Donald Trump ha costruito il suo successo politico non grazie a una carriera tradizionale nella politica, ma attraverso la creazione di un marchio forte e riconoscibile. Prima di entrare nella corsa per la presidenza nel 2016, Trump era già una figura nota, un imprenditore nel settore immobiliare, un personaggio televisivo e persino una celebrità nel mondo del wrestling. La sua carriera di brand builder lo ha portato a dominare l'attenzione pubblica, sfruttando al meglio le tecniche moderne di marketing diretto e branding.

La sua campagna per la presidenza, sebbene priva di esperienza politica diretta, è stata una sfida aperta alla struttura tradizionale della politica americana. Trump non solo ha superato le previsioni e gli sforzi per ostacolarlo da parte dell'establishment politico, ma ha anche scatenato una "paura morale" tra le élite, che si sono viste minacciate dal suo approccio non convenzionale. La sua capacità di attrarre consensi, senza passare attraverso i canali tradizionali di approvazione, ha messo in luce una nuova dinamica in cui il branding e il marketing hanno assunto un'importanza centrale.

La politica, ormai, non riguarda più solo le politiche e i programmi, ma è diventata una battaglia per l'identità, un gioco di segmentazione e differenziazione. Trump ha utilizzato il branding in modo tale da aggirare i meccanismi tradizionali di selezione delle figure politiche, creando un marchio che parlava direttamente a un elettorato che si sentiva ignorato dalle élite. Il suo successo, infatti, non è stato solo una questione di soldi o di tradizionale potere politico, ma una vittoria di un nuovo modo di fare politica, centrato sulla connessione emotiva con il pubblico attraverso tecniche moderne di marketing.

Nel 2020, lo stesso processo si è ripetuto, ma con un'altra figura che ha sfidato l'establishment, Bernie Sanders. Sebbene la sua campagna non avesse le stesse caratteristiche del brand Trump, ha rappresentato comunque una minaccia alle strutture tradizionali del Partito Democratico. La successiva ascesa di Joe Biden, dopo la vittoria in South Carolina, ha consolidato l'autorità dell'establishment, ma la lotta interna tra élite e outsider ha continuato a segnare la politica americana.

In questo nuovo panorama, i confini tra politica e marketing si sono fatti sempre più sottili. L'abilità di un candidato di costruire un marchio potente può risultare determinante per il successo, come ha dimostrato Trump, ma anche la capacità di raggiungere e mobilitare elettori attraverso i social media è diventata essenziale. Trump ha sfruttato i social per costruire una connessione diretta con il suo pubblico, bypassando i media tradizionali e i meccanismi consolidati di comunicazione politica.

La questione del "Deep State" sollevata da Trump ha ulteriormente evidenziato un altro aspetto del suo approccio: la critica alla burocrazia e ai gruppi di potere non eletti che, secondo lui, ostacolano i desideri del popolo. Sebbene la terminologia possa essere stata imprecisa, la critica al potere invisibile che agisce dietro le quinte ha fatto luce sulla crescente frattura tra chi controlla le leve del potere e chi cerca di esercitarlo democraticamente.

Tuttavia, l'ascesa di Trump non ha rappresentato solo una vittoria per un tipo di politica di marca, ma ha anche scatenato un conflitto di valori e una battaglia per il controllo delle risorse economiche e politiche. La sua vittoria ha segnato la fine di un ordine che sembrava consolidato, ma ha anche messo in luce l'impossibilità di mantenere la politica nelle mani di una élite ristretta. L'America è cambiata, e con essa, anche il suo paesaggio politico.

Nel contesto di un paese che sta affrontando rapidi cambiamenti economici, demografici e culturali, la politica non può più essere monopolizzata da un gruppo di élite concentrate in poche aree geografiche. Trump ha dimostrato che è possibile per un outsider farsi strada nella politica, ma la sua sconfitta nel 2020 ha anche mostrato che la politica non è solo questione di marketing, ma dipende anche dalle circostanze sociali ed economiche. Ogni campagna, infatti, deve adattarsi alla realtà del momento, ed essere in grado di rispondere ai cambiamenti rapidi della società.

Le campagne politiche del futuro, in particolare quelle degli outsider, dovranno fare i conti con un panorama politico sempre più frammentato, dove le identità e le differenze di classe, etnia e cultura giocano un ruolo sempre più rilevante. La politica non è più solo un dibattito sulle politiche, ma una lotta per definire cosa significa essere un americano, e chi ha il diritto di parlare per gli altri. Trump e i suoi avversari progressisti hanno alimentato questa battaglia, creando brand fortemente emotivi che risuonano con il pubblico, ma dividono profondamente la nazione.

Le campagne moderne, come quelle di Trump e Sanders, ci insegnano che la politica sta diventando sempre più simile al marketing di consumo. La strategia del "branding" ha il potere di mobilitare intere masse, ma porta con sé anche un alto rischio di polarizzazione. La politica, quindi, sta evolvendo in un campo di battaglia dove il controllo delle emozioni e delle percezioni diventa tanto importante quanto il controllo delle idee politiche.

La personalità del marchio presidenziale: Trump, Reagan e il marketing politico

Durante la pandemia di COVID-19, le tendenze politiche di Donald Trump sono state esemplificate in modo chiaro. Sebbene Trump organizzasse frequenti conferenze stampa per motivi di marketing, la risposta effettiva alla crisi sanitaria veniva affidata a una task force, guidata dal vicepresidente e dai governatori degli stati. Questo approccio dimostrò come Trump si fosse ormai trasformato in un marketer della Casa Bianca, un profilo che rimandava a Ronald Reagan. Nonostante le differenze politiche significative tra i due, entrambi incarnavano una forma di leadership incentrata sulla costruzione di un'immagine e sulla comunicazione emotiva con l'elettorato.

