Dio e dalla natura stessa, e non soggetto a critica razionale o riforma. La dipendenza reciproca definiva ogni relazione sociale, espressa in un rituale noto come “omaggio”, in cui il subordinato giurava fedeltà al signore in un atto di sottomissione fisica e simbolica, spesso accompagnato da un giuramento sulla Bibbia o su reliquie sacre, chiamato “fedeltà”. Questo rito sanciva non solo un legame politico, ma una forma di autorità divina che giustificava e santificava la gerarchia feudale.
Nel sistema feudale, l’aristocrazia si considerava investita di una grazia divina, custode della “Grande Catena dell’Essere”, in cui ogni individuo aveva un posto fisso e interconnesso. Questa visione gerarchica del mondo riaffermava la legittimità del dominio e del rispetto dovuto, anche da parte del più umile servo. Tale concezione autoritaria non è stata confinata al medioevo, ma ha attraversato i secoli, influenzando il dispotismo monarchico e le moderne forme di autoritarismo politico ed economico. L’idea di una élite “di sangue blu”, distinta per una presunta purezza e superiorità naturale, è stata ripresa e rivisitata molte volte, fino ai giorni nostri.
Importante comprendere che questa struttura feudale non è solo un capitolo chiuso della storia: essa continua a informare, anche se in forme mutate, le dinamiche di potere e disuguaglianza delle società contemporanee. Il modo in cui il potere economico e politico si intrecciano, come l’autorità si legittima attraverso simboli e rituali, e come si mantengono le differenze di classe attraverso forme di dipendenza, sono questioni cruciali per comprendere le radici profonde dell’autoritarismo e della disuguaglianza in epoca moderna.
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La guerra culturale può davvero sfociare nel fascismo?
I conflitti culturali, da sempre presenti nella storia americana, non hanno finora prodotto un esito apertamente fascista. Tuttavia, sotto la superficie della polarizzazione sociale, religiosa e identitaria, si celano dinamiche che possono trasformare queste guerre culturali in qualcosa di molto più pericoloso: una vera e propria guerra di civiltà. Quando ciò accade, quando il dibattito politico e morale si infiamma fino a diventare una crociata per difendere Dio e la nazione dall’“altro”, si intraprende il quarto grande passo verso il fascismo.
Il fascismo non nasce soltanto dalla miseria economica o dall’autoritarismo politico. Esso si sviluppa quando la guerra culturale si converte in guerra civile simbolica, e poi letterale, fondata sull’identità nazionale e religiosa. Hitler non ha solo perseguitato gli ebrei; li ha trasformati nel nemico culturale interno per eccellenza, minaccia suprema all’identità tedesca e al cristianesimo stesso. Il processo è chiaro: quando la cultura diventa un campo di battaglia per la purezza morale e l'appartenenza etnica, e la violenza è vista come strumento legittimo per eliminare il “nemico” che vive al nostro fianco, allora il sistema democratico cede il passo alla logica fascista.
Negli Stati Uniti, il potenziale di una tale trasformazione è più reale di quanto si voglia ammettere. Le parole e le azioni di figure come Richard Spencer, che dichiara apertamente che "questo paese appartiene ai bianchi, culturalmente, politicamente, socialmente, in tutto", segnano un punto di svolta. La sua visione di uno Stato etnico bianco, come obiettivo “grande” e “ideale”, rappresenta la formalizzazione teorica di una guerra di civiltà che si pretende salvifica per l’identità bianca americana. Spencer afferma che l’immigrazione non è altro che una guerra per procura, l’ultimo baluardo per i bianchi americani che temono di essere sopraffatti in una nazione che non riconoscono più come loro.
In questo contesto, Donald Trump ha rappresentato una figura catalizzatrice. Il suo linguaggio, le sue politiche e le sue alleanze con elementi dell’estrema destra hanno dato legittimità a pulsioni fasciste latenti. La violenza contro immigrati senza documenti, afroamericani e comunità minoritarie non è stata solo tollerata, ma spesso incoraggiata. La retorica contro i musulmani americani e contro l’opposizione politica si è tradotta in attacchi alla libertà di stampa, alla separazione dei poteri, alla legalità costituzionale.
