Il ruolo dei videogiochi militari nel modellare la cultura e l’immaginario geopolitico contemporaneo si radica profondamente nell’esperienza affettiva e incarnata del giocatore. Questi giochi non si limitano a rappresentare scenari bellici o a raccontare narrazioni militari: essi costruiscono un coinvolgimento emotivo capace di trasformare la guerra, per sua natura drammatica e tragica, in un’esperienza ludica ed esaltante. Tale processo si avvale di complesse strutture di gioco e di meccaniche regolamentate che orientano il comportamento del giocatore, inculcando una visione del mondo permeata da ideali militari quali dovere, onore e verità politica, come nel caso del gioco America’s Army. Tuttavia, l’esempio più emblematico di questa dinamica si riscontra nei grandi franchise commerciali come Call of Duty, Battlefield e Medal of Honor.

Questi titoli hanno raggiunto una diffusione globale con vendite che si contano in centinaia di milioni, confermando come il medium videoludico sia diventato uno strumento cruciale per la diffusione di un immaginario militare. Pur non essendo direttamente prodotti o finanziati dall’esercito, essi si avvalgono spesso di consulenti militari e di visite a basi per garantire un’“autenticità” militare che tuttavia non è fine a se stessa. Il vero obiettivo è creare un’esperienza immersiva che attivi non tanto la cognizione quanto la dimensione sensoriale e affettiva del giocatore, generando uno stato di coinvolgimento profondo, in cui l’identificazione con l’avatar militare virtuale diventa un’esperienza corpo-mente totalizzante.

La trasformazione dell’esperienza bellica in un evento ludico positivo e gratificante presuppone un’attenta costruzione di un’estetica affettiva che privilegia la sensazione corporea e l’emozione rispetto alla mera rappresentazione realistica. L’affettività, in questo senso, si configura come l’elemento chiave per comprendere come il conflitto venga vissuto in prima persona, ma anche per capire come la guerra venga normalizzata e interiorizzata nelle società democratiche. Attraverso l’estetica della guerra virtuale, la violenza, la paura e l’incertezza vengono trasformate in emozioni controllate, quasi eroiche, che inducono il giocatore a ripetere l’esperienza.

L’importanza dell’affetto si estende anche al marketing, che nel contesto dell’“economia dell’esperienza” mira a suscitare negli utenti forti legami emotivi con il prodotto. Le campagne di lancio di titoli come Call of Duty sono spesso caratterizzate da eventi spettacolari e simulazioni che fondono realtà e finzione, sfruttando ansie collettive come il terrorismo urbano per rafforzare l’appeal del gioco. Questo fenomeno testimonia come il gioco non sia solo un semplice passatempo, ma un medium che riflette e alimenta le paure, le aspirazioni e i valori di una società militare e geopoliticamente coinvolta.

Infine, ciò che rende i videogiochi un campo di studio così rilevante per la geopolitica popolare è la loro natura interattiva e incarnata. L’immersione tridimensionale e la possibilità di interagire attivamente con ambienti di guerra simulati implicano un coinvolgimento che va oltre la visione passiva, favorendo una relazione dinamica e sensoriale con il contenuto. Il giocatore non è solo spettatore, ma partecipe incarnato di una narrazione bellica che plasma la sua percezione del mondo, influenzando così la cultura militare e politica in modi sottili ma profondi.

È importante comprendere che questa dinamica implica un processo di normalizzazione e di mitizzazione della guerra che può influenzare le opinioni pubbliche e le politiche militari. La sensazione di eroismo e di controllo che i giochi offrono rischia di oscurare la complessità etica e politica del conflitto, riducendola a mera esperienza ludica. Il lettore deve quindi essere consapevole di come l’affettività, pur potente e coinvolgente, sia un filtro che modella la realtà in modo selettivo e funzionale alla riproduzione di determinate ideologie e narrazioni geopolitiche.

In che modo i media e la cultura popolare plasmano la geopolitica quotidiana?

La geopolitica non è più soltanto una questione di stati, confini e conflitti militari rappresentati nelle mappe o nei summit internazionali. Essa si manifesta anche nei luoghi più ordinari, nelle esperienze culturali condivise, nelle relazioni sociali quotidiane. Gli spazi della memoria pubblica, come il Memoriale di Guerra Australiano, sono dispositivi geopolitici che operano non soltanto per commemorare, ma per produrre affetti, orientamenti e identità collettive. In questi spazi non si è spettatori passivi: l’esposizione prende senso solo attraverso l’interazione delle persone, che la animano, la decifrano, la reinterpretano, stabilendo legami emotivi e sociali.

