L’ampia diffusione e l’accettazione della medicina ortodossa hanno contribuito a una svalutazione quasi totale delle pratiche tradizionali o alternative, come quelle degli osteopati, degli erboristi e dei chiropratici. Questa esclusione sistematica, giustificata dalla presunta superiorità scientifica della medicina ufficiale, ha portato allo scarto di un patrimonio di conoscenze potenzialmente prezioso per la cura olistica della persona. Negli ultimi decenni, tuttavia, si è assistito a un aumento della consapevolezza pubblica riguardo a pratiche di salute più ampie e integrate, come la crescente disponibilità di alimenti biologici e il lavoro di agenzie governative per la promozione della salute. Nonostante ciò, la presenza invadente di alimenti industriali e fast food, persino nelle strutture sanitarie urbane, dimostra la persistenza di un modello alimentare e culturale poco attento alla qualità nutrizionale.

L’esclusione delle medicine complementari dagli ospedali pubblici e dalle agenzie sanitarie statali continua a essere una realtà. Medici naturopati e operatori di altre discipline complementari non ricoprono ruoli significativi all’interno del sistema sanitario ufficiale. Questa divisione si radica anche nelle critiche mosse da pensatori come Illich, Carlson e Taylor, che evidenziavano come la biomedicina fosse stata travolta dall’onda del tecnicismo, perdendo di vista la capacità intrinseca del corpo e della mente di autoguarirsi. La medicina, secondo questi autori, aveva concentrato potere scientifico e istituzionale, ma a scapito di una connessione più profonda con le radici umane della guarigione.

Negli anni Ottanta, il conflitto tra medicina ortodossa e alternative si fece più esplicito, come si vede nei documenti della British Medical Association (BMA). In un rapporto del 1986, la medicina alternativa veniva duramente criticata e definita “inscientifica”, collegandola a superstizioni medievali e pratiche arcaiche. Tuttavia, un sondaggio tra medici praticanti rivelò che molti di loro avevano partecipato a corsi di medicina alternativa e che molti avevano indirizzato pazienti verso tali pratiche, mostrando una discrepanza tra la posizione ufficiale della BMA e il sentimento diffuso tra i professionisti. Di fronte a questa realtà, la BMA modificò il proprio linguaggio, parlando da quel momento di “medicine complementari” per indicare modalità di cura diverse senza però mettere in discussione la supremazia della biomedicina.

Il caso di Ian Gawler, veterinario australiano sopravvissuto a un osteosarcoma grazie a un mix di cure biomediche e alternative, mette in luce le tensioni di questo confronto. Il suo libro, in cui raccontava la sua esperienza di guarigione attiva, fu aspramente criticato da figure eminenti del mondo medico, come l’oncologo Michael Baum, che definì tali approcci “irrazionali” e pericolosi, sottolineando il rischio di allontanare i malati dalle terapie oncologiche validate scientificamente. Tuttavia, l’analisi di queste critiche mostra come esse fossero più ideologiche che fondate su una reale comprensione delle proposte di Gawler, il quale non sosteneva mai di avere una cura miracolosa, ma sottolineava l’importanza dell’impegno personale e del ruolo attivo del paziente nella lotta contro la malattia.

Questa dinamica riflette un conflitto più ampio tra una medicina dominata dalla tecnologia e un approccio che valorizza la responsabilità individuale e le capacità innate di guarigione. La sfida per la medicina contemporanea è dunque riconoscere e integrare queste diverse dimensioni, evitando sia un tecnicismo cieco sia un rifiuto totale delle conquiste scientifiche. In questa prospettiva, la medicina dovrebbe non solo alleviare la malattia, ma anche promuovere l’autonomia e la consapevolezza del paziente, affrontando le molteplici sfide sanitarie, sociali e ambientali che oggi emergono.

È fondamentale comprendere che la salute non è solo assenza di malattia, ma uno stato dinamico che coinvolge corpo, mente e ambiente. La complementarità tra biomedicina e pratiche olistiche non deve essere vista come una minaccia, ma come un’opportunità per una visione più completa e umana della cura. Accogliere questa pluralità significa anche riconoscere la necessità di un dialogo continuo e rispettoso tra discipline diverse, dove la scienza e l’esperienza del paziente si incontrano per costruire percorsi terapeutici efficaci e personalizzati.

La medicina complementare può essere valutata con gli stessi criteri della biomedicina?