Trump non ha creato la guerra culturale, ma l’ha potenziata e trasformata in una narrazione di sopravvivenza esistenziale per il “vero” americano, escludendo da questa definizione chiunque non rientri nei canoni del nazionalismo bianco cristiano. Le sue dichiarazioni — come la proposta di incarcerare Hillary Clinton, di usare violenza contro i manifestanti, o di chiudere i media “bugiardi” — sono sintomi evidenti della logica fascista: l’annientamento simbolico e pratico del nemico interno.
Ma le radici di questo processo risalgono ben prima. Già negli anni ’70, con Nixon, la retorica della “maggioranza silenziosa” mirava a difendere la nazione da attivisti considerati “anti-americani”. L’élite economica finanziava la Nuova Destra e mobilitava gli evangelici cristiani contro i nemici “laici” e “socialisti”. Con Reagan, tutto ciò si trasformò in strategia politica sistematica. Il suo consigliere, Lee Atwater, sapeva perfettamente come sfruttare la paura ancestrale — il riflesso primordiale del “fight or flight” — per mobilitare l’elettorato bianco contro i neri e i liberali, rappresentati come criminali e traditori.
George W. Bush e Dick Cheney proseguirono su questa strada. Associarono esplicitamente la sinistra americana, insieme a immigrati e musulmani, al terrorismo, descrivendoli come portatori di una barbarie radicale. Era la narrativa perfetta per una guerra di civiltà: difendere la democrazia distruggendo i suoi nemici interni, considerati incompatibili con i “valori americani”.
Con Trump, questo processo ha raggiunto il suo apice. Il paese si è spaccato non solo su basi politiche, ma ontologiche: due visioni del mondo irriducibili che non condividono più neanche la definizione di verità, giustizia o nazione. La Costituzione è diventata ostacolo per alcuni, e strumento per altri. La percentuale del suo consenso popolare raramente ha superato il 43%, ma anche Hitler non ha mai ottenuto più sostegno. Eppure, con quella minoranza organizzata, armata e ideologicamente coesa, ha smantellato la democrazia e costruito un regime.
È fondamentale comprendere che il fascismo non giunge d’un tratto, ma si insinua lentamente, attraverso la normalizzazione della paura, la sacralizzazione dell’identità nazionale e la criminalizzazione dell’altro. Quando la narrativa dominante non è più “noi contro loro” ma “noi o loro”, allora la violenza diventa non solo giustificata, ma necessaria. A quel punto, la guerra culturale non è più una disputa ideologica: è una chiamata alle armi.
Importante comprendere che questa dinamica non si sviluppa solo negli Stati Uniti. In ogni società in cui l’identità collettiva viene minacciata o percepita come tale, e dove esistono élite disposte a manipolare tali paure per consolidare il potere, esiste il rischio concreto che la cultura diventi l’anticamera del fascismo. L’Europa non è immune, l’Italia meno che mai.
Quando la civiltà viene intesa come qualcosa da proteggere contro il “contagio” di altre culture, religioni o modi di vivere, quando la politica si trasforma in purificazione identitaria, allora non ci si trova più di fronte a un conflitto culturale: si è già entrati nel territorio del fascismo.
La Libertà di Pensiero e la Politica del Linguaggio: L'Autoritarismo nella Sinistra Contemporanea
Quando si parla di conversazioni su genere e razza, il discorso può estendersi a molte altre aree. Si tratta di un problema serio per la Sinistra, poiché il suo valore fondamentale è quello di creare libertà e incoraggiare il pensiero critico. Al contrario, la Destra abbraccia il dogma – come quello della religione fondamentalista – perché è coerente con la sua visione del mondo. Ma la Sinistra è storicamente nata dal rifiuto dell'autorità, del dogma e del fondamentalismo, sviluppatosi grazie alle autorità religiose e alle aristocrazie dominanti nel Medioevo. Quando la Sinistra abbraccia la purezza del pensiero e impone il proprio dogma autoritario, mina la sua stessa ragion d'essere.
