Wylde si avvicinò al bancone dell’albergo e, con una certa calma, chiese se fosse possibile avere una stanza per quella notte. Il receptionist non mostrò alcuna sorpresa e, dopo averlo invitato a registrarsi, gli chiese se avesse una stanza preferita. Wylde rispose senza esitare, chiedendo specificamente la stanza 99. La sua richiesta sembrò strana al receptionist, che, incuriosito, gli domandò il motivo di tale preferenza. Wylde, senza rivelare troppo, spiegò che un amico, che due anni prima aveva soggiornato lì, gli aveva raccomandato proprio quella stanza per la sua qualità.
Il receptionist, tuttavia, informò Wylde che la stanza 99 era già occupata e gli offrì in alternativa la stanza 98, che, disse, era identica. Nonostante l’apparente indifferenza di Wylde, il suo sguardo tradiva una certa insistenza. La sua preferenza per la stanza 99 non era casuale, ma piuttosto il frutto di un’idea che sembrava impossibile da accantonare. Quando gli fu negata la stanza desiderata, Wylde si rassegnò con apparentemente poca riluttanza e accettò la stanza 98.
Dopo aver sistemato i suoi effetti personali, Wylde si sedette nella sua stanza per la cena, e poi si ritirò nuovamente in 98, dove attese la notte, il silenzio e l’opportunità di realizzare il suo progetto. La sua mente era concentrata su un’unica idea: non avrebbe potuto dormire in nessun’altra stanza se non nella 99. Poco dopo la mezzanotte, quando il silenzio si fece totale e i suoni del giorno svanirono, Wylde si alzò e si avventurò nel corridoio. Con una cautela quasi rituale, si avvicinò alla porta della stanza 99, e scoprì che la serratura era vecchia e mal funzionante. Usando un pezzo di filo da pipetta, riuscì ad aprirla facilmente, entrando nella stanza.
L’interno della stanza 99 era identico alla 98: una stanza modesta con letto singolo, scrittoio, e una finestra che dava sul fiume. Tuttavia, l’elemento che suscitò in Wylde una certa sensazione di inquietudine fu il panorama che si stendeva oltre la finestra. Le luci in lontananza, sulla riva di Brooklyn, sembravano brillare in modo insolito, mentre una nave da ferry attraversava il fiume. Nonostante nulla sembrasse fuori posto, la sensazione che qualcosa non andasse, qualcosa di invisibile eppure tangibile, lo avvolgeva.
Decise, quindi, di restare, con la mente ancora confusa dalla curiosità. Forse non avrebbe scoperto nulla di strano, ma almeno avrebbe avuto la soddisfazione di aver soddisfatto un suo impulso, di aver reso giustizia alla propria ossessione per quella stanza. Attese, quindi, nell’oscurità, con la mente rivolta a ciò che lo attendeva. Ma non appena si addormentò, la sua tranquillità fu spezzata da tre colpi secchi. Alzandosi di scatto, si trovò davanti a una figura misteriosa, una donna vestita di bianco, dai lunghi capelli color verde-giallo, che lo fissava intensamente. I suoi occhi sembravano brillare come fiamme, incapaci di staccarsi dal suo sguardo. La donna, con un sussurro quasi ipnotico, lo invitò a seguirla, e Wylde, come se fosse sotto un incantesimo, si alzò e la seguì senza pensare.
Attraverso una porta che Wylde non aveva notato, la figura lo condusse in un altro spazio. Non più una stanza, ma qualcosa di più inquietante: una cella con sbarre d’acciaio, simile a un laboratorio alchemico, con bottiglie e strumenti strani. Un vecchio, con un grembiule macchiato, stava lavorando a un esperimento, ignorando completamente la presenza di Wylde. La scena era tanto surreale quanto terribile, con un’atmosfera che rasentava l’assurdo. Quando il vecchio si voltò finalmente verso di lui, l’uomo non sembrò minimamente sorpreso. "Benvenuto, dottore," disse senza un cenno di emozione, come se fosse una cosa normale per lui trovarsi lì.
La realtà si piegava in qualcosa di insondabile. La sua mente, pur tentando di rimanere lucida, non riusciva a decifrare nulla di quanto stava vivendo. Era come se tutto fosse stato predestinato, come se la sua curiosità per quella stanza e per quella figura l’avesse portato inevitabilmente verso un destino oscuro, dove nulla di ciò che conosceva sembrava avere più senso. Il vecchio, con un tono distante e indifferente, gli parlò di un esperimento in corso, di un fluido chimico che stava preparando, e di come tutti coloro che venivano a trovarsi in quel laboratorio dovevano prima cercare di scappare.
Wylde, sebbene intrappolato e confuso, rispose con calma. "Ho già provato a cercare una via di fuga," disse. "E se questo è davvero un esperimento, temo che non ci sia nulla che possa fare per uscirne." La sua voce tradiva una serenità che non corrispondeva al suo stato d’animo interno, ma il vecchio sembrò ignorare la risposta, tornando al suo lavoro.