La cultura popolare, in questo contesto, è tutt’altro che marginale: essa diventa un’estensione del vissuto, permeando l’esperienza ordinaria in maniera quasi impercettibile. È viva, mutante, inestricabile dalla vita quotidiana. L’atto di guardare, leggere o condividere un contenuto culturale non è mai neutro: ogni scelta, ogni emozione suscitata, partecipa a una rete più ampia di relazioni, dove la soggettività dell’individuo si intreccia con logiche di potere globali.

La dimensione della “testimonianza a distanza” — come nel caso dei racconti di Lovecraft o nella storia del telefono da campo — è paradigmatica per comprendere la trasformazione indotta dai media. Il medium permette una presenza senza prossimità fisica, una partecipazione emotiva senza coinvolgimento diretto. Il lettore, o l’ascoltatore, è sospeso in uno spazio ambiguo: coinvolto ma protetto, presente ma assente. La comunicazione si fa veicolo di inquietudine, perché rompe le coordinate stabili dello spazio e del tempo, e con esse, le certezze dell’identità.

L’invenzione del telegrafo, del telefono, fino ad arrivare a internet e ai social media, ha operato una compressione spazio-temporale che ha trasformato in profondità le nostre modalità di esistenza. Ci ha resi molteplici, distribuiti, interconnessi. Ma questa moltiplicazione non è senza conseguenze: ci espone, ci frammenta, ci rende visibili e vulnerabili in modi nuovi. I media non sono soltanto strumenti di comunicazione, ma ambienti che abitano la nostra soggettività, la modificano, la amplificano.

Nel caso dei social media, questo processo raggiunge un’intensità inedita. La costruzione di sé online — il sé reticolato — non è più un riflesso, ma una realtà operativa, che genera effetti reali: nel modo in cui ci relazioniamo, ci presentiamo, ci difendiamo. L’identità diventa negoziabile, riscrivibile, performativa. Ma è proprio in questa apparente libertà che si annidano nuove forme di potere: il controllo algoritmico, la sorveglianza distribuita, l’ansia performativa.

Un esempio emblematico è quello della “presenza minacciosa” che si manifesta attraverso i

Qual è il vero ruolo dei social media nella sfera pubblica e politica contemporanea?

La partecipazione ai dibattiti civici attraverso i social media sembra aprire nuovi spazi di inclusione, trasformando la dimensione domestica in un luogo meno isolato e potenzialmente più aperto alla discussione pubblica. La possibilità di comunicare direttamente con legislatori o figure pubbliche, così come la nascita di soggetti collettivi—i cosiddetti “networked publics”—rappresentano una promessa di rovesciamento delle gerarchie tradizionali, rendendo visibile e potente l’insieme delle connessioni sociali. Questa visione romantica della politica, dove l’individuo connesso assume potere attraverso la rete, riflette un’immaginazione forte ma non priva di limiti e contraddizioni.

L’idea che la politica sia ciò che accade esclusivamente in spazi pubblici, mentre ciò che avviene nel privato è apolitico, viene messa in discussione dall’espansione dei social media. Tuttavia, la partecipazione che essi offrono non è così universalmente accessibile come si potrebbe pensare. Il cosiddetto digital divide rivela che l’accesso alle tecnologie digitali resta fortemente sbilanciato, spesso limitato a gruppi sociali medi e medio-alti, con significative esclusioni. L’esempio della “rivoluzione di Facebook” durante la Primavera araba in Egitto mostra come solo una frazione della popolazione potesse realmente fruire della rete, limitando così la portata della partecipazione civica via social media.

La trasformazione della distinzione tra pubblico e privato, che sposta l’azione politica dallo spazio condiviso della piazza al confine della casa, comporta una perdita importante: l’energia e la potenza aggregativa di un gruppo fisicamente presente. Un hashtag virale non può intimidire il potere quanto una folla urlante davanti a un edificio governativo. La partecipazione online spesso si traduce in una forma di clicktivism, dove l’espressione del dissenso o del consenso diventa un atto virtuale, incapace di generare cambiamenti politici concreti e duraturi.

Un’altra critica centrale riguarda la natura stessa dei social media, che non sono spazi pubblici autentici, bensì piattaforme commerciali gestite da pochi grandi conglomerati. Queste aziende perseguono obiettivi di profitto, non la promozione del dibattito civico o la formazione di norme democratiche. Questa concentrazione di poter

Come si costruisce la geopolitica popolare attraverso i media e la cultura visiva?