Ogni progressista dovrebbe prestare attenzione alla lunga storia di quello che oggi chiameremmo "politicamente corretto" di matrice di Sinistra. Nei regimi sovietici, cinesi e in altri regimi comunisti, definiti marxisti o “di sinistra”, il controllo del pensiero è divenuto quasi altrettanto potente che nel regime nazista. Questa storia dovrebbe essere un monito per ogni liberale o progressista di oggi. Troppe nazioni con ideologie di Sinistra sono diventate autoritarie e dominate da versioni statali rigide del marxismo, maoisimo e altri dogmi. Si tratta di varianti di PC che hanno avvelenato molti movimenti di Sinistra nel corso del tempo.
Oggi, criticare il PC di Sinistra è diventato una delle armi più potenti della Destra, poiché il PC di Sinistra è una realtà che suscita il risentimento di milioni di persone comuni. È diventato molto difficile parlare di sesso, ad esempio, senza analizzare ogni pensiero e frase. Gli studenti universitari imparano a camminare sulle uova per evitare qualsiasi frase che possa essere considerata sessista. Durante il movimento #MeToo, l'attore liberale Matt Damon ha suggerito che potrebbe esserci una vasta "gamma di comportamenti" che meritano trattamenti diversi: una differenza tra dare una pacca sul sedere e stupratore o molestatore di bambini. Entrambi questi comportamenti vanno affrontati ed eradicati senza alcun dubbio, ma non dovrebbero essere confusi.
L'attrice Minnie Driver ha risposto con rabbia, dicendo a Damon che non aveva alcun diritto di parlare di questa questione, sostenendo che gli uomini semplicemente non possono comprendere cosa significa l'abuso quotidiano. "Mi sono resa conto che la maggior parte degli uomini, uomini buoni, quelli che amo, hanno una barriera nella loro capacità di capire", ha detto. Driver potrebbe avere un punto, ma c'è bisogno di dialogo e di empatia. Dicendo a Damon che non aveva diritto di parlare dell'argomento dell'abuso sessuale, Driver stava rafforzando una forma di censura del linguaggio che molti considerano parte del PC. Questo va contro il principio della libertà di parola che è al cuore dei valori progressisti e di Sinistra, minando la fiducia nel dialogo e nella politica progressista.
Allo stesso modo, le università hanno cominciato a imporre codici di comportamento e di linguaggio riguardo alle relazioni sentimentali e sessuali che trasformano la spontaneità del sesso in un rituale di comportamenti formalmente prescritti che sembrano soffocare gli impulsi sessuali sani. Vengono introdotte leggi come la Legge 967 della California. Recentemente, il Senato della California ha approvato una legislazione per affrontare il crimine nei campus. La Legge 967, che è passata all'unanimità ed è anche conosciuta come la legge “yes means yes” (sì significa sì), stabilisce che le università riceveranno finanziamenti statali solo se adotteranno politiche specifiche riguardanti le aggressioni sessuali, tra cui un "standard di consenso affermativo". Perché l'attività sessuale sia legale, deve esserci un "consenso affermativo, consapevole e volontario". La legge prosegue affermando che "la mancanza di protesta o resistenza non implica consenso, né il silenzio implica consenso. Il consenso affermativo deve essere continuo durante tutta l'attività sessuale e può essere revocato in qualsiasi momento."
Tale legislazione nasce da reali preoccupazioni sul consenso sessuale, ma c'è il pericolo che leggi come questa violino uno dei principi più fondamentali delle libertà civili, ovvero il principio “innocente fino a prova contraria”. Come ha scritto una femminista: "Oltre a creare un reato vago e soggettivamente definito di sesso non consensuale, la legge pone esplicitamente l'onere della prova sull'imputato, che deve dimostrare di aver preso "passi ragionevoli" per verificare se il denunciato ha dato un consenso affermativo". È vero che, se entrambi i partner sono entusiasti dell'incontro sessuale, non ci sarà motivo di denunciarlo come stupro in seguito. Ma non è sempre così semplice. Uno dei partner potrebbe iniziare a sentirsi ambivalente sull'incontro in seguito e reinterpretarlo come forzato, soprattutto dopo aver ripetutamente ascoltato il messaggio che solo un “sì” chiaro costituisce un consenso reale.