Le modalità terapeutiche delle medicine complementari continuano ad essere sottoposte a pressioni affinché vengano valutate secondo criteri elaborati originariamente per testare i farmaci sulla base di patologie specifiche. Tuttavia, tali criteri riflettono una visione riduzionista del corpo e della malattia, propria della biomedicina, e non si adattano ai presupposti epistemologici e clinici più ampi della medicina complementare. Il confronto tra questi due modelli solleva interrogativi fondamentali sulla legittimità di utilizzare strumenti di validazione che non sono stati pensati per approcci diagnostici o terapeutici olistici.

La biomedicina, grazie alle sue conquiste tecnologiche e alla solidità delle sue istituzioni formative e di ricerca, ha raggiunto un livello di precisione e controllo senza precedenti nella storia. Tuttavia, la sua enfasi sull’oggettività misurabile ha prodotto una pratica clinica fortemente standardizzata, nella quale il medico, formato in ambienti ospedalieri e plasmato da un pensiero scientifico dominante, rischia di perdere quella sensibilità clinica capace di cogliere le sfumature soggettive dell’esperienza del paziente. Il trattamento diventa spesso un protocollo più che una relazione. In questo contesto, molti pazienti – specie quelli inclini all’autonomia – sentono il bisogno di un coinvolgimento più attivo, di sapere cosa possono fare per se stessi, piuttosto che cosa verrà fatto su di loro.

Negli ultimi decenni, si è affermata una maggiore attenzione verso la prevenzione e il rafforzamento della salute, in opposizione al controllo farmacologico dei sintomi. Le medicine complementari hanno offerto non solo nuove opzioni terapeutiche, ma anche un’altra lente attraverso cui osservare i limiti della biomedicina e una diversa prospettiva sulla cura. Esse propongono approcci alternativi sia nella diagnosi sia nel trattamento, basandosi su epistemologie che non possono essere ridotte a semplici relazioni causa-effetto.

Nonostante la crescente accettazione culturale, le medicine complementari sono ora chiamate a dimostrare la loro efficacia attraverso test sistematici. Ma l’imposizione di standard come il trial clinico randomizzato (RCT) su pratiche olistiche appare problematica. L’RCT, introdotto formalmente nella medicina negli anni ’40, rappresenta il vertice della metodologia quantitativa per stabilire se un intervento modifica in modo significativo il decorso naturale di una patologia. Tuttavia, il suo impianto metodologico si fonda su assunti epistemologici specifici: l’uniformità del campione, la neutralizzazione dell’effetto placebo, la riduzione della complessità a variabili isolate e misurabili. Questi presupposti, coerenti con una medicina fondata sulla sperimentazione farmacologica, non si adattano a pratiche terapeutiche che valorizzano la soggettività, la relazione, il contesto e la globalità dell’esperienza umana.

Le categorie diagnostiche impiegate nella medicina tradizionale cinese, ad esempio, differiscono radicalmente da quelle biomediche. Il medico cinese non cerca la causa anatomica di un sintomo, ma osserva la totalità funzionale e dinamica del paziente nel momento presente. I suoi strumenti – ispezione, interrogazione, auscultazione, olfazione e palpazione dei polsi – mirano a cogliere direttamente i segnali sensibili della condizione energetica complessiva. La valutazione non si fonda su modelli astratti, ma sulla capacità di interpretare la realtà fenomenologica vissuta dal paziente.

L’esigenza di evidenza, che nella biomedicina si traduce nella richiesta di "prove", si trasforma così, per la medicina complementare, in un "onere della prova" carico di asimmetrie epistemiche e istituzionali. La storia recente mostra però un’evoluzione: l’inserimento delle medicine complementari nei contesti universitari, l’accesso a risorse tecniche e bibliografiche, la nascita di una cultura della ricerca e il supporto pubblico sempre più frequente ne hanno rafforzato il profilo istituzionale. Il riconoscimento politico e culturale è il frutto diretto di una domanda crescente da parte della popolazione, non di una concessione dall’alto.

La pressione della società, più che delle istituzioni, ha spinto persino alcuni ambienti della medicina convenzionale ad adottare un empirismo cauto, interrogandosi sul senso dei racconti ricorrenti dei pazienti che testimoniano benefici da approcci alternativi. Il sapere clinico, in questa nuova cornice, non può più ignorare la pluralità delle esperienze né la diversità dei paradigmi terapeutici.

La legittimità di una medicina non può essere fondata esclusivamente sulla sua capacità di aderire a un solo modello conoscitivo. L’efficacia, quando è vissuta, testimoniata e trasformativa, sfida i confini della misurabilità statistica. Occorre allora sviluppare metodi di ricerca più adatti alla complessità relazionale e fenomenologica della medicina complementare, capaci di includere la soggettività, la temporalità e la narrazione come elementi fondamentali del processo terapeutico.