Le parole del vecchio, la sua indifferenza e la situazione che si stava facendo sempre più claustrofobica sembravano suggerire che Wylde non fosse semplicemente intrappolato fisicamente, ma che qualcosa di ben più profondo e oscuro lo stesse avvolgendo. Il senso di impotenza e il dominio dell’ignoto incombevano su di lui come una nebbia sempre più densa.
In questo contesto, non si trattava solo di un semplice mistero legato a una stanza o a una figura misteriosa. Wylde si trovava di fronte alla manifestazione di un potere che trascendeva la sua comprensione, qualcosa che superava la sua capacità di controllo, la sua razionalità. La curiosità che lo aveva spinto a cercare una stanza "speciale" lo aveva ora portato a un incontro con l’ignoto, un incontro che, forse, non avrebbe mai voluto cercare.
Qual è il vero prezzo di una tacchino vinto alla lotteria?
Era una fredda giornata, e Rawson e Billings camminavano lungo Cortlandt Street quando si fermarono a riflettere sul destino del loro pranzo. Rawson, desideroso di comprare un tacchino, si fece accompagnare da Billings. Mentre camminavano, Rawson propose una breve sosta per riscaldarsi con una bevanda calda. Non passò molto tempo prima che entrassero in un bar dove, in un’atmosfera confortevole, ordinarono due "Tom and Jerry", una bevanda alcolica calda, e iniziarono a chiacchierare. Rawson aveva già preso in mano la situazione, acquistando qualche stelo di sedano e piante di ostriche, ma il tacchino continuava a essere un mistero, un oggetto da "conquistare".
Poi, Billings, con la sua tipica capacità di trasformare ogni situazione in un'opportunità, avanzò una proposta che fece brillare gli occhi di Rawson. "Perché spendere una fortuna per un tacchino quando possiamo prenderlo gratis?" disse Billings. Così i due si avventurarono in un gioco che presto avrebbe rivelato il suo carattere irrazionale ma, allo stesso tempo, divertente. L’idea era quella di partecipare alla lotteria di un tacchino, una tradizione natalizia che permetteva di vincere il pavone della festa con una modesta puntata di venticinque centesimi. La lotteria si svolgeva all'interno di un bar affollato, dove il tacchino da venticinque chili troneggiava su una base di sedano e mirtilli rossi. Era lì, pronto ad essere vinto.
I due uomini, spinti da un'incredibile voglia di gioco e dalla frenesia delle festività, iniziarono a scommettere e a lanciarsi nei tiri di dado. Ogni lancio, ogni tentativo era intriso di speranza e follia. La fortuna, però, sembrava sfuggire, e le lancette del tempo correvano via, come le scommesse che continuavano ad accumularsi. Nonostante la scarsa probabilità di vincere, la posta in gioco sembrava sempre più allettante, e il tacchino, come un miraggio, diventava il simbolo di una vittoria che nessuno sapeva veramente desiderare fino a quel momento.
Ma alla fine, il dado rotolò fortunato per Billings. Con un grido di trionfo, vinse il tacchino, il premio tanto ambito. La scena, che all'inizio sembrava un gioco innocente, divenne presto un racconto di follia e soddisfazione. Il tacchino, un simbolo di abbondanza e festa, finì nelle mani di Billings. Eppure, mentre i due amici celebravano, un curioso disguido seguì. Tra un brindisi e un altro, Rawson scoprì che il tacchino non era più con loro. Forse dimenticato, forse "smarrito" durante una delle tante risate o in un momento di distrazione. Fu un momento di pura comicità, ma anche di riflessione sul valore delle cose.
Infine, il tacchino fu recuperato, ma la storia non si concluse con il semplice successo della lotteria. La ricerca del tacchino, che era diventato quasi una missione epica, richiamava qualcosa di più profondo: un gioco che si era trasformato in un simbolo di amicizia, di sfide e di una tradizione che, sebbene sembri frivola, in realtà rifletteva le dinamiche più complesse della vita stessa. I protagonisti, con la loro determinazione, ci insegnano che anche nei momenti di gioco e leggerezza si può trovare un significato profondo.
Quando si partecipa a giochi di fortuna, non si scommette solo sul premio finale, ma anche sull'esperienza, sulle emozioni, sul legame che si crea con gli altri, e persino sulla crescita personale che si verifica quando ci si confronta con la casualità. La ricerca di un tacchino, un oggetto che sembra tanto insignificante, diventa una metafora potente delle cose che inseguiamo nella vita, spesso senza sapere davvero cosa ci spinge verso di esse.
Inoltre, l'episodio del tacchino svela anche un aspetto fondamentale della nostra società: l'effimero valore attribuito agli oggetti materiali. Un tacchino vinto per caso, in fondo, non ha più valore di un semplice pasto. Ma la storia ci mostra come, a volte, il valore più grande risiede non nel premio in sé, ma nell'avventura, nelle risate, e nelle connessioni che creiamo durante il nostro percorso.

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