Molte femministe influenti hanno iniziato a riconoscere questi rischi e a criticare questo dogma strisciante all'interno del pensiero femminista. Come per la Sinistra in generale, il femminismo è nato per liberare la sessualità e il pensiero critico, non per chiuderlo. Le stesse problematiche si verificano in tema di razza. Gli sforzi per fermare il razzismo e la violenza razziale in America sono obiettivi fondamentali della Sinistra. Ma, come nel caso del sessismo, la Sinistra può scivolare in forme di controllo del linguaggio che bloccano conversazioni libere e importanti sulla razza. Infatti, conversazioni oneste sia sul sesso che sulla razza sono diventate difficili nelle aule e nelle sedi politiche, per paura di dire qualcosa che potrebbe offendere coloro che hanno idee “più pure” su cosa costituisce un linguaggio permesso.
Quando lo scienziato politico conservatore Charles Murray è venuto a parlare al Middlebury College, è stato accolto da una massiccia manifestazione. Quando i progressisti protestano contro i relatori di destra nei campus, spesso negano di violare la libertà di parola. La libertà di parola, insistono, non richiede che la loro università dia una piattaforma a persone con opinioni offensive. Negare loro questo diritto – dare agli studenti progressisti un veto su chi possono invitare gli studenti conservatori – si avvicina pericolosamente a dare agli studenti progressisti un veto su ciò che gli studenti conservatori possono dire. Infatti, gli studenti di Middlebury non hanno solo obiettato a Murray per via di "The Bell Curve". Alcuni si sono anche opposti al suo libro più recente, "Coming Apart", che analizza le difficoltà della classe lavoratrice bianca.
Se ciò che è successo a Middlebury non viene sfidato, prima o poi anche i liberali verranno messi a tacere. Per molti a sinistra nel campus, infatti, lo sionismo è un'ideologia razzista, gli attacchi con droni sono crimini di guerra, Barack Obama è stato il deportatore-in-chief, Hillary Clinton ha supportato una legge sui crimini razzisti, Joe Biden ha mancato di rispetto ad Anita Hill. Ci saranno sempre giustificazioni. Quando la Sinistra viene percepita come colpevole di sopprimere il discorso, sta perdendo la battaglia per il cuore e la mente della gente – e forse anche la propria anima.
Il punto non è quello di fermarsi nel creare nuove conversazioni e sensibilità per superare razzismo e sessismo. È una virtù sfidare con forza argomentazioni razziste, sessiste o classiste nel discorso universitario, inclusi quelli fatti da relatori famosi invitati. Ma, se non ci si preoccupa di difendere la libertà di parola, la stessa Sinistra perderà il diritto di esprimersi liberamente.
Come si costruisce un'economia cooperativa democratica per un futuro sostenibile?
Nel quartiere Glenville di Cleveland, una comunità prevalentemente nera e povera con un alto tasso di disoccupazione e un reddito medio di circa 20.000 dollari, è nato un modello innovativo di economia cooperativa. Qui operano le Evergreen Cooperatives, un complesso di imprese di proprietà dei lavoratori che non si limita a forme di piccole cooperative ma costituisce una rete di realtà imprenditoriali di significativa scala, coordinate da una comunità no profit. Tra queste, Green City Growers Cooperative si distingue come la più grande serra urbana degli Stati Uniti, capace di produrre tre milioni di teste di lattuga all’anno, insieme ad altre verdure a foglia verde. Accanto a questa, la Evergreen Cooperative Laundry gestisce un servizio di lavanderia industriale per ospedali e case di riposo, operando in un edificio certificato LEED e consumando solo un terzo dell’energia e dell’acqua delle lavanderie convenzionali. Un altro elemento chiave è Evergreen Energy Solutions, un’impresa di installazione di impianti solari che dà lavoro a residenti del centro urbano di Cleveland, contribuendo anche all’installazione di un impianto solare di 42 kilowatt sul tetto della Cleveland Clinic.