La geopolitica popolare non è un semplice riflesso delle dinamiche politiche internazionali, ma una pratica attiva di rappresentazione e negoziazione del potere che si manifesta attraverso i media, la cultura visiva e le narrazioni quotidiane. È attraverso l’immaginario collettivo, modellato da immagini, notizie, videogiochi, televisione e cinema, che le identità geopolitiche prendono forma e vengono consumate. Gli studi di Ó Tuathail hanno aperto la strada a un approccio critico che decostruisce la produzione discorsiva dello spazio globale, rivelando le tecniche di insistenza, omissione e affettività implicite nel linguaggio geopolitico.

Il ruolo dell’affetto e dell’emozione è fondamentale. Gli interventi americani, ad esempio, come nel caso dell’Iraq, non sono solo giustificati da razionalità strategica, ma anche da affetti pubblici: paura, indignazione, orgoglio nazionale. Le emozioni sono mediate e manipolate, performate nei talk show e negli editoriali, sedimentate nei frame visivi che dominano le copertine dei giornali o le sequenze cinematografiche. L’invasione non è solo un fatto militare, ma un’esperienza visiva ed emotiva.

La produzione culturale non è mai neutrale. Come ha dimostrato Susan Noble in Algorithms of Oppression, anche i motori di ricerca, strumenti apparentemente oggettivi, riflettono e rafforzano dinamiche razziali e gerarchie sociali. L’invisibilità è una forma potente di esclusione. La rappresentazione è selettiva e performativa: ciò che viene mostrato è tanto significativo quanto ciò che viene nascosto. I videogiochi come America’s Army o le narrazioni televisive di Homeland non offrono semplici scenari ludici o drammatici, ma vere e proprie pedagogie geopolitiche, dove lo spazio, il nemico e l’eroismo vengono coreografati secondo logiche egemoniche.

La cultura popolare, quindi, non solo riflette la politica estera, ma la co-produce. Come ha sottolineato Joanne Sharp nei suoi studi su Reader’s Digest, la minaccia esterna viene spesso costruita in modo narrativo, facendo leva su archetipi facilmente riconoscibili e affetti sedimentati. La sicurezza nazionale è narrata attraverso formule che semplificano, personalizzano e moralizzano.

L’immagine visiva diventa allora un campo di battaglia. L’etnografia visiva, proposta da Sarah Pink, invita a considerare le immagini non solo come documenti, ma come pratiche performative: le immagini agiscono, producono significati, modellano relazioni. La metodologia visiva è centrale per analizzare le modalità con cui il potere si rende visibile, seducente o terrorizzante.

In questo contesto, la diplomazia stessa si reinventa in forme creative e partecipative. Pinkerton e Benwell hanno mostrato come nella disputa per le Falkland/Malvinas, la cittadinanza diventi agente diplomatico, attraverso pratiche simboliche, manifestazioni e mediazioni culturali. La geopolitica si decentralizza, si popolarizza, diventa esperienza condivisa, non più esclusiva di élite governative.

La ricezione delle narrazioni, tuttavia, non è mai uniforme. Janet Radway e altri studiosi della ricezione mostrano come il pubblico, disperso e nomade, rielabora i significati, accetta e resiste, interpreta secondo propri orizzonti culturali. La soggettività non è data, ma dialogica, plurale, stratificata.

Importante è riconoscere come la geopolitica popolare sia anche un terreno dove si esercita la violenza simbolica. I modelli narrativi egemonici deumanizzano l’altro, come avvenne nel discorso dei Khmer Rouge studiato da Travers-Smith, ma anche in narrazioni occidentali apparentemente innocue. La ripetizione iconografica dell’altro come minaccia, come selvaggio, come fanatico, è una tecnologia del dominio.

È necessario allora interrogare continuamente le fonti, i codici visivi, le forme narrative. Lo spazio globale è scritto e riscritto ogni giorno, non solo dai decisori politici, ma da registi, sviluppatori, giornalisti, spettatori, lettori. La geopolitica popolare è ovunque vi sia immaginazione, affetto e potere.

È essenziale che il lettore comprenda che la geopolitica non è un sapere distante, tecnico, riservato agli esperti di relazioni internazionali. Essa abita le pratiche quotidiane, attraversa i pixel dei nostri schermi, si inscrive nelle emozioni che proviamo e nelle storie che ci raccontiamo. L’analisi critica della geopolitica popolare non mira a smascherare semplicemente ideologie, ma a rendere visibili i meccanismi culturali attraverso cui il mondo viene costruito come spazio di conflitti, alleanze, frontiere e desideri. Comprendere questo significa anche riappropriarsi della propria capacità di resistenza, immaginazione e intervento.