Reagan e Trump hanno avuto visioni politiche diverse: Reagan era un conservatore fiscale, mentre Trump non sembrava preoccuparsi molto del bilancio nazionale; Reagan aveva una visione globalista della politica estera, mentre Trump preferiva una linea nazionalista. Entrambi, tuttavia, condividevano una critica simile ai programmi federali, che ritenevano beneficiassero solo una ristretta élite a discapito della maggioranza. Reagan, pur avendo una visione critica dei programmi del New Deal, si proponeva come un restauro dei valori, dell’economia e della forza americana. Trump, sebbene avesse copiato il celebre slogan di Reagan "Make America Great Again", cercava di evocare un’America perduta, con la sua rabbia e nostalgia per un passato glorioso.

La gestione della Casa Bianca sotto Reagan era più tradizionale, con un’approfondita operazione di marketing e comunicazione, mentre Trump preferiva un approccio più diretto e "pratico", spesso in contrasto con le modalità convenzionali. Reagan, pur essendo un outsider e un ribelle rispetto alla politica tradizionale, aveva un'esperienza significativa come governatore della California e sapeva cosa fosse realizzabile in politica. Trump, d’altro canto, non aveva alcuna esperienza governativa diretta e si vantava della sua capacità di parlare senza filtri, come dichiarò durante il suo discorso al CPAC del 2019: "Non seguo uno script".

Sebbene Reagan fosse noto per il suo ottimismo e per la sua ironia, Trump si distinse per un tono più aggressivo e polemico. La sua retorica era fatta di toni esagerati, in cui i suoi oppositori venivano etichettati come stupidi o addirittura subversivi. Trump raccontava storie emotivamente cariche, mirando a generare una reazione forte nei suoi sostenitori, spesso utilizzando attacchi diretti e un linguaggio volutamente provocatorio. A differenza di Reagan, che si avvaleva di toni più calmi e umoristici per veicolare il suo messaggio, Trump si concentrava sull'incessante costruzione del suo marchio personale, senza mai sforzarsi di rispettare la disciplina del messaggio che di solito caratterizza le amministrazioni presidenziali.

L’amministrazione Trump, sebbene inizialmente ricca di attività esecutive, non riuscì a sfruttare le strategie comunicative tradizionali per costruire il sostegno pubblico e congresso per le proprie politiche. Piuttosto, mantenne una costante attività, cercando di generare presenza ubiqua del suo marchio, una strategia che puntava sulla visibilità costante piuttosto che sul passaggio di specifiche leggi. La costante attività del presidente serviva a mantenere l'attenzione del pubblico, per costruire la "brand awareness" e fidelizzare i suoi segmenti elettorali, anche se ciò non portava sempre a successi legislativi concreti.

Trump sapeva che l’obiettivo era creare una presenza ubiqua, in modo che il marchio Trump fosse sempre visibile, ovunque e in ogni momento, in un mondo saturato dai media sociali. Questo approccio aggressivo non solo rispondeva alla necessità di continuare a guadagnare attenzione, ma costruiva un ambiente in cui era impossibile sfuggire al marchio Trump. In questo contesto, Trump come Clinton si trovava costantemente al centro di scandali e polemiche, ma a differenza di Clinton, non si scusava mai pubblicamente, piuttosto contrattaccava, mantenendo sempre una narrativa di difesa e resilienza.

Una delle caratteristiche centrali della sua campagna e della sua amministrazione fu la sua abilità nel mantenere promesse, come ripeteva in modo insistente in ogni occasione. I suoi comizi e le conferenze stampa erano dominati dallo slogan "Promesse mantenute", un messaggio che mirava a consolidare la sua immagine di uomo di parola, un elemento centrale nella strategia di marketing del suo marchio. Questo approccio si allineava con la strategia di "sticky branding", che si concentra sulla creazione di un marchio che sia irresistibile e che resti impresso nella mente dei consumatori.

Tuttavia, come ogni strategia, quella di Trump aveva delle limitazioni. La sua personalità di marca, che aveva un forte richiamo per la classe lavoratrice, riusciva a colpire un numero ristretto di segmenti elettorali, ma non si estendeva altrettanto bene ad altri gruppi. Inoltre, la forza del marchio Trump dipendeva dal contesto in cui veniva inserito. Trump aveva difficoltà ad affrontare concorrenti come Bernie Sanders, il cui marchio, pur differente, era altrettanto emotivo e capace di costruire una lealtà profonda tra i suoi sostenitori. La differenza sostanziale tra i due era che Sanders si concentrava su un altro tipo di storie emotive, parlando dei temi che preoccupano le persone comuni, ma con un tono di autenticità e integrità che Trump non riusciva a emulare.

Il marchio Trump ha avuto, quindi, un forte impatto su una parte dell’elettorato, ma ha anche mostrato i suoi limiti quando si è trattato di confrontarsi con candidati che, pur avendo strategie simili, avevano costruito una connessione emotiva diversa con i loro sostenitori. In fin dei conti, la politica di Trump è stata, in grande misura, un esercizio di branding, un continuo affinamento di una persona e di un'immagine che dovevano rimanere al centro della scena, attirando attenzione e creando emozioni, al di là dei contenuti specifici delle politiche adottate.