Questo esempio di economia cooperativa rappresenta un modello di sviluppo locale alternativo che si collega in una rete più ampia e si propone come un laboratorio per un cambiamento strutturale nazionale sostenibile. Alla radice di queste iniziative c’è una domanda cruciale: chi controlla la ricchezza? Storicamente, il controllo della ricchezza determina il controllo della politica e la capacità di decidere il futuro. Negli Stati Uniti, le quattrocento persone più ricche detengono più ricchezza di 180 milioni di individui nella parte più povera della popolazione. Modificare questa concentrazione attraverso la proprietà cooperativa a livello di quartiere, locale e regionale è un passo fondamentale per costruire un potere politico diffuso. Queste iniziative non solo creano lavoro, ma lo fanno in un contesto ecologicamente consapevole e socialmente inclusivo, gettando le basi di un modello che potrebbe essere replicato e ampliato.
Il vero cambiamento nasce dal basso: il monopolio della destra finanziaria sul potere politico federale deve essere infranto, ma ciò accade soltanto grazie alla costruzione di movimenti locali e regionali che uniscono la protesta sistemica a pressioni efficaci nei confronti dei partiti politici nazionali. Le storie di sicurezza economica e sociale autentica si scrivono a livello locale, ma devono essere integrate e sostenute da politiche nazionali e globali. Tra gli obiettivi più ambiziosi vi è la nazionalizzazione di servizi pubblici essenziali come le utilities e le grandi banche, per costruire un sistema cooperativo-socialista di scala nazionale.
Un altro aspetto cruciale è il modo in cui i movimenti progressisti hanno imparato a dialogare con gli americani diffidenti nei confronti del “grande governo” e dell’aumento delle tasse. Nonostante un sentimento generale di sfiducia verso le istituzioni statali, molti cittadini sostengono programmi di grande portata come la sicurezza sociale e Medicare, veri pilastri della sicurezza sociale. Il segreto sta nel proporre tassazioni mirate sui ricchi per finanziare programmi specifici e tangibili, come l’istruzione gratuita e l’assistenza sanitaria accessibile. Un esempio emblematico è stato l’iniziativa del Massachusetts per un’imposta sui milionari destinata a finanziare trasporti pubblici ed educazione. Sebbene questa proposta sia stata bloccata dalla Corte Suprema dello Stato per questioni formali, ha raccolto ampio consenso pubblico e ha segnato una strategia efficace: non si tratta più di chiedere semplicemente più tasse, ma di far sì che le entrate siano vincolate a programmi che assicurano sicurezza economica e sociale reale.
Questo tipo di pressione politica locale si sta diffondendo in tutto il paese, accompagnata da richieste di referendum per tassare l’1% più ricco. Quando le risorse raccolte sono destinate a soddisfare bisogni concreti di milioni di famiglie, la narrazione progressista radica e può determinare cambiamenti di regime. È una verità politica consolidata che, pur non amando le tasse in astratto, molti cittadini approvano quelle rivolte a finanziare programmi essenziali per il benessere collettivo.
Infine, il contributo intellettuale di Thomas Piketty propone una dimensione globale a questa riflessione, attraverso la tassazione progressiva della ricchezza e del capitale su scala planetaria. La sua idea di una tassa globale sul capitale è una risposta al dominio ineguale del capitalismo finanziario globalizzato, un tentativo di fermare la spirale crescente delle disuguaglianze. Il controllo democratico della ricchezza, attraverso sistemi di tassazione distribuiti tra governi locali, nazionali e organismi sovranazionali, rappresenta il fondamento della vera sicurezza. Non si tratta di consegnare tutta la ricchezza allo Stato, ma di amministrare un sistema di risorse che possa finanziare diritti universali, proteggendo le società dalla concentrazione del potere economico che mina la democrazia stessa.
Il processo di definizione e attuazione di queste politiche fiscali è al centro dei conflitti politici contemporanei. Il dibattito non si limita al mero prelievo fiscale, ma riguarda la capacità delle comunità sovrane di decidere democraticamente l’allocazione delle risorse per finalità collettive come istruzione, salute, sviluppo sostenibile, riduzione delle disuguaglianze e occupazione. Solo comprendendo l’intreccio tra controllo della ricchezza, partecipazione democratica e costruzione di reti cooperative su scala locale e globale, si può sperare in una trasformazione reale verso un futuro più equo e sostenibile.
È fondamentale capire che queste iniziative non rappresentano soltanto modelli economici alternativi, ma strumenti di riconquista della democrazia e di rinnovamento sociale, capaci di offrire risposte concrete alla crisi della fiducia nelle istituzioni e nella capacità dello Stato di garantire sicurezza e benessere. Senza un controllo diffuso e partecipato della ricchezza, ogni progetto di sicurezza sociale rischia di rimanere incompiuto e fragile.
Come si costruiscono e si utilizzano le narrazioni di sicurezza e i nemici comuni nella politica contemporanea?
Le narrazioni di sicurezza rappresentano un elemento centrale nella politica contemporanea, fungendo da strumenti di legittimazione per le élite e da mezzi di controllo sociale. Attraverso la costruzione di nemici — sia interni che esterni — queste narrazioni creano divisioni nette all’interno della società, alimentando paure e consolidando identità collettive basate sull’esclusione e sul conflitto. Il fenomeno si manifesta in modi differenti, ma con un denominatore comune: la manipolazione della percezione del pericolo come strategia per mantenere o rafforzare il potere.
Le élite capitaliste, spesso rappresentate come un’aristocrazia economica, utilizzano la narrazione del nemico per giustificare disuguaglianze crescenti e l’accentramento di ricchezza. Questo avviene attraverso la creazione di “nemici domestici” — minoranze, immigrati, gruppi religiosi — e “nemici stranieri” — stati o culture esterne — che vengono demonizzati e resi responsabili delle insicurezze percepite dalla popolazione. La sovrapposizione di queste figure a volte appare artificiale, ma svolge una funzione cruciale nel dividere le classi lavoratrici e nella frammentazione del consenso sociale.
L’uso delle storie di sicurezza si lega indissolubilmente alla retorica populista e autoritaria, dove la paura e l’emozione prendono il posto della razionalità e del dibattito democratico. Si osservano modalità di deumanizzazione e costruzione di un “nemico ombrello”, che racchiude in sé diverse categorie di avversari, creando un senso di urgenza e legittimando misure drastiche di controllo. Queste narrazioni si intrecciano con guerre culturali, come quelle sul ruolo della religione, l’identità nazionale, i diritti delle minoranze e il femminismo, contribuendo a polarizzare ulteriormente la società.
Storicamente, questi meccanismi sono stati alla base di regimi fascisti, i cui paralleli emergono nelle dinamiche contemporanee. L’uso di una retorica securitaria si manifesta anche attraverso la censura, l’attacco alla libertà di stampa e la creazione di un culto della personalità attorno a figure politiche carismatiche. La progressiva erosione delle istituzioni democratiche trova così terreno fertile nelle paure indotte e nella delegittimazione di oppositori interni, presentati come minacce alla sicurezza nazionale e all’ordine sociale.
Allo stesso tempo, la narrazione del nemico serve a mascherare le contraddizioni del sistema capitalistico, quali l’aumento delle disuguaglianze economiche, la precarizzazione del lavoro e la crisi ambientale. Il racconto della competizione meritocratica viene così trasformato in una lotta per la sopravvivenza contro l’altro, distogliendo l’attenzione dal ruolo delle élite economiche nella distribuzione iniqua delle risorse. La retorica della sicurezza e del pericolo funziona dunque da dispositivo di controllo sociale e di mantenimento dello status quo.
La comprensione di queste dinamiche è fondamentale per interpretare le trasformazioni politiche contemporanee. È importante riconoscere come le narrazioni di sicurezza e la costruzione del nemico siano strumenti di manipolazione che contribuiscono a consolidare poteri autoritari, alimentando divisioni sociali e ostacolando la costruzione di una solidarietà collettiva basata su diritti universali e giustizia sociale. Il loro superamento richiede un’analisi critica dei discorsi pubblici e un impegno consapevole per rafforzare le istituzioni democratiche e la partecipazione politica.
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